Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Giornali locali, futuro nero? Il Secolo XIX che non merita l’indifferenza collettiva


Il Secolo XIX, da qualche tempo, si presenta con una nuova veste grafica e uno sforzo redazionale impostato sulla qualità e l’approfondimento anche se, per motivi di costi e bilancio, viene a mancare l’inviato speciale sul territorio, l’impegno nelle inchieste giornalistiche locali. E il materiale non mancherebbe.

Si aggiunga la complessiva riduzione della forza  in campo nelle redazioni provinciali e tra i corrispondenti. Proprio dalle Province era iniziato il rilancio del quotidiano per eccellenza dei liguri, con punte storiche nelle vendite in edicola e raccolta pubblicitaria. E numero di giornalisti assunti nella redazione centrale, a Roma e nelle province liguri, fino al Basso Piemonte.

E’ destinato a riconquistare posizioni in edicola e on line ? (conveniente l’abbonamento annuale ridotto di oltre 40 €).  C’è però chi sostiene che nell’era digitale, ormai, siamo alla fine dei giornali locali.  Un uccello del male augurio ? Cosa accade in altri paesi europei ? Si parla del ‘modello Scalfari’, forse si dimentica i risultati del ‘modello Ottone’, almeno per il glorioso Decimonono negli anni dell’editore (Alessandro Perrone, seconda generazione e Cesare Brivio Sforza). Quindi la lenta e inesorabile, continua discesa; la crisi complessiva dell’editoria (Carlo Perrone, terza generazione); la proprietà passata ai De Benedetti e ora Gedi con le quote di maggioranza alla famiglia Elkann – Agnelli. Tra i soci minori Carlo Perrone che da anni si è trasferito con la famiglia a Parigi dove può contare su importanti interessi immobiliari. La rabbia dell’ing. Carlo De Benedetti ( a settembre parte il suo nuovo quotidiano affidato ad una Fondazione) che in Tv non ha esitato ai biasimare la scelta dei due figli: “Io avevo regalato ai miei figli l’azienda, e a me da piccolo hanno insegnato che i regali non si vendono…”.

La Stampa, già concorrente del Secolo XIX in Liguria, in particolare nel ponente, che ha scelto di riunire in un’unica edizione le notizie della Regione e anche nel suo caso con tagli al ‘patrimonio’ redazionale. E dovrà alla fine decidere se mantenere le pagine o ridurle ulteriormente. Probabile tuttavia che  si mantenga questo indirizzo editoriale anche perchè nel savonese vivono non meno di 10 mila cittadini originari della provincia di Imperia e dunque interessati a leggere notizie di quella realtà. E ancora, il diffuso IVG.it che più di ogni altro ha contribuito a falcidiare copie al Secolo XIX provinciale per la cronaca nera e bianca. Potendo contare, tra l’altro, nell’immediatezza delle notizie grazie al suo direttore responsabile, Andrea Chiovelli, unico collaboratore nel savonese dell’agenzia Ansa: primo punto di riferimento dell’informazione istituzionale con Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Vigili del fuoco,  Prefettura, Questura, ‘118’, Asl, Regione, Provincia, Comuni, enti pubblici e privati, associazioni di categoria, sindacati.

IL 2 GIUGNO DEL 2020 – La fine dei giornali locali? La prevede il direttore del New York Times. Secondo lui l’attuale modello di business non consente più la loro sopravvivenza. Il mercato italiano sembra dargli ragione. I nostri giornali locali hanno perso oltre la metà delle copie dal 2008, quelli più grandi i due terzi. Quanto potranno resistere prima di chiudere? E soprattutto, perché nessuno ne parla? – di Enrico Pedemonte/zerozerouno

di Enrico Pedemonte (dal sito ‘zerouno’)

La prevede il direttore del New York Times. Secondo lui l’attuale modello di business non consente più la loro sopravvivenza. Il mercato italiano sembra dargli ragione. I nostri giornali locali hanno perso oltre la metà delle copie dal 2008, quelli più grandi i due terzi. Quanto potranno resistere prima di chiudere? E soprattutto, perché nessuno ne parla?

Qualche giorno fa, nel corso del Congresso mondiale della International Media Association, il direttore del New York Times, Dean Baquet, ha detto una cosa che è rapidamente scivolata nel silenzio: “La più grande crisi nel giornalismo americano è la morte dei giornali locali. Non so quale sia la risposta. Il loro modello economico è andato. Credo che la maggior parte dei giornali locali in America sia destinato a morire nei prossimi cinque anni, a parte quelli che sono stati comprati da un miliardario locale”.

Vent’anni fa, quando spuntarono le prime avvisaglie della crisi dei giornali, si diceva che bisognava individuare un “nuovo modello di business” per il mondo digitale. Ma nessuno (se si eccettuano pochi grandi giornali di respiro internazionale) lo ha finora trovato. E a questo punto c’è da chiedersi se questo modello alternativo davvero esista o se dobbiamo arrenderci alla (drammatica) scomparsa dei giornali locali come li abbiamo conosciuti fino a oggi.

Le cause della crisi sono ormai note: il calo drastico delle copie vendute, il conseguente crollo della pubblicità (che sul web migra verso Google e Facebook) e lo scarso numero di lettori che scelgono di pagare un abbonamento alla versione digitale dei giornali. Il problema denunciato da Basquet non vale solo per gli Stati Uniti, e dando un’occhiata al mercato italiano c’è da chiedersi se la sua previsione non sia persino ottimistica.

I DATI IN ITALIA

Ho fatto la somma delle copie vendute dai giornali locali italiani (oggi sono 42) secondo i dati forniti da Ads (Accertamenti diffusione stampa) nel gennaio del 2000, 2008 e 2019. Ecco i risultati:

  • 2000: 2,3 milioni di copie
  • 2008: 2,o4 milioni
  • 2019: 968 mila (aggiungendo le copie digitali si arriva a 1,07 milioni).

Il calo si avvertiva già nei primi anni del secolo, ma dopo il 2008 è accelerato e nell’ultimo decennio le vendite complessive sono più che dimezzate. All’interno di questo panorama, di per sé già drammatico, i più colpiti sono i giornali locali tradizionalmente più forti. Ecco alcuni esempi:

Il Messaggero di Roma: 294 mila copie nel 2000, 201 mila nel 2008, 82 mila nel 2019.

Il Secolo XIX di Genova: 122 mila nel 2000, 105 mila nel 2008, 36 mila nel 2019.

Il Mattino di Napoli: 100 mila copie nel 2000, 75 mila nel 2008, 28 mila nel 2019.

La Gazzetta del Mezzogiorno: 57 mila nel 2000, 52 mila nel 2008, 17 mila nel 2019.

Quotidiano Nazionale (Il Giorno, La Nazione e il Resto del Carlino): insieme i tre giornali nel 2000 vendevano 422 mila copie, nel 2008 erano 374 mila, oggi sono 199 mila (compreso il Telegrafo, una new entry che vende circa mille copie).

In sintesi: da oltre un decennio, ogni anno i quotidiano locali, che fino a ieri presidiavano le grandi città italiane, perdono tra il sei e l’otto per cento delle copie e si stanno avviando all’irrilevanza. Anche perché il numero degli abbonamenti digitali è irrisorio e non è chiaro come si potrebbe spingere i lettori a metter mano al portafogli.

Le cause di questo fenomeno sono strutturali e difficilmente possono essere combattute. Quando parlo di questo processo che sta ammazzando i giornali vedo grande scetticismo nei miei interlocutori. Di che cosa ci dobbiamo preoccupare? Un tempo, mi sento dire, acquistavamo il giornale non solo per leggere le news, ma per molte altre motivazioni: il tabellone dei cinema, la piccola pubblicità, le verifica dei nati e dei morti, i risultati sportivi di una varietà di discipline… Tutte queste motivazioni sono state cannibalizzate da Internet. E anche le notizie ci arrivano comunque, gratis, sullo schermo del cellulare nell’inarrestabile processo di personalizzazione che stiamo vivendo. E allora, perché ci disperiamo per la morte dei giornali locali?

NELL’INDIFFERENZA COLLETTIVA

La risposta è ovvia, ma sembra non interessare né l’opinione pubblica né la politica. I giornali locali sono sempre stati l’elemento aggregante delle città, il punto attorno a cui ruotava la comunità locale, la tribuna che diceva quali erano le cose importanti e quelle marginali, che dava il ritmo alle discussioni che avvenivano nei salotti di casa e al bar. Soprattutto, i giornali (in particolare quelli locali) hanno sempre avuto un ruolo insostituibile nel controllo del potere, di qualsiasi potere, dalla politica alla magistratura, dalla sanità alla finanza, dalle università alla pubblica amministrazione. Perché la solidità della libera stampa è un elemento indispensabile a una democrazia sana.

La morte dei giornali locali significa che in una città non ci sono più giornalisti che consumano le scarpe nei corridoi dei Palazzi di Giustizia, dei consigli comunali e regionali, delle aziende piccole e grandi, per trovare notizie, consultare fonti, verificare soprusi e inadempienze. È uno stillicidio che è già in atto perché tutti i giornali, colpiti dalla crisi, stanno falcidiando gli organici e spesso mi trovo davanti ad amici che hanno qualche ruolo nella politica, o nella pubblica amministrazione o nelle libere professioni, che mi chiedono perché un tempo ricevevano spesso la telefonata di un giornalista in cerca di notizie o di verifiche, e oggi quell’evento è diventato raro. La risposta è semplice: i giornalisti stanno svanendo, sempre più occupati nel lavoro di macchina, sempre più impegnati – per mancanza di tempo – a cercare notizie online. Un tempo si diceva che il rapporto corretto tra giornalisti e copie vendute era di mille a uno: un giornale che vendeva 100 mila copie poteva mantenere cento giornalisti. Oggi questo dato è squilibrato per tutti i giornali che abbiamo citato, ovunque i giornalisti – nonostante i tagli degli ultimi anni – sono troppi rispetto al fatturato, e gli editori sono più impegnati a tagliare che a inventare nuove iniziative.

Certo, mentre i giornali locali annegano sorgono come funghi piccoli giornali digitali, fondati da persone di buona volontà. Ma si tratta quasi sempre di minuscole organizzazioni formate da pochi ragazzi pagati poco o niente, obbligati a fare copia-incolla delle notizie dei giornali maggiori che ancora resistono, o a riscrivere i comunicati stampa che ricevono nella loro casella di posta.

Da anni si sente dire che i giornali devono trovare un nuovo modello di business in questo deserto che molti chiamano “nuova ecologia mediatica”. Ma un quarto di secolo dopo la nascita di Internet questo modello è stato trovato solo per alcuni giornali che hanno una platea mondiale, e pochissimi grandi giornali nazionali. Per i giornali locali, ha ragione Basquet, questo modello non esiste. Quanto potranno resistere giornali storici come il Secolo XIX o il Messaggero, Il Mattino di Napoli o il Giorno, se le vendite e la pubblicità continueranno a scendere al ritmo attuale?

SOLUZIONE TEDESCA

Soluzioni certe non ne esistono, ma in altri paesi si nota un maggiore dinamismo. In Germania – solo per fare l’ultimo esempio – i quattro maggiori editori nazionali (ne diamo conto nella nostra newsletter) hanno stretto un accordo per combattere lo strapotere di Facebook, Google e Amazon nel mercato pubblicitario con l’obiettivo di riprendere il controllo degli investimenti pubblicitari con un’unica centrale, combattendo direttamente le piattaforme. Unendo le forze i quattro gruppi puntano ad offrire agli investitori (a partire dal 2020) una capacità di targhetizzare gli utenti simile a quella dei colossi digitali, in un momento in cui cresce, da parte delle aziende, il timore di fare investimenti pubblicitari  in piattaforme che veicolano notizie senza distinguere le vere dalle false. I gruppi editoriali, al contrario, con la forza del loro marchio, sono una garanzia contro le fake news. È difficile dire se questa iniziativa funzionerà, ma creare un fronte comune degli editori che generano contenuti contro le piattaforme che campano sui contenuti altrui sembra un tentativo coraggioso, piuttosto che assistere inoperosi alla lenta asfissia del settore.

La morte dei giornali è una tragedia in corso di cui nessuno sembra preoccuparsi. Al contrario, i partiti e i movimenti che oggi vanno per la maggiore sembrano rallegrarsene: ci sarà pure una ragione.

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 10.5.2019 – I giornali muoiono, cercasi il nuovo Scalfari. Le copie calano del 10% all’anno. La pubblicità migra sul web e in gran parte finisce nelle fauci di Google e Facebook. E gli abbonamenti digitali non decollano. Il vecchio modello del giornalismo italiano, che coniuga contenuti alti e bassi, sul web non funziona più. O almeno: non produce fatturato. E allora? – di Enrico Pedemonte/zerozerouno.news –  TESTO IN https://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=26448

Le copie calano del 10% all’anno. La pubblicità migra sul web e in gran parte finisce nelle fauci di Google e Facebook. E gli abbonamenti digitali non decollano. Il vecchio modello del giornalismo italiano, che coniuga contenuti alti e bassi, sul web non funziona più. O almeno: non produce fatturato. E allora?  

I giornali italiani stanno morendo? La domanda non è peregrina visti i dati che da anni vengono pubblicati sulle vendite e sulla pubblicità. Gli ultimi sono ancora una volta allarmanti: a marzo la pubblicità è calata del 12,3% rispetto al marzo 2018 (a febbraio il calo era stato del 13,5); e le vendite a gennaio sono scese dell’8.4% in edicola (-6% contando anche quelle digitali) rispetto all’anno precedente. La tendenza va avanti da oltre un decennio: ogni anno i quotidiani perdono tra l’8 e il 10 per cento delle copie vendute e una percentuale analoga di pubblicità. Nel 2000, anno della sua massima espansione, i quotidiani italiani, secondo le rilevazioni ADS, vendevano complessivamente 6,2 milioni di copie (compreso mezzo milione di abbonamenti), nel 2008 erano 5,3 milioni, oggi siamo scesi poco sotto i due milioni più 200 mila abbonamenti digitali, un terzo rispetto a vent’anni fa.

Nelle sue linee generali, il fenomeno è noto e ha caratteristiche simili in tutto il mondo: i lettori si spostano su Internet, dove l’offerta di news gratuite è abbondante, e sentono sempre meno il bisogno di acquistare il giornale cartaceo; la chiusura di oltre metà delle edicole accelera il processo. La pubblicità segue lo stesso percorso: si sposta sul web e viene assorbita dai due grandi colossi digitali, Facebook e Google che controllano (a seconda delle fonti) tra il 60 e l’80 per cento del mercato. E sul web i giornali competono ormai direttamente (per l’attenzione, il tempo, le risorse dedicate dagli utenti) con le piattaforme di streaming (Netflix e dintorni) che in Italia hanno ormai superato gli otto milioni di abbonati.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le società editoriali sono obbligate a tagliare ogni voce di spesa, il numero dei giornalisti diminuisce ogni anno, i corrispondenti all’estero sono ormai un lusso di pochi… Quanti anni può durare questa tendenza prima che gli editori portino i libri in tribunale? Da dove nasce questa catastrofe? E soprattutto: perché le prospettive della stampa italiana sono peggiori rispetto ad altri paesi avanzati? Per cominciare, diamo uno sguardo a quello che accade altrove.

Un’occhiata agli Stati Uniti.

Una recente analisi pubblicata dal Wall Street Journal mostra che l’allarmismo è giustificato. Negli Usa, tra il 2004 e il 2018, hanno chiuso i battenti circa 1.800 quotidiani locali lasciando 3.200 contee senza giornale di riferimento e circa la metà del paese con un solo quotidiano locale: i 400 giornali online che sono nati hanno un numero di cronisti così esiguo da non garantire un’informazione seria. A conferma di questa tendenza, Facebook, che recentemente aveva tentato di dare più visibilità all’informazione locale, ha affermato di non trovare un numero sufficiente di notizie da linkare: a livello regionale si è trovata davanti a un “news desert”. E d’altra parte Facebook è (insieme a Google) una delle principali responsabili di questa situazione: i due giganti assorbono il 77% delle risorse pubblicitarie a livello regionale (e l’86% della crescita del mercato).

Nicco Mele, direttore dello Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy, dice: “Difficile immaginare un futuro in cui i quotidiani riescano a sopravvivere”. Un investitore acuto come Warren Buffett (uno degli uomini più ricchi del mondo) nel 2011 aveva investito nei giornali locali puntando sul digitale ma ha poi disinvestito; ha detto a Yahoo Finance: i giornali sono “morti”, “destinati a sparire”. Eccetto i tre grandi giornali nazionali, ha precisato.

L’analisi del Wall Street Journal conferma questa analisi: negli Usa si è creata una frattura tra i giornali piccoli e medi, in grave sofferenza (con pochissime eccezioni), e i tre grandi giornali nazionali, che sono addirittura rifioriti grazie agli abbonamenti digitali. Il New York Times ha superato i 3,5 milioni abbonati digitali (15 dollari al mese) e con quelli cartacei sfiora i  quattro milioni e mezzo (il record storico dell’era cartacea era di 1,18 milioni, nel 1994); inoltre ha ampliato la redazione (1.550 giornalisti) e ha posto l’asticella, per il 2025, a 10 milioni di abbonati. Il Wall Street Journal ha 1,57 milioni di abbonati digitali (a 39 dollari al mese) e una redazione di 1300 giornalisti. Il Washington Post ha 1,5 milioni di abbonati digitali (a 10 dollari al mese).

Negli ultimi quindici anni l’economia dei giornali si è capovolta: un tempo (negli Stati Uniti) il 70% del fatturato veniva dalla pubblicità e il 30% dalle vendite (soprattutto gli abbonamenti). Ma siccome la pubblicità sta sparendo, le parti si sono invertite: oggi il compito di mantenere in vita i giornali cade sempre di più sulle spalle dei lettori. Ma quanti giornali riescono a convincere un numero sufficiente di persone ad abbonarsi nel mondo di Internet?

Negli Stati Uniti, oltre ai tre quotidiani appena citati troviamo il settimanale New Yorker che ha recentemente annunciato di avere realizzato 115 milioni di dollari grazie agli abbonamenti digitali. Nel Regno Unito L’Economist ha 1,6 milioni di abbonati (tra carta e digitale) e il Financial Times ha superato il milione di “lettori paganti” stabilendo il record nei suoi 131 anni di storia. Il Times di Londra ha mezzo milione di abbonati.

I giornali di élite nell’era populista

Dunque, quello che emerge da una prima ricognizione (per ora limitata alla stampa anglosassone) è che a stare a galla nel mare agitato del mondo digitale sono solo pochi giornali di alta qualità. Perché? Simon Kuper, sul Financial Times, cerca di rispondere a suo modo in un articolo che ha un titolo provocatorio: “Perché i giornali di élite sopravvivono in questa era populista?”.

Kuper, dopo avere elencato i giornali che ce la stanno facendo (gli stessi da me citati) si chiede perché dopo il 2016 (anno del referendum sulla Brexit) quei giornali non abbiano deciso di assumere giovani che provenivano dalle regioni povere dove abbondavano i lettori che avevano votato per uscire dall’Europa: non avrebbero dovuto puntare su un elettorato fino al giorno prima ignorato? Invece quegli editori hanno continuato ad assumere giovani con in tasca un master o un dottorato di università di élite. Non solo: da allora molti di quei giornali si sono addirittura spostati su posizioni più progressiste, prendendo sempre più le distanze dall’ondata populista che ha investito il mondo occidentale. L’Economist, che nel 2000 si era schierato con George W. Bush, oggi è contro la Brexit, sostiene la lotta al global warming e si indigna per l’aumento delle diseguaglianze. Il Financial Times è in prima linea contro le piattaforme digitali. Il New York Times ha messo da parte il suo vecchio aplomb e ha fatto una scelta partigiana e sanguigna contro Trump. I media di élite, insomma, sono diventati “club per lettori liberal”, antipopulisti, hanno scelto il target della borghesia colta e liberal e lo cavalcano senza timore. E la borghesia colta e liberal li ripaga sottoscrivendo costosi abbonamenti.

Kuper si spinge oltre: traccia una linea di demarcazione per separare l’informazione “certificata” dei giornali di élite dalla poltiglia di notizie che circolano su Internet nell’era delle fake news, spesso rilanciata da giornali di basso livello. La sua tesi è semplice: i giornali di élite ce la fanno perché sono giornali di qualità, e i lettori liberal (che tradizionalmente sono anche quelli che leggono di più) sono lieti di mettere mano al portafoglio perché su quei giornali, nell’era del populismo e delle fake news, non trovano solo alta qualità, ma anche pezzi della propria identità.

Naturalmente, per verificare se Kuper ha ragione e applicare il suo ragionamento all’Italia, è necessario fare una serie di distinguo. I giornali del mondo anglosassone che abbiamo citato si rivolgono a una platea di oltre un miliardo di persone  e a un’élite internazionale in grado di leggere in inglese: tanto è vero che il 70% degli abbonati al Financial Times sono fuori dal Regno Unito.

Ma se andiamo a vedere l’andamento di alcuni giornali di qualità in giro per il mondo troviamo alcune conferme: scopriamo che il settimanale Der Spiegel continua a vendere circa 800 mila copie alla settimana (il 10% digitali) con un calo del 20% rispetto ai record del passato, mentre il mercato nazionale dei quotidiani si è dimezzato (dai 27 milioni degli anni Novanta ai 14 milioni di oggi). In Francia Le Monde ha una “circulation” di circa 300 mila copie al giorno di cui il 52% sono copie digitali (in Francia si vendono poco più di cinque milioni di copie al giorno).

Se Kuper ha ragione (come io penso), allora per salvarsi i giornali devono puntare su identità e qualità: in altri termini i lettori non solo devono veder rinforzata la propria identità culturale, ma (nel mondo delle news gratuite) percepire il valore aggiunto ricevuto in cambio dell’abbonamento. I giornali del nostro paese soddisfano questi requisiti?

Italia: la crisi del modello scalfariano

Facciamo un passo indietro. Io credo che la stampa italiana sia da molti decenni un unicum nel panorama internazionale dei paesi avanzati. Il modello che si è imposto nacque oltre mezzo secolo fa quando Eugenio Scalfari teorizzò (e praticò con genio e perizia) la contaminazione tra sacro e profano, alto e basso, gossip e cultura alta, mescolando donne nude in copertina e Umberto Eco. È un modello che conosco bene, avendo lavorato all’Espresso per 25 anni, e che ha funzionato a meraviglia per mezzo secolo: è un modello che ben si adattava al cinismo antropologico della nostra tradizione culturale e al livello di istruzione medio-basso di un paese con un’élite culturale tradizionalmente esigua, ma che ha sempre rappresentato una mediazione al ribasso, una rinuncia rispetto alla qualità che esprimevano i giornali di élite nei paesi con cui ci confrontiamo.

Quando è arrivata Internet questa contraddizione è esplosa in modo ovvio, anche se non molti l’hanno rilevata, e la frattura tra l’Italia e gli altri paesi avanzati si è fatta lampante. I grandi giornali internazionali non hanno mai rinunciato alla propria tradizionale qualità nelle edizioni digitali: gli articoli pubblicati online dal New York Times, da Le Monde e dall’Economist hanno sempre rispettato gli standard del cartaceo. Al contrario in Italia, per fare il pieno di clic molti giornali hanno creato piccole redazioni digitali che hanno abbassato in modo palese gli standard delle testate tradizionali, pubblicando notizie che mai sarebbero comparse sulla carta, e brandelli di video che troppo spesso appartengono alla categoria dello “strano ma vero”.

Ma mescolare l’alto e il basso, il sacro e il profano, su Internet non funziona perché danneggia la percezione del brand. Le informazioni “basse e profane” abbondano sul web, gli utenti cliccano ma non pagherebbero mai per quei contenuti. Per farlo devono avere la percezione di valore, unicità, originalità. Il vecchio modello, che mischia alto e basso, sacro e profano, nel mondo digitale non funziona più. Ci vorrebbe un giovane Scalfari che inventasse una nuova formula adatta all’Italia nell’era digitale. Ma in giro non si vede, e il tempo per molti giornali sta scadendo.

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