Siamo nel bel mezzo del tempo della raccolta del prezioso frutto. Siete proprio sicuri che l’attuale paesaggio agricolo ligure, dove l’ulivo la fa da padrone, sia un retaggio “da sempre” tipico di questo territorio? Direi proprio di no: questo aspetto agricolo della Liguria è vecchio solo di quattro secoli circa.
di Giuseppe Testa
Questa monocoltura (nel nostro caso non al 100%, comunque prevaricante e prima inesistente) le è stata imposta, per volontà genovese e per motivi economici, a partire dalla fine del Medioevo.
Due parole sulla monocoltura- Da sempre intere zone sono dedicate, sia dagli stessi abitanti ma spesso dai conquistatori, ad una sola coltura. In questi casi viene quasi fatta scomparire la agricoltura di sussistenza, sostituita con intensiva piantumazioni e coltivazioni di una sola pianta, che serve per essere esportata e che ben aderisce alle condizioni climatiche e del territorio in questione. Tanto per fare alcuni esempi basti pensare al the per l’India o lo Sri Lanka, al caffè (Africa e Centro America), e ancora alla canna da zucchero, banane, mais, soia ecc… ecc… La gente del luogo prescelto, quando non schiavizzata a tal fine, e sceglie liberamente di aderire a tal progetto può ricavarne un buon guadagno, ma deve a sua volta ricomprare i beni essenziali che non produce più. In ogni caso non decide il prezzo del prodotto della monocoltura, legato ai mercati stranieri. Un calo della richiesta dello stesso potrebbe generare crisi economiche: per esempio, la crescita dell’uso del dolcificante aspartame (prodotto chimicamente) ha messo in ginocchio miglia di lavoratori delle piantagioni di canna da zucchero.
La Civiltà moderna dell’ulivo in Liguria- Oggi siamo portati a pensare che la civiltà dell’ulivo, che conferisce alla Liguria il suo caratteristico paesaggio, quindi la coltura (e cultura) dell’olio commestibile, sia da sempre una prerogativa di questa regione. La storia dell’olivo in Liguria è lievemente diversa, e per certi tratti ancora misteriosa. La diffusione dell’olivo in Europa, iniziata dai Fenici e dai Greci, arrivò grazie a questi in Italia. Dal meridione, la conoscenza dell’uso della pianta (alcuni secoli avanti Cristo) si diffuse in tutta la penisola, in speciale modo in Toscana, e fu coltivata anche in Sardegna.
Numerose sono le citazioni dei poeti romani alle virtù della pianta. Plinio, Cicerone, Tito Livio, Ovidio, Seneca, Orazio, Giovenale, Virgilio e molti altri lodarono assai l’olivo, che fu, tra le piante dedicate alle divinità pagane, quella sacra a Minerva. Questi ne conoscevano l’uso alimentare, uso che si perse nel Medioevo.
La produzione dell’olio era sconosciuta ai Liguri, mentre è probabile che la pianta pur già vivesse nella nostra regione. È il geografo greco Strabone a scrivere dei primi commerci dei Liguri: “…esportano legna, animali, pelli, miele, che scambiano con olio e vino italico…”. Strabone scriveva nel I secolo A. C., rivelandoci che in quel periodo in Liguria non era ancora coltivata la vite e l’ulivo, ma se ne conoscevano e consumavano i prodotti. Da ciò si può trarre conferma del fatto che “sfruttavano” i boschi, ricchi dei prodotti sopra citati, mentre importavano olio e vino, segnale che queste produzioni erano assenti. Probabilmente erano già presenti piante di olivastro selvatico, di cui la coltivazione e l’uso erano sconosciute agli abitanti locali. Peraltro le terre lavorabili (poche e ricavabili a fatica) in passato favorivano poco più dell’autosostentamento, trattandosi di un terreno in pendenza, ricco di pietre e non adatto a grandi coltivazioni.
I Romani invece facevano grande uso di olii: è da ritenere quindi che le prime piante “coltivate” in Liguria fossero state importate dopo la conquista. Il clima favorevole favorì questa coltura, e fece capolino anche la pianta della vite, come abbiamo visto, sconosciuta ai Liguri. L’olio, per i Romani, veniva usato anche nell’alimentazione, estraendolo da piante deve venivano praticati innesti di olive commestibili. Questo uso alimentare fu parzialmente dimenticato nel Medioevo, sostituito da forme diverse di condimenti derivati dalla lavorazione dei latticini, o di origine vegetale. La sua coltura e lavorazione fu però mantenuta, tramandata e rilanciata dai monaci Benedettini. Non si può ancora parlare però di coltivazione e lavorazione “industriali”.
Consultando una serie di antichi documenti, e soprattutto testamenti, risulta evidente in età medioevale la minima presenza dell’olivo, rispetto al fico, vite, castagno ed altri alberi da frutto, fino verso l’inizio dell’Età Moderna. I pochi olivi (o meglio, olivastri, che davano allora un frutto non commestibile), erano quasi tutti ad appannaggio di chiese e monasteri, in quanto all’epoca la pianta dava un olio usato solo per illuminare (detto lampante) usato per rischiarare chiese, immagini sacre e nelle funzioni, oppure per scopi medici o cosmetici, lavorazioni sempre in gran parte svolte dagli opifici dei monaci o per essi.
Imposizione della “monocoltura dell’olivo in Liguria- Riguardo alla spremitura “industriale” delle olive, questa solo alla fine del XV secolo, ed all’inizio del successivo, diventò una lavorazione redditizia. Per una serie di motivazioni politiche e militari, dettate dalla situazione che si stava creando nel Mediterraneo, la flotta Genovese stava perdendo il controllo del Mare Nostrum orientale, e con questo i lucrosi commerci. Persi molti “negozi” con l’Oriente, i dinamici commercianti/banchieri della Superba cercarono nuovi sbocchi.
Fiutato un nuovo affare, le famiglie genovesi si lanciarono in una massiccia piantumazione di alberi di olivo, su tutto il territorio della Liguria, che era (escluso il Finalese) di loro proprietà, e che prima avevano gestito diversamente, attratti dai più favorevoli guadagni dei commerci marittimi.
Secondo lo scrivente, l’enorme richiesta di olio di quel periodo è da attribuirsi a lunghi anni di grande freddo, che investì l’Europa. Tra il XIV e XV secolo ci fu quella che fu definita una “piccola era glaciale”. La brusca e prolungata variazione di clima compromise molte piante di vite, di olivo e di alberi da frutto in genere. La contrazione di produzione produsse una impennata di richieste: zone come i perimetri dei laghi padani, o le coste affacciate sul mare, specie nel Sud Italia, grazie al clima da questo mitigato, si rivelarono come luoghi dove la pianta era sopravvissuta al clima più rigido, e continuava a fruttificare. L’olio prodotto andava esportato, in gran parte verso la Francia, soprattutto per la produzione di sapone, per l’illuminazione e per usi cosmetici o medicamentosi.
Risulta solo da allora che l’olivo è diventata la monocoltura dominante in Liguria. Alcuni secoli dopo, venuto a cessare questo mercato, per via di nuovi procedimenti industriali, di nuovi dazi (specialmente dalla Francia, dove confluiva la maggior parte del prodotto), e dell’inutilità quindi dell’olio di oliva per questi scopi, fu necessario, vista l’enorme presenza di piante ormai inutili, innestare in queste piante olive “frantoiane” commestibili, e l’immenso patrimonio di alberi fu convertito alla produzione di olio alimentare, produzione che dura ancora oggi. E’ per questo motivo che contemporaneamente al processo di piantumazione all’epoca i frantoi da olio assunsero grande importanza, furono oggetto di recupero, ne furono edificati di nuovi, e subirono un serrato controllo fiscale da parte delle autorità preposte.
Il paesaggio agricolo della Liguria assunse l’aspetto che vediamo oggi, o meglio quello che vedevano i nostri nonni e genitori. Oggi gran parte del terreno agricolo è abbandonato, ricoperto dai rovi o riconquistato dalla macchia mediterranea, mentre si è formato un evidente ed incontrollato fenomeno di “conurbazione”, che coinvolge tutti gli abitati della costa.
Andando nello specifico, è quindi la Repubblica di Genova che ridisegna il paesaggio agricolo della Liguria. Per la Repubblica “marinara”, si presenta fin dal Quattrocento, vista la crisi del settore mercantile bloccato a oriente e svantaggiato ad occidente, dove le flotte Portoghesi, Spagnole, Francesi, Inglesi e Olandesi, grazie alle loro coste affacciate sull’Atlantico, sono meglio posizionate per “spiccare il salto” verso il ricchissimo mercato delle Americhe, si prospetta come soluzione di ripiego un “ritorno alla terra”.
Questa fase è ben analizzata da Massimo Quaini in un suo studio (Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, Atti della Società Ligure di Storia Patria, XII (LXXXVI),1972, II), datato ma sempre valido, sulla storia del paesaggio agrario in Liguria. apparso nei primi anni Settanta. Con un lavoro documentatissimo, come è nel suo stile, Quaini evidenzia come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocoltura intensiva dell’olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente (con l‘eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli), alla preesistente coltura promiscua, finalizzata all’autosostentamento o al piccolo commercio (locale o regionale).
Analizzando una serie di documenti di date precedenti (dagli Statuti Comunali, ai testamenti, agli atti notarili, giudiziari e fiscali) delle comunità delle valli d’Oneglia, di Porto Maurizio, di Albenga, Pietra Ligure, Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle, si evince la scarsità di presenza e di importanza della coltura dell’olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. Addirittura in molte realtà del primo entroterra, l’olivo ha minore importanza nell’economia locale persino della produzione di fichi e castagne, indispensabili per la sopravvivenza in primis, conservate ed essiccate, e destinate anche alla vendita.
Questa analisi presenta un riscontro anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e del monastero di Bobbio dove l’acquisto dell’olio per gli usi liturgici e per la mensa prodotto dagli oliveti che, grazie al clima temperato dello specchio lacustre, provenivano dalla zona del Garda.
Le famiglie nobili genovesi furono costrette quindi, o dedicarsi alla finanza (lo faranno bene, a livello europeo) e ricominciare un processo di ri-feudalizzazione delle campagne, con una più massiccia presenza anche e soprattutto di controllo fiscale: la terra doveva rendere! Come riporta il titolo del capitolo, la Repubblica di Genova rimodella il paesaggio agricolo, che diventa (recente abbandono a parte) quello che vediamo oggi: con esso cambiano usi e costumi, il lavoro, anche il carattere di coloro che ci vivono. Si modificano le relazioni sociali tra coloro che in questo paesaggio hanno sempre convissuto. Diventa ostile il rapporto, che diviene confronto ed anche conflitto, verso i pastori transumanti, che da tempi immemorabili sono usi salire e scendere, seguendo i ritmi stagionali, sulle vie di crinale: il loro transito viene regolamentato in modo sempre più restrittivo.
Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre. Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d’erba”. Molti pascoli erano stati adibiti a oliveto, specialmente le “comunaglie”, prima affittate annualmente ai pastori. Questi dopo secoli di consuetudini, si vedevano ridotti i pascoli, non più sufficienti al fabbisogno. Anche i percorsi collaudati erano spesso da abbandonare, mancando il nutrimento per le greggi. Si modificava e complicava quella routine collaudata che durava da secoli. Si ravvivava il mito di Caino ed Abele, dimostrando quanto antico sia la disputa tra l’Uomo allevatore e quello coltivatore.
Grazie al clima mitigato dal mare, gli ulivi vengono piantumati fino a 800 metri di altitudine. Nel territorio Ligure di ponente nel giro di un secolo l’olivo diventa “coltura esclusiva” ed intensiva. La società che ne è coinvolta, abituata all’uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all’autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato, di cui egli è attore all’oscuro degli andamenti, contribuisce all’arricchimento di altri, ma può venire travolto dai suoi cambiamenti. E’ una rivoluzione epocale, a cui molti non sono preparati.
Il processo fu relativamente veloce ma non indolore, e comportò una rivoluzione del mondo contadino della Liguria. Scrive a tal proposito Giorgio Amico: … “Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”. Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall’alto, alla sparizione delle terre comuni, all’abolizione dei diritti d’uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede. Uno dopo l’altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell’immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina. Valle dopo valle l’arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia.
Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d’oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare”… .
Come sempre succede il mercato va inizialmente in espansione, per almeno due secoli. Una vita felice tutto sommato breve, perché già dagli ultimi anni del Settecento fra gli economisti della Repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, discussione frutto dei primi segni evidenti della crisi del settore, riflessa anche nel sentire comune delle popolazione delle vallate. La crisi in seguito ci fu, ma le condizioni climatiche ideali permisero, mantenendo la coltura intensiva e quasi esclusiva dell’albero di olivo, di convertire la produzione in quella di olio commestibile. Le piante rimasero e la Liguria oggi mantiene questo aspetto per noi così familiare ma tutto sommato così recente, e assolutamente costruito dall’Uomo Moderno.
Giuseppe Testa