Ho avuto la fortuna di conoscere, tanti e tanti anni fa, un personaggio che poteva benissimo essere protagonista di uno dei romanzi di Salgari pur essendo un loanese doc.
di Gian Luigi Taboga
Si trattava di un vero vecchio e stagionato “lupo di mare” che faceva un tempo il nostromo su uno degli ultimi bastimenti a vela con rotta Sud America. Qualcosa che stava tra l’avventura e l’epopea di personaggi fantastici, irripetibili e affascinanti che è difficile immaginare ai tempi nostri
“Tugnin u Balusse”, al secolo Antonio Calvi, come nostromo comandava la ciurma di un veliero che faceva la spola tra l’Italia e il Cile per trasportare prezioso guano da quelle lontane sponde, per essere utilizzato come concime, allora infatti i concimi chimici non erano usati in agricoltura.
Per una nave a vela simile carico era quanto di peggio si potesse trasportare. Con tonnellate di escrementi di uccelli marini in stiva l’ambiente non era certo dei più confortevoli e trovare l’equipaggio adatto e disponibile a sopportare mesi d’imbarco, nel lezzo più rivoltante e in quelle condizioni igieniche, non era certo impresa facile.
La maggior parte dei marinai dopo una prima esperienza era talmente scioccata da preferire la fame al reimbarco, in simile inferno.
Quando la nave faceva scalo in qualche porto era il fuggi/fuggi generale dalla sua vicinanza, tanto ammorbava l’aria nei suoi dintorni.
Per reclutare l’equipaggio non restava che rivolgersi a gente di bassa lega, spesso senza scrupoli e attirati comunque da un remunerativo ingaggio. Tenere a bada simile equipaggio e farlo lavorare richiedeva doti eccezionali di autorevolezza, di forza e determinazione.
Queste erano le doti di Tugnin che doveva sedare anche proteste non troppo velate e tentativi di ammutinamento.
Lui, il nostromo, non portava la cintola ai pantaloni, di tela grezza come le vele della sua nave, ma una fascia che gli avvolgeva e sosteneva la vita; in quella fascia sonnecchiava, ben nascosta, la “squarcina” a lama ricurva che rappresentava il miglior deterrente per chi sapeva come usarla al momento opportuno,.
Il nostromo era di poche parole, dal tono asciutto e secco come gli ordini che era abituato a dare, e io che pendevo dalle sue labbra non potevo che completare i suoi racconti con la fantasia di un bambino: oceano infinito , tempeste,…… mondi lontani e fantastici colloquiando con il pappagallo variopinto che portava su una spalla.
Il suo sguardo era sempre rivolto lontano, verso un orizzonte immaginario e il tempo scandito ancora dal suono della campana dei turni di guardia che a Loano si confondeva con i dolci rintocchi della Chiesetta del Loreto.
Quanti ex voto al ritorno da ogni viaggio e quante preghiere deposti ai piedi della Madonnetta da quelle mani callose, segnate dalla fatica, dal sole e dalla salsedine. Quello sguardo severo e dolce al tempo stesso, perso nel ricordo di un tempo che fu e al desiderio ….….che al navigante intenerisce il core!
Un ricordo a te Tugnin ed un lumino acceso sul mare, perché ti indichi la rotta verso il tuo Paradiso, di acqua, di vento e di coraggio!!!!!
Da Gianni ancora in ascolto…
Gian Luigi Taboga