“Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre.Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento…Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”. Paolo Borsellino.
Articolo tratto da Liberainformazione. Osservatorio sull’informazione per la legalità e contro le mafie
di Lorenzo Frigerio*
Il cielo di Sardegna in questi giorni è solcato da qualche nuvola di troppo, ma il sole riesce quasi sempre ad avere la meglio e permette ai locali e ai turisti di godersi un meraviglioso mare, osservando diligentemente, chi più e chi meno, le doverose precauzioni post pandemia.
Sono passati trentacinque anni dal 1985 e, al netto dei cambiamenti originati dal trascorrere del tempo, il cielo e il mare di Sardegna conservano la stessa sfolgorante bellezza, che dovettero regalare sicuramente a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sbarcati in fretta e furia all’Asinara con le loro famiglie in quell’estate di fuoco, non solo meteorologico.
I due giudici e le loro famiglie furono allora allontanati da Palermo per scongiurare le voci di un attentato ai loro danni, provenienti dal “Grand Hotel” Ucciardone, quando il cosiddetto “carcere duro”, previsto dall’art. 41bis, doveva essere ancora progettato dal legislatore e introdotto nell’ordinamento penitenziario, proprio per impedire comunicazioni e ordini dei boss, diretti dall’interno delle prigioni al loro esterno. Falcone e Borsellino si trovarono così a trascorrere insieme quella reclusione forzata, finalizzata al completamento della scrittura dell’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso alla mafia. Soltanto la compagnia dei propri cari e la natura incontaminata furono loro di conforto in quelle settimane di fatica, in un regime di massima allerta tale da essere guardati a vista in ogni loro spostamento su quel piccolo lembo di terra sarda.
Quello che è successo dopo quell’esilio all’Asinara è ormai entrato nella storia del nostro Paese, anche se tanti lo hanno dimenticato e molti lo ignorano per ragioni anagrafiche: l’avvio del maxiprocesso e il suo svolgimento con le testimonianze di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno a corroborare il lavoro del pool antimafia; il riconoscimento e la prova dell’esistenza dell’organizzazione criminale denominata “Cosa nostra” e la conseguente storica sentenza; l’imprevisto ridimensionamento delle condanne in sede d’appello; le divisive polemiche sui “professionisti dell’antimafia”; le ripetute sconfitte professionali patite da Falcone fino al suo trasferimento al Ministero di Giustizia a Roma e, infine, la conferma dell’impianto accusatorio in Corte di Cassazione, che ribaltava ogni aspettativa dei mafiosi, fiduciosi nelle promesse dei politici collusi su un esito più favorevole per le cosche.
Una svolta epocale
Vista e riletta da qui, dalle coste della Sardegna, in questi giorni di quasi riconquistata normalità, dopo un’altra innaturale clausura, quella imposta dal lockdown, la straordinaria epopea dei due giudici palermitani assume un sapore ulteriore e particolare: quello di un’impresa quasi impossibile, di un vero e proprio sforzo titanico, mai completamente compreso dai propri colleghi, ma soprattutto dai propri concittadini. La fatica improba, cioè, di chi voleva produrre nelle istituzioni e nella pubblica opinione un cambiamento culturale nella lettura e nella comprensione della mafia: un fenomeno non solo criminale, ma sociale, quanto mai complesso e distruttivo. Un cancro abbarbicato fin dalle origini all’interno della fragile democrazia repubblicana, la cui nascita fu, sì sancita grazie all’armistizio di Cassibile, ma, in realtà fu bagnata dal sangue dei manifestanti di Portella della Ginestra. Una Repubblica, quella italiana, fin dal suo esordio figlia illegittima di una trattativa innominabile tra pezzi dello Stato e poteri extralegali, una trattativa normalmente condotta a bassa intensità, ma pronta a riaccendersi e a farsi bollente nei momenti di tensione sociale e/o di passaggio politico.
Uno sforzo titanico il loro, che fu reso ancor più complesso dall’apparente normalità circostante: oggi come allora, tutto quello che turba il quieto vivere viene avvertito dalla maggioranza come una seccatura, un freno alla libertà, quando invece il rispetto e la condivisione delle regole sono la garanzia migliore di una convivenza sicura e pacifica. Falcone e Borsellino produssero a quei tempi insofferenza e fastidio nei più, tanto colleghi quanto cittadini: il fatto che i due iniziarono a diventare pubblicamente simbolo di rinnovamento e riscossa dello Stato, proprio a partire dalla loro permanenza in terra di Sardegna, dove la bellezza della natura sovrasta ogni pensiero di morte, rese tutto ancora più incomprensibile prima e insopportabile poi.
Senza quell’estate del 1985 in Sardegna non ci sarebbe stato tutto quello che è stato ricordato prima: un lungo e tortuoso percorso di avvicinamento ad un anno, il 1992, davvero straordinario, perché in grado di rappresentare, per la qualità degli avvenimenti e dei cambiamenti ad esso ascrivibili, quelli di un intero decennio. Una svolta davvero epocale.
Il 1992, infatti, segnò un momento di crisi apparentemente unico nel panorama italiano, un frangente temporale in cui avrebbe potuto affermarsi quello sforzo culturale, mentre crollavano uno dopo l’altro i tradizionali bastioni di un sistema di potere, che era riuscito a inglobare, non senza violente spinte centrifughe, anche realtà criminali e associazioni segrete. Un terremoto politico e sociale reso possibile da quanto stava accadendo a Milano, con l’apertura della stagione di Tangentopoli, grazie al lavoro dei magistrati del pool di “Mani pulite”, che avevano tolto il coperchio alla pentola della corruzione fatta sistema, con i partiti legittimanti la pratica della “dazione ambientale”, cioè la mazzetta contabilizzata dalle imprese nella pianificazione delle grandi opere pubbliche.
Mentre a Milano finirono sotto accusa i politici della Prima Repubblica, fu nel medesimo arco temporale che la Cosa nostra di Riina, Bagarella e Brusca, più ancora che quella di Provenzano e Messina Denaro, mise in atto la strategia di vendetta e di attacco allo Stato, fedele al pensiero del boss di Corleone, secondo cui “per fare la pace, prima bisogna fare la guerra”. Caddero Salvo Lima e Ignazio Salvo, garanti dei patti inconfessabili con le cosche e furono uccisi con le loro scorte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In meno di un anno, cambiò completamente la geografia del potere reale in Italia, non solo quello rappresentato dalle istituzioni legittime.
Ecco perché sarebbe stato decisivo se si fosse allora applicato nella lotta alla mafia il punto di vista culturale, pensato e costruito da Falcone, Borsellino e gli altri del pool di Palermo; ridurre invece la battaglia contro le cosche ad un mero fatto di repressione giudiziaria produsse, nel lungo periodo, la ricomposizione del quadro parzialmente saltato nel corso del 1992. Non sarebbe più stata forse Cosa nostra a goderne direttamente, ma altre organizzazioni come la ‘ndrangheta, che ne avrebbe preso il posto nella relazione con gli altri poteri.
Il gioco grande del potere
Falcone ebbe il tempo di comprendere “il gioco grande del potere”, all’interno del quale si muovevano le “menti raffinatissime”, che avevano progettato l’attentato all’Addaura ai danni suoi e dei magistrati svizzeri. Allora, molto probabilmente, tentò di alzare la posta, trasferendo la sede dello scontro dal ridotto claustrofobico di Palermo fino a Roma, nei palazzi del Governo, puntando tutto sull’introduzione di nuovi strumenti di contrasto alla mafia, che fossero in grado di recidere i pericolosi legami con politica, finanza e massoneria deviata. Non fu capito, ma osteggiato e perse la vita, alla vigilia della sua possibile, anche se non scontata, nomina alla guida della nuova Procura nazionale antimafia.
A quel punto Paolo Borsellino capì di essere rimasto solo.
Caduto Falcone, perso il suo scudo naturale, avrebbe dovuto essere lui a confrontarsi con il sistema criminale, che aveva spazzato via l’amico e collega. In passato Borsellino aveva a sua volta protetto Falcone, ma ora le possibilità di difendersi a vicenda erano azzerate per sempre.
Per questo motivo i cinquantasette giorni che separarono Capaci da via D’Amelio divennero una difficilissima corsa contro il tempo, che il procuratore aggiunto di Palermo si trovò a vivere in totale solitudine, dovendo affrontare numerosi ostacoli.
Innanzitutto quelli frapposti sul suo cammino, inspiegabilmente ma non troppo, alla luce di quello che sappiamo oggi, dai suoi stessi colleghi. Il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco in primis, restio, fino all’ultimo giorno utile, ad affidargli la delega per indagare sulle cosche palermitane, potenziale grimaldello per decifrare le motivazioni di Capaci dal versante mafioso. E poi il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, che mai convocò Borsellino, perché potesse affidare al giudice competente quelle che erano le sue conoscenze dell’avversario criminale e le sue supposizioni sulla morte di Giovanni Falcone.
Altri intralci alla sua corsa contro il tempo furono quelli causati dai carabinieri del Ros: dalle complesse indagini sul “Dossier mafia e appalti” ai segreti sulla mediazione richiesta a Vito Ciancimino, non fu certo una passeggiata di salute la sua relazione di lavoro con gli esponenti dell’Arma in quelle ultime settimane di vita.
Siamo in buona compagnia nel credere che, se Borsellino lo avesse saputo, si sarebbe opposto con tutte le sue forze all’ambigua negoziazione avviata con l’ex sindaco di Palermo Ciancimino. Avrebbe considerato uno schiaffo indecente alle vittime di mafia, non solo quelle di Capaci, il solo pensare di intavolare una trattativa con i boia di tanti servitori dello Stato e di altrettanti inermi cittadini. Quindi, non è da escludere l’ipotesi che proprio l’essere venuto a conoscenza della trattativa sia stata la causale prima nell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino.
La sua, infine, fu una corsa contro il tempo, anche per cogliere le opportunità createsi con l’apertura di alcune crepe nel muro granitico dell’organizzazione mafiosa, in seguito all’uccisione di Falcone. Lo straordinario evento omicidiario e il clamore successivo crearono diversi scompensi all’interno di Cosa nostra, perché non tutti concordavano con la linea decisa da Totò Riina. Le parole di Rosaria Costa Schifani ai funerali dei caduti di Capaci spinsero diversi elementi dell’organizzazione, di livello più o meno apicale, a considerare plausibile l’ipotesi di collaborare con la giustizia.
E a chi questi mafiosi chiesero di affidare la loro volontà di consegnarsi nelle mani dello Stato? Ovviamente a Paolo Borsellino, che raccolse in quei giorni le parole di nuovi collaboratori di giustizia, tra Italia e Germania, dove si recò più volte.
Ecco forse spiegato il senso delle parole pronunciate il 25 giugno 1992 uscendo dalla Biblioteca comunale di Palermo, al termine dell’incontro pubblico, voluto dalla rivista Micromega per celebrare Giovanni Falcone – “Non c’è più tempo. Non c’è più tempo” – e ricordate anche recentemente da Nando dalla Chiesa.
Una mancanza di tempo, quella lamentata dal giudice, che va però decifrata e compresa, per evitare di fermarsi alla superficie dei fatti.
Borsellino sapeva innanzitutto, di avere lui poco tempo a disposizione, perché era diventato certamente il prossimo nome della lista nera, il primo a dover essere eliminato, in ragione delle conoscenze che aveva accumulato e della pericolosità che la sua figura poteva incarnare agli occhi della mafia e non solo.
Però non sfuggiva a Borsellino, che il poco tempo a disposizione era soprattutto quello da dedicare alla possibilità straordinaria di smontare il sistema relazionale di Cosa nostra, traendo vantaggio dal contemporaneo sconvolgimento dell’assetto del potere reale in Italia. Non era più pensabile perdere giorni e settimane, senza riuscire ad assestare qualche colpo decisivo alla mafia perché, prima o poi, le crepe, che si erano aperte nel versante mafioso, si sarebbero richiuse e anche i contributi dei nuovi collaboratori sarebbero diventati praticamente inservibili.
Il grado di consapevolezza dello scontro in atto raggiunto da Borsellino, la sua maturità di pensiero circa la consistenza reale della minaccia mafiosa e di quello che si muoveva all’ombra dell’organizzazione criminale lo spinsero inevitabilmente nel mirino dei killer. Le confidenze rese alla moglie Agnese, sulla sconvolgente visione della “mafia in diretta”, non fanno che fornire un’ulteriore e autorevole conferma: “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”.
Va ribadito, infatti, ancora una volta, che a decidere la sua fine non fu soltanto Cosa nostra, per la quale anzi furono dolori seri, vista la conversione del decreto “Scotti-Martelli” successiva alla strage di via D’Amelio e il trasferimento a Pianosa e all’Asinara di oltre cento mafiosi. Un pessimo affare quello fatto dalla mafia con l’uccisione del magistrato, che dovrebbe sempre far riflettere sui reali moventi dei fatti del 19 luglio. Gli squarci aperti su questo scenario, dal processo sulla trattativa Stato-mafia, fanno ben sperare sulla possibilità che, prima o poi, si arrivi ad una verità giudiziaria, magari preceduta dal raggiungimento di quella in sede storica, come è avvenuto per altri delitti eccellenti.
Ora, che il depistaggio sulle indagini e sui processi, realizzato con la “costruzione” di un falso pentito, quale Vincenzo Scarantino, è ormai acquisizione giudiziaria, risulta confermata l’impostazione culturale, per la quale Falcone e Borsellino si batterono fino alla fine.
Se la lotta alla mafia fosse stata solo una questione di manette e carceri, si sarebbe potuta chiudere da tempo; viceversa, i profondi legami, che l’organizzazione, anche nelle sue diverse denominazioni e peculiarità assunte nel corso dei secoli, intreccia con pezzi di politica, di società e di economia, richiedono una paziente bonifica sociale e culturale da condurre ogni giorno, senza respiro, per evitare che ogni occasione di illecito arricchimento e di negazione dei diritti penalizzi la vita ordinaria della collettività, moltiplicando la forza di questa particolare forma di criminalità associata.
In quei 57 giorni, Paolo Borsellino fu uno dei pochi a comprendere l’importanza di un simile approccio al tema mafioso e anche per questo fu tolto di mezzo, in quanto la sua storia e il suo presente lo rendevano del tutto incompatibile con qualsiasi forma di mercanteggiamento tra poteri legali e poteri illegali.
Ancora una volta ai nostri occhi, dopo così tanti anni, si ripropone intatto e cristallino lo straordinario valore di un uomo, che non si sottrasse a quella corsa disperata contro il tempo, disperata proprio perché senza alcuna speranza di riuscire vincente alla fine.
Un eroe dei nostri tempi? Sicuramente sì, ma anche un uomo che amava la vita e la famiglia e che si rassegnò ad abbandonare i suoi affetti più cari, solo in ragione di un obiettivo alto, utile non solo ad essi ma anche alla collettività.
Dobbiamo essere riconoscenti della grandezza di Paolo Borsellino. Evitiamo però di metterlo su un piedistallo per guardarlo dal basso verso l’alto; lasciamo che resti all’altezza del nostro sguardo, cerchiamo di riconoscerci nel suo amore per la vita e dall’incontro con la sua umanità potremo comprendere le ragioni del suo estremo sacrificio.
Ci piace pensare che, in quella torrida estate del 1985, la bellezza del cielo e del mare di Sardegna, la forza della vita che pulsava lungo quelle coste, gli possano essere state in qualche modo di stimolo, contribuendo a rafforzarlo in vista della corsa contro il tempo, che in fondo prese il via proprio dall’isola dell’Asinara.
Grazie allora, Signor Procuratore, per aver percorso la sua strada fino in fondo, insegnandoci che ne vale sempre la pena, se la meta da raggiungere è essenziale, in quanto è una risposta di senso alla vita.
*Lorenzo Frigerio