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Ucraina: dopo un anno di guerra, l’eclissi della globalizzazione?


Ucraina: dopo un anno di guerra, l’eclissi della globalizzazione?

di Antonio Rossello 

In questi ultimi mesi pare essersi perlomeno inceppato quell’anelito che, a partire dagli anni 1990, ha riguardato un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. Vi sono fonti che lamentano l’apocalisse imminente della globalizzazione e la ristrettezza di vedute dei politici, ma queste frasi ad effetto servono a ben poco. Non si può interpretare il mondo in termini di “scelte geopolitiche” e altre simili terminologie, non meno inutili. Dobbiamo invece cercare di capire quali contesti siano davvero propensi ancora allo sviluppo del libero commercio (che costituisce il vero contenuto della globalizzazione) e quali meno. La globalizzazione, volendo per semplicità mantenere il termine, dovrebbe essere piuttosto compresa come un processo altalenante generato a fasi da determinate condizioni; condizioni che possono esistere o meno, essere presenti in forma più o meno marcata.

Il conflitto in Ucraina può essere osservato sotto una doppia luce. Una è quello dell’aggressione militare e della resistenza ucraina, e di questo si è discusso tantissimo. L’altro ambito di analisi verte sulle conseguenze della guerra sulla base di ogni suo possibile esito. E qui c’entra la globalizzazione.

Tutto muove dal principio di questo dramma. La notte fra il 23 e il 24 febbraio dello scorso anno, quando il mondo ha saputo che davvero la furia di Vladimir Putin aveva scatenato un’invasione vecchio stile e su larga scala in Ucraina. Ed è morto ciò che restava del sogno – o del miraggio – dei cantori della globalizzazione? Da allora sono passati dodici mesi di morte, distruzioni, efferatezze ed escalation; e di quella guerra – denominata in principio “operazione militare speciale” nella propaganda postsovietica del Cremlino – non si vede la fine. E ci troviamo, come sempre in simili casi, ad interrogarci sui dilemmi che ci restituisce la storia più recente. È un viaggio attraverso episodi spesso dolorosi o tragici, una proiezione oltre le nostre frontiere, fisiche o virtuali, ma anche una scelta etica.
Non vi sono certezze, ma solo poche speranze nel seguire la rapida successione degli avvenimenti.

C’è una possibilità che in tempi brevi cessi il fuoco? Non esiste, se non nella prospettiva (o nelle velleità) di una qualche resa incondizionata del fronte nemico che nessuno, a rigor di logica fattuale e auspici a parte, riesce a spiegare come sia possibile pensare di ottenere, evitando di dover giocare prima o poi a dadi con lo spettro di un’apocalisse nucleare.

Ogni previsione può dunque saltare, senza requiem. Lo si intravede già dalla complessità e variabilità dei temi che possono intersecare il campo di indagine: soldi e interessi, fenomeni di massa e spettacolarizzazione della violenza, cultura e ignoranza, guerra e pacifismo, media e politica, migranti e diritti, pandemia e libertà sono soltanto alcune delle consonanze e dissonanze, naturali o artate, che disegnano quella mappa caotica del tempo attuale che è la geopolitica.

Osservare, con passione ed inquieta curiosità, vale forse più della pretesa di stabilire dei confini disciplinari? Non è per voglia di peccare di nomadismo intellettuale, nella sua indole fondamentalmente anarchica, ma ci sentiamo ormai in grado di porre genericamente dei seri dubbi sulla bontà delle profezie di certi soloni riguardo alla globalizzazione.

L’evidenza di quanto sta capitando nel mondo non vi pare un indice di come le diversità culturali continuino a influenzare i comportamenti di consumo e quindi le strategie di mercato delle imprese riducendo gli effetti della globalizzazione?

Certo non sta accadendo come se, senza alcun preavviso, Dio fosse comparso per annunciare la fine del mondo… pare tuttavia che, per loro colpa o sfortuna, ci sia rimasta assai meno gente disponibile ad ascoltare i suddetti soloni.

Forse non è nemmeno corretto affermare che stiamo assistendo al declino inesorabile della globalizzazione, né tantomeno alla sua fine. È in atto piuttosto una sorta di riallineamento. Il mondo, con i suoi equilibri che fino a qualche anno fa lo governavano, sta repentinamente mutando. E questo anche (e soprattutto) sul piano economico.

Ciò avviene più sottilmente nei paesi culturalmente a noi simili e molto più profondamente nei paesi da noi culturalmente lontani, ossia i bistrattati terzomondiali, a dispetto delle teorie sulla globalizzazione che recitavano: tutti agiremo nello stesso modo, tutti compreremo le stesse cose.

In tal senso, potrebbe essere fuorviante fare soltanto affidamento sulle più giovani generazioni, amorfe e sfibrate, che qui in Occidente sono state plasmate a prenderli sul serio, i soloni…

Stiamo inoltre registrando una divaricazione tra i principi della globalizzazione e una concreta applicazione dei principi democratici. Questi ultimi presuppongono che il popolo possa esprimersi e governare, ovviamente attraverso i suoi rappresentanti. La globalizzazione ha generato un multilateralismo che si è trasformato in un reticolo di organizzazioni sovranazionali, leggi internazionali e condizionamenti vari. Il risultato si constata particolarmente laddove accanto a fenomeni imposti o indotti di globalizzazione adattata, permane la forza di ogni cultura rispetto ai tentativi più o meno palesi di assimilazione od omologazione.

Non si vuol così negare che stiano ancora sporadicamente avvenendo auspicabili processi di integrazione o inclusione, capaci di recepire gradualmente elementi di altre culture, digerirli e renderli coerenti con il pensiero culturale locale. Si concretizza, tuttavia, più di un atto di ribellione ai modelli imposti dal capitalismo esasperato, talora percepiti come degeneri rispetto ad una tradizione.

E tutto si traduce in guerra e violenza, di fatto, ibrida o economica. In primis perché il primato americano, sulla Cina e la Russia, si fonda anche su una superiorità militare e strategica. Oggi chi vuole una diversa globalizzazione potrebbe essere incoraggiato a premere ulteriormente sull’acceleratore delle proprie richieste, qualora gli Stati Uniti, attraverso l’Ucraina, dovessero perdere il conflitto. In soldoni: una vittoria dei russi sarebbe una sconfitta per l’Occidente e soprattutto per l’America, incrinerebbe il suo prestigio e quindi la sua capacità di leadership globale.

Ciò non incoraggerebbe i Paesi emergenti a contestare ulteriormente la supremazia a stelle e strisce?

Paesi emergenti che mostrano oggi occhi di riguardo all’Orso russo o al Dragone cinese, quasi fossero fatalmente destinati ad essere i profeti della fine dei loro tempi bui, e forse inconsapevoli di cadere così dalla padella nella brace, di dover rimanere lo stesso schiavi o al meglio gregari.

Per di più, e quasi perversamente proprio per il riallineamento ai due nuovi grandi rapaci mondiali, quelli che le teorie della globalizzazione consideravano paesi o culture che avrebbero necessariamente adottato il modello globale, dimostrano di essere la culla di fenomeni opposti, da dove partono addirittura modelli di consumo e prodotti a influenzare i paesi avanzati del Nord America e dell’Europa. Ricatto delle materie prime e delle fonti energetiche: embarghi e razionamenti. Mercati preda della speculazione, prezzi alle stelle. Si può toccare facendo la spesa al supermercato o rifornimento alla pompa, leggendo bollette che dimagriscono a vista il portafoglio di consumatori e imprese.

E, guarda caso, contemporaneamente, per certi versi risvegliando lo spirito a tratti svogliato del movimento NOGLOBAL, più di un sentimento NO… si fa strada nell’abisso ritenuto peccaminoso della civiltà occidentale, per annunciare ai suoi abitanti il suo imminente collasso. La triste notizia annunciata non sembra affatto scuotere chi già si dedica, con mortuaria solerzia, alla propria quotidiana estinzione, appiattendosi sullo status quo della convenienza o del non pensare. E l’unica cosa globale rimasta sembra la corsa al riarmo, fallito il miraggio del disarmo universale.

Anche il progetto apocalittico voluto dai più fanatici fra gli antisistema sembra però fallire, siccome una globalizzazione altalenante (tanto per dare una definizione, imperfetta ma più convincente, senza esagerazioni) è un processo da sempre esistito nella storia economica, fin dai tempi più antichi, che può assumere velocità e ricchezze molto elevate per il vorticoso ritmo degli scambi e delle proposte che finora ha caratterizzato il nostro tempo.

Nulla di nuovo sotto il sole: pesce grande mangia pesce piccolo, ma se non è mangiato a sua volta da uno ancora più grande. E se non crepa. Formalmente solo Russia e Cina si stanno prendendo a botte, ma chi scalpita?

Alcuni Paesi del Golfo e la Cina, sicuramente. Ma anche l’Indonesia, il Sudafrica e il Brasile (almeno fino a Bolsonaro). Sono tanti gli Stati che chiedono nuove regole. Gli Stati Uniti, però, non sono disposti a cedere il ‘comando’. È per questo che le implicazioni della guerra in Ucraina sono profonde e di lungo periodo. In questa fase storica, si potrebbe affermare che il colonialismo economico, più o meno implicito, del secolo scorso si frantuma e si riaggrega, seguendo nuovi modelli di internazionalizzazione. Questo senza voler approfondire troppo, lanciando solo spunti di riflessione; senza dilungarsi oltremodo, perché chi lo fa spesso non dice di più, con il rischio di non azzeccarci.

Antonio Rossello


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A. Rossello

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