Papa Clemente V (celebre per aver soppresso l’Ordine dei Templari) e l’eresia dolciniana (fra’ Dolcino). La macchina della Santa Inquisizione si mosse. Sotto gli ordini dei domenicani, dopo che la sua compagna e i suoi collaboratori più stretti furono bruciati, Dolcino venne condotto in pubblica piazza. Con tenaglie roventi il boia gli strappò la lingua, gli amputò il naso ed infine lo evirò. Non gridò, non supplicò, guardò i suoi carnefici con sguardo fiero. Infine fu bruciato vivo e le sue ceneri furono disperse al vento.
di Michele Allegri
I documenti storici ci insegnano quale ruolo primario abbia avuto papa Clemente V nella vicenda dei Templari. Come era sua prerogativa, come sapete, abolì l’Ordine templare in maniera perpetua nel 1312 e lo fece senza subire alcun condizionamento da parte del cristianissimo Filippo IV il Bello, re di Francia. Non è vero, infatti, che questo papa fosse in stato di prigionia e/o di soggezione nei confronti del re di Francia, solo perché aveva scelto come sede del suo pontificato la città di Avignone.
Infatti è bene che io vi faccia luce su questa questione: La città di Avignone non era parte del Regno di Francia ma, dal 1271, era un Contea indipendente dal regno francese, controllata per metà dalla famiglia degli Angiò e per metà, la parte orientale, dagli stessi pontefici di Santa Romana Chiesa. Essi attuavano, infatti, il pieno dominio anche su tutto il Contado Venassino, che comprendeva appunto la città di Avignone. Già dal 1229, infatti, dopo la fine della crociata contro i catari, i pontefici di Roma “godevano la signoria del territorio abbracciante Avignone dalla parte d’oriente, il Contado Venassino” [rif. Enciclopedia Treccani]. Avignone e la sua popolazione, come era avvenuto nelle principali città della Linguadoca, avevano preso parte attiva contro la Chiesa di Roma e la religione cattolica, abbracciando sin da subito l’eresia cristiana dei Perfetti (detti catari o albigesi). Avignone, per questo motivo, fu scomunicata nel 1226 e il cardinal legato “la condannò ad avere mura e torri distrutte, abbattute trecento case turrite, a pagare grave tributo, a giurare lotta spietata contro gli eretici albigesi” contro i quali, badate bene, non presero posizione i cavalieri templari. Questo dato sta a significare che i Templari appoggiavano questa forma di ribellione dottrinale e politica.
Il principe francese Bertrand de Goth fu eletto papa, col nome di Clemente V, nel 1305 dopo il Concilio di Lione. Nel 1309 decise di spostare la corte papale da Roma alla Guascona prima e a Carpentras poi, nel Contado Venassino. Questa era una zona amena e tranquilla, diversamente da Roma, dove imperversavano disordini e contese causati dalle soperchierie della nobiltà nera romana senza freni.
Sarà poi Giovanni XXII, vescovo di Avignone, e successore di Clemente, a completare lo spostamento della sede papale in quella città nel 1316, due anni dopo il rogo dei capi dell’Ordine del Tempio. I papi rimasero ad Avignone fino al 1377, quando papa Gregorio IX la riportò a Roma. Ben sette furono i pontefici cattolici che guidarono la Chiesa cattolica da Avignone.
Clemente V decise di porre la sede papale ad Avignone per dare un chiaro segnale del potere della Chiesa ai ribelli eretici catari che, ancora sotto il suo pontificato, scalpitavano per l’indipendenza religiosa, con l’appoggio politico della nobiltà locale che voleva la Linguadoca indipendente dal regno di Francia. Avignone, quindi, era una sede extra-territoriale della Santa Sede, come lo è oggi la Città del Vaticano. Detto questo, non c’è quindi da meravigliarsi delle posizioni dure di questo papa nei confronti delle eresie: contro quella catara, contro quella Templare e contro quella dolciniana.
Infatti, fu Clemente V a reprimere l’eresia di Fra’ Dolcino, indicendo contro di lui una crociata nel 1306, ordinando che lo torturassero ed infine mandandolo al rogo nel 1307, proprio quando i Templari, accusati di eresia, furono catturati sul suolo francese.
Dolcino era il figlio illegittimo di un sacerdote di Novara. Si trasferì a Trento dove sedusse una nobildonna e fu per questo motivo cacciato dal vescovo locale. Poi cominciò la sua predicazione formando un movimento ereticale e pauperistico, uno dei molti di quell’epoca. I seguaci di Dolcino arrivarono ad essere 10.000. Le sue predicazioni affascinavano le popolazioni piemontesi che incontrava sul suo cammino e si radicò fortemente tra le popolazioni montane della Val di Susa, sulle Alpi biellesi, riuscendo a toccare il cuore delle persone semplici proprio con la sua stessa simplicitas cristiana, tanto è vero che ancora oggi è ricordato con affetto e stima.
Voleva una Chiesa povera, affermava che fosse giusto saccheggiare le proprietà della Chiesa ed uccidere i corrotti che si annidavano tra gli ecclesiastici: monaci, predicatori, frati, eremiti e persino il papa. Profetizzava quindi l’arrivo della vera Chiesa, quella dell’Amore, sotto la guida dello Spirito Santo, ispirandosi alla predicazione di Gioacchino da Fiore. Con i suoi seguaci attuò molte azioni concrete, finché fu catturato da un dispiegamento di forze sotto gli ordini di papa Clemente che lo bollò come “un pestifero, figlio del demonio”. Il guelfo Dante (filo papista) gli preparò un posto all’inferno, tra i seminatori di discordie, mentre era ancora in vita, mettendo in bocca al profeta Maometto le seguenti parole: “Or dì a Fra’ Dolcin dunque che s’armi, s’egli non vuole qui tosto seguitarmi” (canto XXVIII dell’Inferno).
Posto in carcere assieme alla sua compagna e ai suoi seguaci, Dolcino non si pentì mai delle sue prediche e delle sue azioni. Papa Clemente V ordinò al vescovo di Vercelli che venisse bruciato al rogo come eretico ma che prima fosse pubblicamente torturato. Dolcino disse agli inquisitori che nemmeno la morte lo avrebbe fermato perché sarebbe resuscitato in tre giorni.
La macchina della Santa Inquisizione si mosse. Sotto gli ordini dei domenicani, dopo che la sua compagna e i suoi collaboratori più stretti furono bruciati, Dolcino venne condotto in pubblica piazza. Con tenaglie roventi il boia gli strappò la lingua, gli amputò il naso ed infine lo evirò. Le popolazioni accorse in piazza videro Fra’ Dolcino resistere al dolore come nessuno aveva mai fatto prima. Non gridò, non supplicò, guardò i suoi carnefici con sguardo fiero. Infine fu bruciato vivo e le sue ceneri furono disperse al vento.
Michele Allegri