Come era ampiamente prevedibile, cominciano a palesarsi dubbi sulla concreta realizzazione delle infrastrutture previste dal PNRR nei tempi concordati con l’Unione Europea.
di Massimo Ferrari*
Dopo il trauma della pandemia, il generoso piano a sostegno dell’economia italiana era parso a molti un’occasione irripetibile per ammodernare il Paese, colmando le lacune cumulatesi nel tempo. Infatti i governi che nel frattempo si sono succeduti hanno inserito una lunga lista di interventi volti, per limitarsi solo al settore dei trasporti, al riequilibrio modale in favore delle ferrovie, come, del resto, indicato proprio da Bruxelles, anche in una prospettiva di contrasto ai cambiamenti climatici.
Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Al completamento di opere già in cantiere, come l’Alta velocità tra Milano e Venezia e tra Napoli e Bari, o al Terzo Valico, il governo Conte Due ha voluto aggiungere un più marcato impegno verso il Mezzogiorno, con l’estensione dell’Alta Velocità fino a Reggio Calabria e la velocizzazione della Palermo – Catania, anche per dare un segnale di attenzione all’elettorato pentastellato, concentrato soprattutto nelle regioni del Sud. Esponenti autorevoli del PD, come il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, hanno poi avanzato la proposta di arretrare la ferrovia adriatica verso l’interno per “liberare” i centri abitati costieri dalla presenza dei binari. Infine il nuovo esecutivo Meloni ha rilanciato alla grande l’idea del Ponte sullo Stretto.
Orbene, dovrebbe essere chiaro a tutti che le pur ingenti risorse finanziarie del PNRR non sono sufficienti per questa corposa lista della spesa, di cui alcune voci, come il Ponte, neppure sono incluse nel programma finanziato. E nemmeno il tempo a disposizione – mancano ormai appena tre anni al fatidico 2026, indicato quale data limite per il completamento del programma – appare sufficiente. Anche, perché, come al solito, le lungaggini burocratiche di cui è lardellata la macchina amministrativa, costituiscono un potente freno. Il precedente virtuoso della ricostruzione del ponte Morandi a Genova in tempi rapidi non pare facilmente replicabile.
Forse sarebbe stato meglio concentrarsi su un numero più ristretto di interventi per i quali erano già pronti i progetti esecutivi o, almeno, le idee erano chiare. Ma ovviamente le spinte demagogiche sono difficili da arginare ed alcune premesse rischiano di rivelarsi del tutto opinabili. Per esempio, l’idea di intercettare le merci provenienti via mare dall’Estremo Oriente via Suez nei porti di Gioia Tauro e di Taranto per poi veicolarle via ferrovia verso il Nord ed i mercati transalpini, evitando la lunga circumnavigazione via Gibilterra.
L’intento sarebbe apparentemente lodevole, ma, a parte l’evoluzione dei traffici futuri lungo la Via della Seta, che resta un’incognita, non si capisce per quali motivo quelle merci debbano sbarcare nel Mezzogiorno e poi percorrere su rotaia l’intero Stivale, quando potrebbero più ragionevolmente arrivare a Genova, a La Spezia, a Ravenna o a Trieste, accorciando di molto il transito per via di terra. Infatti, anche in un’ottica di cambiamento modale, non si tratta di ingaggiare un’inutile competizione tra le “autostrade del mare” e le ferrovie, ma di destinare alle une o alle altre i traffici più congegnali. Che sono essenzialmente il mare per le merci ed i passeggeri per la rotaia.
La scelta non è meramente teorica: dalla stessa dipendono colossali investimenti. Se si sceglie il mare per avvicinare le merci ai mercati del Nord, occorre semmai potenziare le infrastrutture portuali dell’alto Tirreno e dell’Adriatico, oltre alle linee ferroviarie transalpine, come, appunto, si sta facendo col Terzo Valico. Non c’è alcun bisogno di costruire una nuova linea lungo la costa adriatica (se non in certi punti critici), col bel risultato di allontanare i treni passeggeri dai centri abitati. E con le conseguenze negative in termini di appetibilità del treno che nel Ponente Ligure ora si toccano con mano. Tanto più che, a differenza della Savona – Ventimiglia, la ferrovia Adriatica già adesso è quasi completamente raddoppiata. Salvo il breve tratto molisano cui finalmente si sta mettendo mano.
Già, ma l’indotto sulle economie meridionali dei grandi cantieri dove lo mettiamo? Mettiamolo sulle opere davvero utili. Completare il raddoppio della Palermo – Catania (due città di grandi dimensioni, distanti poco più di 200 chilometri all’interno della Sicilia) mi sembra doveroso.
Altrettanto importante è velocizzare le relazioni tra Roma, Napoli e la Calabria. Ma davvero serve una linea integralmente nuova che sventrerebbe più volte l’Appennino, soprattutto per instradare le merci (quelle che potrebbero comodamente sbarcare a Genova o a La Spezia) verso l’Adriatica?
Oggi per scendere dalla capitale allo Stretto occorrono circa cinque ore di treno. Un po’ troppo se paragonato con i tempi necessari per arrivare a Milano, Torino o Venezia. Ma forse basterebbe limitarsi a realizzare una nuova tratta veloce tra Salerno e Praia, attraverso il Vallo di Diano (conservando la sezione cilentana, un po troppo tortuosa, per il traffico locale e turistico) ed apportare alcune migliorie all’attuale linea costiera in Calabria – già tutta a doppio binario – per scendere a non più di quattro ore da Roma e tre da Napoli. Prestazioni di tutto rispetto.
Con le enormi risorse risparmiate, oltre ad evitare lo scempio della Sila e della costa Adriatica per far viaggiare treni merce di dubbia utilità, si potrebbero reperire fondi sufficienti a finanziare il collegamento fisso attraverso lo Stretto, per il quale, al momento, non si sa dove reperire i denari necessari. Non si tratta, perciò, di lesinare gli investimenti al Sud, ma di dedicarli alle opere davvero utili. Ammesso che il Ponte lo sia. Personalmente lo credo, ma andrebbero fatti accurati approfondimenti sulla fattibilità tecnica, almeno per evitare di accorgersi a cose fatte che il transito dei treni si rilevi poi incompatibile con il loro transito in sicurezza.
L’Italia ha purtroppo una lunga esperienza di “cattedrali nel deserto”: opere iniziate con le migliori intenzioni e poi lasciate a metà per mancanza di risorse, per problemi di incompatibilità ambientale o per mutato orientamento della politica. Oppure completate sì, ma con decenni di ritardo, quando la loro funzione originaria era in parte venuta meno. Vogliamo continuare su questa strada? Come ricorda l’adagio popolare “errare è umano, ma perseverare diventa diabolico”.
Purtroppo, invece, stiamo assistendo alla solita contrapposizione tra gli entusiasti fautori delle grandi opere – tutte, a prescindere dalla loro effettiva utilità ed in spregio di ogni rapporto tra costi/benefici – ed il solito schieramento dei “no a tutto”, che già stanno affilando le armi contro il Ponte sullo Stretto, sulla base di riserve ideologiche o della speranza di rifarsi dalla sconfitta elettorale per prendersi una rivincita sulla coalizione governativa, nella quale, ovviamente, non mancano posizioni sospette di puntare soprattutto ai grossi affari da realizzare, indipendentemente dai reali bisogni della popolazione.
Contrapposizioni che poi si ripropongono su scala locale, anche per interventi di più modesto impatto (si fa per dire, visto che pure nelle città sono in ballo investimenti miliardari). Ma dove l’importante non è mai la ricerca della soluzione più vantaggiosa attraverso un’intesa trasversale, ma il desiderio di infliggere un’umiliazione all’amministrazione in carica per provocarne il rovesciamento. Salvo poi essere ripagati con la stessa moneta, nel caso gli equilibri politici si ribaltino.
Ma così non si va molto lontano. Senza citare l’Estremo Oriente, basterebbe soffermarsi sui casi della Spagna e della Francia, dove, nell’arco di una sola generazione, si è radicalmente migliorata la mobilità, sia a livello nazionale – con la realizzazione di due grandi reti ad Alta Velocità, ormai quasi completate – sia a livello locale, con infrastrutture fisse efficienti (metropolitane, tram moderni) praticamente in tutte le città sopra i 200 mila abitanti. Mentre da noi, troppo spesso, si è continuato ad accapigliarsi con pochi risultati tangibili. Ma con grandi voragini nei conti pubblici.
*Massimo Ferrari
Presidente Utp/Assoutenti