“La vita, una malattia inguaribile, che conduce inesorabilmente alla morte.”
di Filippo Maffeo
Trasecolai nel sentire questa frase, passeggiando e colloquiando serenamente in un assolato e caldo pomeriggio estivo. A pronunciarla, all’improvviso, senza alcun legame con ciò di cui si discuteva, fu il mio vecchio compagno di banco del liceo, Luciano. Vecchio compagno, ma ancora non vecchio, neppure col metro dell’anagrafe.
Una bizzarria logica, che però colloca la vita e la morte nei naturali confini, quelli che noi non possiamo spostare. Non ebbi il coraggio di chiedergli la ragione della sortita e neppure se la frase fosse farina del suo sacco.
Per istinto cambiai argomento, solleticando la sua radicata passione politica ed il suo amore per quell’antico borgo in cui era nato, nell’immediato entroterra di Albenga, adagiato tra due torrenti che là confluiscono per formare il Centa, il più corto fiume d’Italia, appena tre km.
Dopo poco tempo, in silenzio, decise di lasciarci. Non aveva, all’epoca, malattie, almeno per quanto sapessi. Pensai ad un presagio. I presagi, uno dei lati oscuri della mente umana, che l’uomo moderno, che tutto vuole controllare e spiegare con la ragione, ha accantonato.
La frase di Luciano mi ha pervaso la mente martedì 6 dicembre.
Nel primo mattino, ho udito squillare il cellulare ed ho letto il nome del chiamante: Guido. Ho risposto “pronti!”, con voce stentorea, squillante, esattamente come lui soleva fare, quando mi rispondeva; per scimmiottarlo, per la prima volta. Ma la voce che udii non era quella di Guido. Non era mai accaduto. Era Manuela, la compagna, la madre, due figlie, che ha iniziato a parlare con voce rotta ed un tono straziante. Subito non ho voluto realizzare. Avvertita l’emozione ho iniziato a temere, ma mi attendevo altre notizie, come l’annuncio di un malore improvviso o di un ricovero ospedaliero legato alle patologie che lo affliggevano. Ed invece no, mi ha detto che Guido era mancato, poche ore prima, nel suo letto, dopo aver passato una notte serena. Non si era più svegliato. Lei lo aveva chiamato, gli si era avvicinata, lo aveva scosso. Ma niente. Lui non sentiva, non reagiva, continuava a dormire; ma respirava. Non tutto era perduto. Aveva chiamato in soccorso il 118, i medici e gli infermieri erano arrivati in un battibaleno, ma nulla avevano potuto.
Guido non era più con lei, non era più tra noi. Ma come?
Ci eravamo visti una settimana prima. Stava bene, considerato il suo quadro clinico complessivo. Appariva abbastanza saldo sulle gambe, la voce era quella, tonante, di sempre. Avevamo partecipato alle esequie di Roberto, compagno di Liceo, in Alassio; avevamo rivisto e salutato altri compagni. Un pomeriggio triste ma sereno. Lo avevo riaccompagnato a casa e al momento del commiato, chiudendo lo sportello, salutandomi, mi aveva detto: “speriamo proprio di non rivederci al mio funerale”, una pausa e poi “o al tuo”. Non avevo dato particolare peso a quel che diceva. Avevo preso, avevo voluto prendere le sue parole come una scaramanzia, uno scongiuro per favorire la buona sorte.
Ed invece no. Forse temeva, forse presagiva.
La vita, malattia incurabile, procede implacabile e scappa via all’improvviso, senza avvisarti. Che tu abbia o no altre patologie, più o meno gravi. Come aveva detto Luciano, la prima malattia, la madre delle malattie, è la vita. Questo pensiero prorompeva senza freni e mi occupava la mente, distraendomi, stemperando l’immediata, acuta, pungente sofferenza, mentre Manuela raccontava le ultime ore di Guido, il risveglio notturno per mangiare un budino ed il mancato risveglio.
Superata l’incredulità sono stato preso da un turbinio di ricordi. Ci eravamo frequentati, eravamo rimasti sempre in contatto, dalla prima media sino alla settimana scorsa. Guido, pensavo, aveva avuto un ruolo importante nella mia vita. Lui e Gianni e Giorgio e Carlo e Mauro sono i ragazzi che avevano riempito la mia adolescenza, accogliendo con profonda, leale, disinteressata amicizia me giovane. Un giovane che, alla ricerca con la famiglia di un futuro migliore, era stato estirpato dal profondo sud e sbalzato a 900 Km di distanza; era rimasto privo della banda d’infanzia, i “monelli” che riempivano la piazza del paesello, giocando a palla o con le biglie sulla strada, piroettando con tricicli e biciclette, con e senza rotelle, tirando la fune con i più grandi, saltellando su un piede in tanti riquadri disegnati col gesso sull’asfalto, tra le macchine, rare, che transitavano scoppiettando e clacsonando per ottenere spazio. Un mondo di giochi, gradevole e gradito che svaniva, col pianto ma senza rimpianto, perché il nuovo mondo del Nord non avrebbe fatto sconti, non c’era spazio per i rimpianti. Non si affitta ai meridionali. Devi dare il meglio di te per non finire travolto, mi dicevano in famiglia. Non si passa facilmente da un ambiente ad un altro. Tutto ha un costo. Ma Guido e gli altri mi accolsero come uno di loro, senza mai farmi sentire diverso, inferiore.
Guido ha preso il largo, in silenzio, senza disturbare nessuno. Senza far soffrire nessuno oltre lo stretto necessario. Nella morte è rimasto quello che era stato in vita, quella vita che non fa sconti a nessuno e che, inesorabile, ti porta alla livella finale, che tutti accomuna.
Nella morte come in vita; riservato, attento a non debordare mai, a fare da solo, senza dare fastidio ad altri.
Altruista sino all’abnegazione. Ricordo le notti che, sin da giovane, passava nella Croce Bianca di Borghetto S. Spirito, come milite, tra un turno e l’altro del suo lavoro. Ricordo la soddisfazione che mostrava, quando riferiva l’esito positivo di alcuni interventi urgenti, in soccorso di persone in pericolo di vita o vittime di gravi incidenti stradali.
All’apparenza un po’ burbero, aveva a cuore la vita della sua comunità, con la sola soddisfazione del bene fatto. Nell’associazionismo benefico della Croce Bianca come in politica, nella quale si impegnò per anni e con risultati di tutto rispetto, sino a raggiungere l’incarico di segretario provinciale della DC. Aveva conquistato la fiducia di tanti, quella a cui teneva di più era quella dei concittadini di Borghetto, i cui interessi si era sempre sforzato di tutelare nel consiglio comunale. Se Borghetto ha ora un ponte alternativo a quello sull’Aurelia lo si deve anche a lui. Negli anni 80 il ponte sulla Statale era transitabile a senso unico alternato, perché pericolante. Si formavano code lunghissime; per attraversare Borghetto non bastava mezz’ora. Il disagio era notevole. A qualcuno, che più tardi negli anni si trasformò in coltivatore di rose, venne in mente di realizzare poco più a monte un ponte mobile del tipo Bailey (prendendone uno, tra i tanti che l’esercito teneva inutilizzati in deposito). Lui sposò con entusiasmo l’idea ed insieme al Sindaco dell’epoca, dott. Gianluigi Figini, il progetto devenne realtà ed il traffico sull’Aurelia si normalizzò. Il ponte provvisorio rimase in opera per anni, fino a quando fu sostituito da quello in cemento che ora vediamo in via Leonardo Da Vinci, nei pressi della nuova caserma dei Carabinieri.
Guido viveva per la famiglia ed anche per la politica. Era stimato e benvoluto da politici locali e nazionali di rango. Ne aveva conosciuto e frequentato davvero tanti. Rammento, all’inizio, il senatore Giancarlo Ruffino, l’on. Alessandro Scajola, il senatore Bruno Orsini e l’On. Manfredo Manfredi. E poi, più avanti negli anni, mi raccontava delle sue frequentazioni con l’on. Mino Martinazzoli ed il Presidente Mattarella. L’amicizia e frequentazione con l’on. Alessandro Scajola e la moglie si era, negli anni, estesa al fratello, on. Claudio, più volte ministro. Conosceva e trattava con tutti i Sindaci del savonese.
Nella vita, negli affetti familiari, come tutti noi, Guido ha conosciuto gioie ed avversità. Ma, nel bene o nel male, non ha mai mutato atteggiamento. Ha tenuto sempre dritta la barra e la schiena. Non arretrava mai, non si piegava mai. Era un combattente di natura. Lottava e resisteva sempre, tenace come un Alpino. Lui che veniva dalle Alpi del mare. Lui che aveva passato la naja di leva con il cappello piumato, come tenente degli Alpini, dopo la scuola di Aosta; impegnato in Friuli, in un reparto Nato. Ne andava fiero. Mi raccontava le esercitazioni e quel che riusciva ad ottenere dal reparto che comandava. E del rampollo della famiglia Nardini, che portava nel reparto il meglio del meglio del distillato di grappa. E dei pendii infestati da vipere, del terremoto di Venzone e del Friuli. E del suo andirivieni tra Borghetto ed il Friuli, sfrecciando settimanalmente, su e giù, con la fantastica Alfa Junior Zagato gialla, i cui copertoni si consumavano in un battibaleno.
Poi la scalata, da bravo alpino, nella concessionaria Fiat d’Albenga, in cui era entrato giovane come venditore ed eri diventato, nel tempo, preposto e socio con quota paritaria. Avevi anche messo il tuo fiuto per l’economia e la sua sensibilità verso il sociale al servizio della CARIGE, come membro del cda della Fondazione.
Amico d’infanzia, hai preso il largo e ci hai lasciati sulla riva, soli.
Ed invece, tornando indietro nel tempo, ai nostri allegri vent’anni e per dirla col Poeta:
“Guido, i’ vorrei che tu e Gianni e Giorgio e Mauro e Carlo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.”
Il Signore ti soccorra.
Buon vento, Guido.
di Filippo Maffeo