Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Finalborgo. Il ritorno di Antonio giovane operaio Piaggio deportato in Germania


Una sintesi delle memorie di Antonio Schiappapietre, giovane operaio piaggista abitante in Finalborgo, deportato in Germania nel marzo del 1944. Questo articolo è in via di pubblicazione anche sulla Rivista “Il Quadrifoglio” dell’Associazione “Emanuele Celesia” – Amici della Biblioteca e del Museo del Finale.

IL RITORNO DI ANTONIO

Antonio Schiappapietre, con la bandiera, in una riunione di ex-deportati, alcuni anni dopo il suo rientro in Finalborgo. L’intero racconto, tratto dalle “memorie” di Antonio, è scritto nel  libro  di Gabriello Castellazzi “Ritorno a Finalborgo” Ed. “Libreria Cento Fiori” – Finale Ligure

“Non sono un intellettuale, per cui chiedo venia se si riscontreranno errori in questa mia narrativa, che dedico ai miei nipoti affinchè ne traggano auspicio per per lottare sempre per la pace, contro ogni guerra foriera di distruzioni, di vite umane e di coscienze”.

Questa l’introduzione di Antonio Schiappapietre sul quaderno di memorie “La mia deportazione in Germania 1944 – 1945”, scritto molti anni dopo il suo avventuroso rientro in Italia. Antonio nacque in Finalborgo il 9 settembre 1922 e la sua terribile esperienza si consumò quando era un giovane di 22 anni. A cento anni dalla sua nascita credo sia giusto ricordarlo, con una breve sintesi della sua testimonianza, a partire da un drammatico e freddo mattino in via Caprazoppa: “Alzati…sono venuti a portarti via!”

Alle 5 di mattina del 3 marzo 1944 Antonio sentì  bussare violentemente alla porta di casa, poco dopo ci fu il grido di sua madre.Venne prelevato e portato via sotto gli occhi disperati dei famigliari. Cosa era successo?

Due giorni prima, il 1° marzo , alle 10 del mattino, la sirena della Piaggio aveva iniziato a suonare. Per gli operai dello stabilimento aeronautico, in riva al mare, non era il solito lugubre segnale delle prove di allarme aereo.  I volantini lanciati nel cortile interno dalla via Aurelia – nella notte del 29 febbraio – avevano avvisato che le truppe americane erano in procinto di sbarcare a Finale.

I partigiani, scesi dalle montagne, si sarebbero uniti alla forze armate della liberazione e contavano sull’azione di sostegno da parte degli operai finalesi. Gli avvenimenti presero però un’altra piega: davanti alla Piaggio arrivarono improvvisamente i Carabinieri guidati dal maresciallo “Rigoletto” (detto così per via della gobba).

Rigoletto”, con la pistola in pugno, urlò a tutti di ritornare all’interno dell’hangar: “Andate a lavorare, ribelli!”

Sorpresa e smarrimento generale. Subito dopo si diffuse la voce di retate e arresti. Antonio era uno dei più attivi tra i giovani scioperanti. Quella mattina era in prima fila di fronte alle armi puntate ma, colto di sorpresa, non riuscì a reagire e rientrò in fabbrica a testa bassa.

Purtroppo era stato individuato e per questo venne poi prelevato e portato via. In caserma trovò altri giovani rinchiusi in una cella, in attesa di decisioni. A mezzogiorno vide arrivare suo padre con una grossa pentola di minestrone: verdura e riso. Erano a digiuno.. nessuno aveva potuto far colazione, ma adesso c’era cibo per tutti. Per il resto della vita, ad ogni 3 marzo, il pranzo di Antonio sarebbe stato minestra di verdure con riso, in ricordo dell’affetto del padre per quel suo primo giorno da carcerato.

Nel tardo pomeriggio i giovani piaggisti vennero portati all’ospizio “Merello” di Spotorno. La milizia fascista e i militari tedeschi organizzarono un convoglio per Genova: iniziò così un lungo viaggio verso l’ignoto.

A Genova, vennero informati sulla loro destinazione: “Andrete in Germania a lavorare come volontari !” Da non credere…e gridarono: “Ma noi non siamo volontari, siamo prigionieri!” Venne comunicata la destinazione: prima il Brennero, poi  Innsbruck in Austria. Il paesaggio cambiò completamente perchè tutto era coperto dalla neve. Il convoglio venne fermato ad una piccola stazione, in aperta campagna e i prigionieri condotti incolonnati verso baracche lontano dalla ferrovia. Ci fu prima l’appello, poi la destinazione ai campi di lavoro e tutti dovevano consegnare i documenti personali.

Accidenti… li ho messi nella borsa che ho lasciato sul treno”. Quella dimenticanza salvò la vita di Antonio. Il militare che faceva l’appello ordinò di andare subito a recuperare le sue carte alla stazione. Per accorciare la strada Antonio prese la via dei campi, ma la neve era alta e poteva procedere lentamente, così quando riuscì a ritornare l’adunata era ormai finita.

Alcuni gli dissero di aver sentito il suo nome nell’elenco dei destinati a Mauthausen. Un altro graduato, al quale Antonio consegnò i documenti, gli indicò il treno su cui doveva salire, la destinazione era Stoccarda. Senza dir nulla obbedì a quell’ordine probabilmente sbagliato. Nessuno in quel momento poteva sapere che Mauthausen era un campo di concentramento dove molti suoi compagni avrebbero poi perso la vita.

Il  14 marzo vide la fabbrica di Stoccarda, sistemato in una baracca di legno insieme a prigionieri russi e polacchi…il freddo era terribile. Per il giovane Antonio iniziava una prova durissima: lavoro faticoso, orari da schiavi, sempre al freddo. Una mattina entrando in fabbrica si sbagliò nel salutare il “piantone”: tutti erano obbligati a gridare “Heil Hitler!”, ma lui semiaddormentato disse: “Buon giorno”.

Venne afferrato per la gola dalla guardia e stretto fino a  perdere i sensi. Riprese conoscenza, ma stette malissimo per tre giorni: credeva di morire. Antonio nel diario scrisse poi tutti i fatti rilevanti che accaddero in quel drammatico periodo di prigionia: il lavoro era bestiale ma avvenne anche, incredibilmente, un fatto imprevisto: riuscì a prendere contatto con una famiglia tedesca  abitante nei pressi della fabbrica. Questi, impietositi, gli portavano di nascosto del prezioso cibo. I bombardamenti degli alleati furono terribili e tante volte si salvò per miracolo.

La fortuna lo aveva assistito perchè non era stato costretto a lavorare nel campo di  Mauthausen, ma lui, in quei giorni, di quello scampato pericolo non sapeva nulla. Aveva comunque una grande paura… gli avvenimenti potevano prendere una brutta piega da un momento all’altro. L’inverno era terribile (termometro a -30°) e dai tubi gelati niente acqua. Nessun riscaldamento e al posto delle coperte arrivavano maltrattamenti.

Mesi di silenzio, tristi e pieni di paura, che terminarono soltanto quando si udirono in lontananza dei colpi di cannone. Si sparse subito la voce… sono i carri armati dell’esercito alleato. Giungeva il momento della libertà e della possibile fuga verso l’Italia. Nella confusione generale le guardie naziste si sbandarono e i prigionieri decisero di scappare.

L’aiutò molto quel  po’ di  tedesco appreso nei contatti con la famiglia amica e raggiunta la stazione insieme ad un amico riuscì a salire su di un treno per  Monaco di Baviera. Il treno raggiunse finalmente Monaco e da qui un altro convoglio li portò a Innsbruck, infine a Bolzano. Da Bolzano però non partiva più nessun treno e furono costretti a proseguire a piedi. Quando veniva il buio si rifugiavano nelle stalle, dormendo sopra un po’di paglia.

Il passaggio fortunato su di un camion li portò a Milano dove vennero immediatamente riconosciuti come reduci dai campi di concentramento e aiutati con una generosità commovente. Un uomo in bicicletta – probabilmente un partigiano – li avvicinò e consegnò loro, furtivamente, cinquanta lire.

Una crocerossina li vide e offrì loro un pranzo in trattoria. Riuscirono nuovamente a trovare un passaggio per Torino. Il tragitto su quest’altro camion non fu meno avventuroso e con momenti di grande paura. A Torino abbracciò l’amico che decise di andare alla ricerca della sua famiglia alloggiata chissà dove.

Dopo tre giorni di riposo trovò un treno per  la Liguria, ma, arrivato a Cavallermaggiore il convoglio si fermò: la strada ferrata era stata colpita dai bombardamenti e si poteva proseguire solo a piedi. A Savigliano camminò fino alla piazza centrale: sotto ai portici c’erano un negozio di frutta e un bar quindi poteva mangiare e bere qualcosa di caldo. Un distinto signore lo avvicinò e gli chiese con chiaro accento ligure: “Pé cosciu, le, u nu l’è miga de San-a?” (per caso lei è forse di Savona?)

Ad Antonio gli si aprì il cuore: rivelò che era in fuga da un campo di concentramento tedesco e voleva tornare al più presto nella sua Finale. Tutte le persone che erano al bar fecero addirittura una colletta per lui: si trovò in pochi minuti con un piccolo gruzzolo e si commosse per tanta solidarietà. Stava per riprendere la strada a piedi quando una signora dal fondo della piazza gli gridò: “Stai attento! Vedi che non ci sono giovani in giro? Potresti anche tu essere ripreso dai fascisti!”

Giunse comunque a Mondovì, trovando sempre persone generose e disponibili ad aiutarlo. Ma attraversata la città si trovò improvvisamente di fronte ad un posto di blocco: erano militari tedeschi, armati, con brutte intenzioni. Lo fermarono e lui stanco rispose con franchezza a tutte le domande… disse la verità: “Sono un prigioniero scappato dalla Germania, dove ormai c’è caos perché sono arrivate le truppe anglo-americane da una parte e quelle russe dall’altra… la guerra sta per finire.”

Il militare che comandava la pattuglia divenne scuro in viso: non si aspettava un testimone oculare che  raccontava quanto stava accadendo in Germania. Inoltre la sua testimonianza era arricchita da qualche frase in tedesco, quindi più efficace. Il comandante, all’inizio, pensava di aver catturato un partigiano. Ma si dovette ricredere. Venne comunque ordinato ad un soldato della pattuglia di condurlo nell’albergo vicino e sorvegliarlo.

Nella notte Antonio aprì la finestra della camera e si accorse che c’era la possibilità di fuggire. Aiutato dal buio riuscì a scappare attraverso una porta secondaria e la fortuna gli fece incontrare un camionista in partenza per Ceva.

A Ceva gli venne segnalato un altro camion in transito che  portava operai da Garessio a Savona. Con un po’di insistenza riuscì a salire anche su quello. Giunto a Montezemolo avvenne il suo primo incontro con un suo concittadino. Un gruppo di partigiani  aveva bloccato il camion e tra di loro riconobbe subito un finalese. Grazie a lui fu facile ottenere  il via libera per Savona, dove con il tram elettrico raggiunse Vado.

I bombardamenti del giorno prima avevano interrotto la ferrovia per Finale e dovette proseguire a piedi, ma niente poteva più fermarlo e si incamminò nonostante i piedi gonfi e doloranti. A Noli lo superò una donna in bicicletta. Era una signora di Finale che lo riconobbe e si fermò. Ma doveva proseguire perché era tardi, comunque si impegnava a raggiungere Finalborgo per avvisare la sua famiglia. A Varigotti vide un camioncino. Antonio si mise in mezzo alla strada e lo fermò pregandolo di dargli  un passaggio. Il conducente, vedendolo così conciato, dapprima rifiutò, poi si convinse ad aiutarlo e lo fece salire.

Entrato in Finalmarina, chiese all’autista di fermarsi all’incrocio di Via Brunenghi: ormai poco più di un chilometro lo separava da casa. Arrivato in prossimità dell’Altino vide suo padre che gli veniva incontro correndo. La  notizia si diffuse in un baleno per tutto il Borgo. Accorsero degli amici che se lo caricarono addirittura sulle spalle.

La madre e la sorella, insieme a tutti i vicini di casa, lo incontrarono a Porta Testa. L’abbraccio con sua madre fu ancora più emozionante. Erano le ore 21 del 19 aprile 1945.  Finivano tredici mesi di angoscia, di fatica, di fame e Antonio ora pesava meno di quaranta chili.

Sei giorni dopo… il 25 Aprile…la Liberazione.

 


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