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Liguria e Basso Piemonte

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Remigio Zena (1850–1917): poeta fra Torino, Genova e Africa. Scrittore visionario (e dimenticato) fra ‘800 e ‘900


Lo pseudonimo d’arte Remigio Zena cela la vera identità di Gaspare dei Marchesi di Invrea.

di Ezio Marinoni

Ritratto di Remigio Zena

Parigi 1891, due uomini passeggiano sul Boulevard Saint Michel e nel Jardin du Luxembourg; sono quasi coetanei, tra i quaranta e i cinquanta, e uno ha un’andatura zoppicante: si tratta di Paul Verlaine e del nobile genovese Gaspare Invrea, avvocato fiscale dello Stato italiano e conosciuto nel mondo letterario come Remigio Zena. Una coppia all’apparenza male assortita: un poeta maledetto e mal ridotto ed un aristocratico che vanta quattro dogi genovesi nell’albero genealogico della sua famiglia; entrambi hanno un passato da volontari armati, uno come zuavo pontificio nell’estrema difesa del Papa nel 1870, l’altro nella Guardia Nazionale della Comune di Parigi.

Dopo questa scena quasi cinematografica, ripercorriamo la sua vita.

Gaspare nasce a Torino il 23 gennaio 1850, dal Marchese Fabio e da Teresa Galleani dei Conti di Agliano (AT). La mamma, seguendo un’antica consuetudine, decide di partorire nella casa torinese dei suoi genitori. Il palazzo non esiste più: sorgeva in via Giolitti (già via Mario Gioda) 26, divenuto Palazzo delle Corporazioni durante il fascismo. Colpito una prima volta dai bombardamenti dell’incursione aerea dell’8 dicembre 1942, viene distrutto dal bombardamento del 13 agosto 1943. Sulla stessa area verrà edificato il Palazzo della Camera di Commerci di Torino.

Palazzo Galleani poi delle Corporazioni a Torino

La famiglia d’Invrea è iscritta al Libro d’Oro della nobiltà: Marchesi di Pontinvrea e Spigno, Marchesi e Patrizi Genovesi. Il capostipite è tale Pietro Invrea, deceduto nel 1430, secondo alcuni discendente dai Soleri di Ivrea e per altri proveniente da Invrea, sopra Varazze.

Rampollo di questa illustre casata ligure, riceve un’educazione tradizionalista e religiosa. Dopo un soggiorno a Parigi, nel 1867 si arruola negli Zuavi Pontifici per la difesa di Roma. Dopo la Breccia di Porta Pia (1870), riprende gli studi in giurisprudenza e si laurea a Genova nel 1873.

Nel 1874 sposa a Fossano Flavia Alliaga-Gandolfi di Ricaldone, figlia del conte Camillo e di Ernestina Avogadro Lascaris; dal matrimonio nasceranno le figlie Maria Teresa ed Ernestina.

Nel 1875 entra nella magistratura civile, presso la Procura Generale del Re a Genova, iniziando una carriera che lo avrebbe visto ricoprire svariati incarichi in numerose città italiane e in Africa.

Diventa letterato per passione e compone poesie, romanzi e novelle. I suoi interessi artistici lo avvicinano alle poetiche scapigliate e al verismo, con un accento decadentista e incursioni futuriste, nel Novecento.

Fin dall’inizio adotta per i suoi scritti lo pseudonimo di Remigio Zena (a eccezione della rubrica Libri e giornali, da lui tenuta nella “Cronaca bizantina” fra il 1883 e il 1885, dove si firma O. Rabasta).

Dopo la prova dialettale di Zena do 1878 canson (Genova s.d.), nel 1880 escono, sempre a Genova, le Poesie grigie; il suo primo volume in prosa sarà una raccolta di novelle, Le anime semplici. Storie umili (1886).

Già dai titoli emerge la preferenza da lui accordata alle tematiche “in minore” e agli ambienti in cui vivono i ceti subalterni, con il rifiuto di un’idea di letteratura aulica e paludata, di tipo carducciano o dannunziano. In un volume di versi, diviso in tre libri (Commedia, Acqueforti e Non commedia), si avverte l’influsso di un realismo scapigliato che giustifica gli atteggiamenti irriverenti e provocatori di Emilio Praga e di Olindo Guerrini, del quale rifiuta tuttavia l’estremismo scandalistico e anticlericale.

Nel 1887 pubblica un resoconto di viaggio, In yacht da Genova a Costantinopoli, una sorta di “giornale di bordo” (recita il sottotitolo) che unisce riflessioni e poesie, senza concessioni al gusto allora assai diffuso dell’esotico (esplicita è la polemica nei confronti del De Amicis di Costantinopoli), ma tende a ripiegarsi sull’analisi di sé e delle proprie emozioni.

Tra le opere che spiccano con un maggior rilievo e permettono di approfondire le sue tendenze letterarie ricordiamo: Le pellegrine (1894), Olympia (1905), composizioni poetiche di carattere religioso-moraleggiante, ma dai tratti ironici e vivaci dal gusto tipicamente scapigliato. Le pellegrine, scritto durante il periodo trascorso a Massaua, in Eritrea, come avvocato militare presso il primo corpo italiano di spedizione, potrebbe farlo considerare un anticipatore del futurismo.

Nel suo primo romanzo, La bocca del lupo (1892, Treves), segue la narrazione impersonale e lo stile di Verga, ma la storia supera i confini del Verismo, per la capacità stilistica dello scrittore e la sua forza poetica, e si tramuta in una scrittura piena di umanità e di ironia attraverso la quale descrive i protagonisti e la popolazione dei vicoli portuali. Il romanzo rappresenta la rovina morale e materiale di qualche donna del popolo; è stato accostato ai modelli veristici di Verga. Scritto in italiano, con un cospicuo apporto di termini del dialetto ligure, fra grida di popolari e sussurri di pettegole chiacchierone in perfida rivalità, il testo evidenzia in maniera corale la vita al limite della sopravvivenza di persone umili e disperate.

Il romanzo L’Apostolo (1901), ambientato nella Roma di Leone XIII, narra, con uno psicologismo ossessivo e chiuso, la storia fogazzariana di un giovane aristocratico il cui essere un cattolico “irrequieto” si scontra con le gerarchie e i principi ecclesiastici.

Eugenio Montale ha scritto di lui: «Nessuno capì così bene i poveri, i diseredati, come lo Zena; nessuno li lasciò ragionare con tanta indulgenza, con tanta pietà superiore e nascostamente sorridente».

Zena avversa il sonetto, in linea con la poesia francese, mentre Carducci compone Juvenilia (1880) e Rime nuove (1887). Tra i poeti a lui più affini, si cimentano col sonetto anche Emilio Praga e Giovanni Camerana, Gian Pietro Lucini, Corrado Govoni e Francesco Pastonchi.

Il suo linguaggio risulta innovativo; per l’uso dei forestierismi, egli può essere considerato un crocevia tra Boito, Praga e Stecchetti e il parlato borghese dei Crepuscolari.

Attinge vocaboli dal francese, comprese locuzioni o citazioni d’autore: bouquet, café chantant, dessert, marron glacé, probabilmente per primo in versi italiani.

Nel 1892 pubblica il romanzo La bocca del lupo (apparso dapprima a puntate in “Folchetto”, tra febbraio e luglio); l’autore vi fa emergere tematiche veriste, quando si immerge nella realtà più povera della Genova del tempo, descrivendola come una realtà molto distante dalla sua nobile provenienza. L’opera ostenta quello stile principale, che permetterà al marchese di levarsi come uno dei più celebri capisaldi della letteratura verista. Il romanzo ha un cospicuo apporto di termini liguri, fra grida e sussurri del popolo, ed evidenzia in maniera corale la vita al limite della sopravvivenza di persone umili e disperate, oggi pronte ad aiutarsi e domani a “sbranarsi” per un pezzo di pane. La novella oscilla fra i modelli espressivi de I promessi sposi e I Malavoglia.

Nel 1894 vedono la luce i versi di Le pellegrine (entrambi i volumi escono a Milano presso Treves). La bocca del lupo segna la sua adesione ai temi e alle forme di una poetica verista, il Verga dei Malavoglia in particolare.

Il periodo trascorso a Massaua favorisce l’ingresso nella sua poesia di termini e locuzioni indigene, toponimi sconosciuti ai dizionari ma non ai lettori dei resoconti sulla vita della colonia

Italiana. Ciò dimostra una opzione per una poesia “giornalistica”, che è l’aspetto più vistoso del realismo di Zena, che emerge dai suoi versi africani: barambaras (capo abissino), dura (pianta delle Graminacee) che Alfredo Panzini registrerà nel Dizionario moderno come voce «assai nota al tempo delle guerre d’Abissinia», pankal (ventaglio a soffitto, di cui si ricorderà Gozzano per Miss Ketty). E tanti altri.

Ecco un esempio di poesia di Zena, al limite del non senso:

«Alì Dossal, Abdalla

Serágg, Amán El Bâr,

Alì Hamud Gusmalla,

Alì Nur, Hagg Omâr,

Mohammed Bazarà,

Hedára, Ahmet El Gul….

Par d’essere a Stambul

Verso Kassim-Pascià (…)».

(Le pellegrine, Sulla banchina del porto, III, vv. 1-8).

Nelle sue ultime opere compaiono, infine, predilezioni immaginose simboliste, del Marinetti francese e di un poeta “miliardario della fantasia” come Farfa (1). Ammalatosi agli occhi, Remigio Zena trascorre appartato gli ultimi anni della vita, lontano dagli ambienti e dalla società letteraria. Muore a Genova l’8 settembre 1917.

Note- 1.La cosiddetta “lito-latta” di Farfa, gli strumenti della vecchia tipografia Nosenzo, quattro ragazzi che a Zinola immaginano il futuro… meritano una storia a parte, ben oltre la prefazione di Marinetti al libro scritto dallo stesso Farfa e ripubblicato da Sabatelli.

Ezio Marinoni


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Ezio Marinoni

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