Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Vulcani vicini di casa. E indagine della Regione su 36 comuni affidata a 3 geologi


L’Italia è un paese di vulcani, terremoti e terre instabili. La causa è facile da individuare: tre placche, la tirrenica, l’adriatica (che fanno parte dell’euroasiatica) e l’africana, si stanno scontrando tra loro. Indagine in 36 comuni liguri affidata dalla Regione a 3 geologi.

REGIONE LIGURIA – TERREMOTI: AFFIDATI INCARICHI TECNICI PER INDAGINI DI MICROZONAZIONE SISMICA IN 36 COMUNI TRA AREA METROPOLITANA E SAVONESE.
GENOVA. Prosegue il sostegno di Regione Liguria ai piccoli comuni in relazione allo svolgimento delle indagini di microzonazione sismica del territorio, in attuazione della programmazione regionale delle attività di prevenzione del rischio legato ai terremoti. La Giunta regionale, su proposta dell’assessore alla Protezione civile Giacomo Giampedrone, ha affidato al raggruppamento temporaneo di operatori economici composto da Geamb Srl e ai geologi Fabio Tedeschi, Luca Raffaelli e Francesco Nicatore l’incarico per svolgere questo compito in 36 Comuni dell’area metropolitana genovese e del savonese, con l’elaborazione di studi specifici accompagnati dall’analisi della ‘Condizione limite d’emergenza’ dell’insediamento urbano e alla definizione degli scenari di danno sismico e revisione dei Piani di emergenza collegati.
“Queste attività sono normalmente svolte dai Comuni ma Regione intende sostenere le amministrazioni locali piccole o piccolissime – spiega l’assessore alla Protezione civile Giacomo Giampedrone – che con le proprie uniche forze non riuscirebbero a realizzarle. Si tratta di studi e monitoraggi fondamentali per una corretta pianificazione del territorio e per l’elaborazione e l’aggiornamento dei Piani di Protezione civile: temi su cui la nostra regione è all’avanguardia e ha posto e pone grande attenzione. In particolare, a favore di questi Comuni abbiamo stanziato a giugno oltre 260mila euro per attività di prevenzione sismica, compresi gli studi di microzonazione per cui abbiamo affidato ora gli incarichi. L’obiettivo ultimo è la prevenzione, che ovviamente non riguarda solo l’aspetto idrologico ma anche quello sismico: la conoscenza e il monitoraggio sono fondamentali per individuare le aree potenzialmente pericolose in modo da fornire ai Comuni le informazioni necessarie per intervenire e mitigare il rischio”.
I Comuni interessati sono: nell’area metropolitana Casarza Ligure, Masone, Mele, Rossiglione, Tiglieto; nel savonese Altare, Balestrino, Bardineto, Bergeggi, Borghetto Santo Spirito, Borgio Verezzi, Bormida, Castelbianco, Castelvecchio, Cengio, Cosseria, Erli, Giustenice, Loano, Magliolo, Mallare, Millesimo, Murialdo, Nasino, Noli, Osiglia, Pallare, Pietra Ligure, Plodio, Quiliano, Rialto, Roccavignale, Toirano, Tovo San Giacomo, Vado Ligure e Vezzi Portio.

di Alesben B.

Dalla collisione tra le prime due sono emersi dal fondo del mare gran parte degli Appennini e i vulcani che si trovano al loro interno, mentre dallo scontro tra l’africana e la tirrenica hanno preso forma i vulcani dell’Italia meridionale. Queste collisioni sono ancora in atto e hanno fatto sì che la placca adriatica e l’africana si stiano infilando sotto quella tirrenica a una velocità di circa 0,6-1 millimetro all’anno. Negli ultimi due milioni di anni, nell’area italiana si sono avute ma­nifestazioni molto importanti di almeno 2 tipi diversi di vulcanesimo.

Una prima attività vulcanica è legata allo scivolamento della placca del Mar Adriatico sotto quella del Tirreno. La zolla sprofondata ha attualmente rag­giunto i 450 chilometri di profondità e dalla sua parziale fusione si sono formati i magmi che hanno dato origine ai vulcani appenninici, dal Vesuvio ai Campi Flegrei, ai laghi craterici laziali (Bolsena, Vico, Bracciano, Albano e Nemi). Anche le emissioni di vapori e gas del Monte Amiata e i vul­cani ormai spenti (almeno lo si ipotizza) del Vulture (Potenza) e di Roccamon­fina (Caserta) sono legati allo stesso fenomeno.

Una seconda area di attività vulcanica è quella che si manifesta in seguito allo scivolamento della zolla africana sotto il Tirreno. Il fenomeno ha dato origine al vulcano sottomarino Marsili, che è anche il più grande vulcano europeo (65 km di lunghezza e oltre 3.000 m di altezza) e a quelli delle Isole Eolie. Questi gruppi di vulcani sono tra loro abbastanza simili nel modo di eruttare. Fa eccezione l’Etna, perché  è legato alla presenza di grandi fratture che interessano l’intera crosta terrestre (anche l’Isola Ferdinandea che oggi è sotto il livello del mare ha una medesima origine) e che scendono fino al mantello sottostante; i magmi arrivano direttamente dal mantello terrestre (lo si definisce di “punto caldo”. La diversa origine dei magmi determina la forma del vulcano e il tipo di materiale che viene eruttato.

Nell’Etna le lave fuoriescono con relativa calma, sono molto fluide e possono viaggiare a velocità sostenute anche per diversi chilometri, prima di fermarsi. I gas, che pure sono presenti in abbondanza, si separano dalla massa liquida del magma in modo non violento. I magmi del mantello, invece, sono poco viscosi, assomigliano all’olio e dunque, debordano dalla sommità del vulcano come acqua che fuoriesce da una siringa quando si agisce lentamente sul pistone. Per questo motivo l’Etna ha un diametro di diverse decine di chilometri perché la sua lava liquida può percorrere distanze molto lunghe. Questo vulcano non possiede un vero e proprio serbatoio da cui attinge il magma, perché quest’ultimo proviene direttamente dal cuore della Terra. È pur vero tuttavia, che prima di uscire in superficie, il magma ristagna in giganteschi contenitori naturali che una volta pieni danno origine alle singole eruzioni.

In origine i vulcani,  anche se alcune caratteristiche li accomunano notevolmente, hanno forme e comportamento molto diverso. Alcuni sono esplosivi,  come lo Stromboli o il Vesuvio,  hanno origine dalla crosta che fonde ovvero il risultato è dato dalla fusione delle rocce (a circa 700° C) in seguito allo sprofondamento delle placche. Molti ormai addormentati, alcuni sempre attivi e altri che presto potrebbero risvegliarsi. Il Vesuvio ne è l’esempio più classico: l’esplosione del 79 d.C., le cui ceneri seppellirono Pompei ed Ercolano, testimonia la sua pericolosità. Come il Vesuvio si comportano molti vulcani della cintura di fuoco del pacifico.

I vulcani esplosivi si trovano principalmente nelle zone di subduzione, dove le placche continentali collidono tra loro. Nella cintura di fuoco del Pacifico sono famosi il Monte Merapi, il monte Unzen, il Pinatubo, il Mayon e il monte Sant’Elena. Le più forti eruzioni vulcaniche in termini di Indice di esplosività vulcanica sono prodotte da questa tipologia di vulcani. Essi possono essere completamente distrutti durante l’eruzione, dando luogo in questo caso alla formazione di una caldera . Un tale evento si produsse circa 73000 anni fa nell’area nota come lago Toba. Un’altra famosa caldera è quella dell’isola di Santorini, in Grecia.

Pentoloni spenti ? Una prima volta 36.000 anni fa e successivamente 14.000 anni or sono un vulcano poco a nord del Vesuvio esplose dando origine a eruzioni violentissime. Quegli eventi scoperchiarono la parte sommatale dell’edificio vulcanico che collassò su se stesso. Oggi l’area è nota come Campi Flegrei e la struttura è chiamata caldera, un enorme pentolone che possiede un diametro di 12 per 15 km.

Altra caldera, in parte trasformatasi, con  età compresa tra 18.300 e 16.000 anni, e dominato da due grandi eruzioni pliniane: l’eruzione delle Pomici di Base (avvenuta 18.300 anni fa) e l’eruzione delle Pomici Verdoline (avvenuta 16.000 anni fa); è cominciato il collasso dell’apparato vulcanico del Somma e la formazione della caldera nella quale si accrescerà il nuovo edificio del Vesuvio.

Il Vesuvio, o più propriamente il Somma-Vesuvio, è un strato-vulcano di medie dimensioni che raggiunge un’altezza massima di 1.281 m s.l.m. Altre caldere, in Italia e nel mondo, si sono formate in modo meno catastrofico, semplicemente in seguito allo svuotamento della camera magmatica dopo un’eruzione. In Italia ne sono un esempio i vulcani laziali, le cui caldere ospitano il lago di Bolsena e di Vico, dal quale si erge il piccolo cono vulcanico di Monte Venere; il vulcano “Vulcano” nelle Eolie, il cui punto di quota più alto è costituito da Monte Aria (499 m s.l.m.). Dal punto di vista geomorfologico l’isola è composta dalle caldere del Piano e La Fossa. All’interno di quest’ultima sorge il Gran Cratere de La Fossa, luogo delle ultime manifestazioni eruttive. Più a nord, invece, sorge la penisola di Vulcanello, collegata a Vulcano da un istmo sabbioso risalente all’ultima attività eruttiva collocabile nel XVI secolo.

E nel resto del mondo ? Le aree interessate al vulcanismo sono le dorsali oceaniche (dove 2 placche si allontanano tra loro), la “cintura di fuoco” circumpacifica e altre fasce del pianeta dove è in atto uno scontro di placche (come quello che sta avvenendo sotto l’Italia tra l’Africa e l’Europa) e i “punti caldi”, dove il magma del mantello più profondo giunge direttamente fino alla superficie terrestre (come nel caso dell’Etna). I vulcani non sono dunque distribuiti in modo uniforme sulla superficie terrestre, ma per il 99% sono concentrati in alcune aree particolari che, tra l’altro, sono sede di frequenti terremoti.

E vicino a noi a sud est dell’ex polveriera di Vezzi Portio, appena più indietro della ex cava, ai cui piedi dei versanti sono adagiate le abitazioni di Voze località Ganduglia e le estensioni pratifere delle terre rosse, si eleva sulla dorsale due dossi gemelli, con caratteristiche morfologiche ed aspetto esteriore molto simili a quelli del Monte Poggio.

Monte Poggio (1081 m) poco a nord-ovest rispetto ai Piani di Pràglia, sull’ampia e poco definita dorsale che separa la Valle Stura dalla val Gorzente. Si presenta come un regolare cono erboso, riconoscibile anche da molto lontano; per via della sua forma assomiglia molto ad un vulcano spento. Sui versanti affiorano a più riprese rocce peridotitiche, dal caratteristico colore bruno-rossastro.

La cima della montagna è costituita da due dossi gemelli; il dosso occidentale è il più alto, ed è sormontato da una grande croce metallica e da un cippo in cemento con annessa piccola croce; il dosso orientale è di pochi metri più basso, ed è segnalato da un grosso ometto di pietre. Poco sotto alle roccette del dosso sommitale si trovano alcuni ruderi di muretti a secco.
Il Monte Poggio è una delle cime più belle e panoramiche del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo: offre una spettacolare vista a 360 gradi, con il mare, l’Appennino Ligure (bella la vista sull’altopiano della Scaggia e sulla Punta Martìn, o anche la vista ravvicinata sull’alta Val Gorzente, completamente disabitata, e sul Monte delle Figne), la Pianura Padana e gran parte dell’arco alpino sullo sfondo.

Più a nord, ai margini delle Alpi Pennine affiora silenziosamente il Supervulcano detto dei”Vini” tra la Valsesia e la Valsessera ormai da parecchio tempo, anzi da millenni. Le sue dimensioni non sono trascurabili. La sua bocca misurava ben quindici chilometri di diametro.Come mai non se ne erano accorti prima? Forse perché è sprofondato su se stesso e la catastrofe è avvenuta in lontane ere geologiche e quindi prima che potesse essere visto da occhi umani.

Nonostante questo, il Vulcano in Piemonte, celato da svariati millenni, è stato recentemente scoperto da un gruppo di scienziati italiani e americani.Questo ritrovamento non è stato affatto casuale se si considera che la zona era già conosciuta dai geologi per le sue particolarità e da quasi cento anni gli abitanti della Valsesia hanno visto studiosi di varie nazionalità visitare le loro terre, credendoli però attirati dalle vecchie miniere, ma la vera ragione era più profonda e dovuta al particolare assetto geologico della regione.

Qui, come spiegano gli addetti ai lavori, l’orogenesi alpina ha causato il ripiegamento dell’antica crosta continentale che, di conseguenza, è stata sollevata ed esposta all’erosione. Il perché della sua particolare evoluzione lo svelano gli studi degli ultimi vent’anni che hanno dimostrato che circa duecentonovanta milioni di anni fa la parte inferiore della crosta continentale di questa zona veniva intrusa da magmi basaltici ad alta temperatura e il conseguente riscaldamento portava alla fusione delle rocce profonde con la produzione di magmi granitici; formazione di un’area vulcanica la cui attività è culminata con lo sprofondamento di una caldera vulcanica di enormi dimensioni che i geologi chiamano appunto “supervulcano“.

Silvano Sinigoi, professore Ordinario di Petrografia all’Università di Trieste e capo geologo italiano della scoperta, fa notare che il supervulcano rappresenta l’unico caso al mondo dove il sistema magmatico sottostante a un supervulcano sia esposto fino ad una profondità di circa venticinque chilometri. Praticamente un assaggio in superficie di un viaggio al centro della Terra; detto in altre parole si vede chiaramente quello che normalmente non si può vedere sotto al vulcano, ovvero, il sistema di alimentazione. Bisogna tener conto che l’area in cui affiorano le rocce vulcaniche, è parecchio estesa, da Borgosesia alla pianura Padana, dalla zona di Curino a quella di Borgomanero-Maggiora.

La Bestia si è messa di fianco, come un dinosauro morente. Puoi vederne le fauci, il gigantesco cratere rossastro, poi il magma che sale per l’ esofago con graniti grigi e scintillanti, infine il pentolone profondo e scuro che ha fatto saltare in aria tutto quanto. Ora ne siamo certi: in Valsesia, sulle Alpi piemontesi, la verticalità di un vulcano si è messa in orizzontale, per un caso unico al mondo. Un vulcano fossile, che 288 milioni di anni fa ha sparato nell’ atmosfera dai 300 ai 500 chilometri cubi di materiale terrestre, oscurando il cielo e probabilmente cambiando il clima della Terra. Qualcosa di simile alla caldera infernale dei Campi Flegrei, ancora attiva e inquieta: solo che qui puoi fare quello che lì è impossibile: entrarci dentro e capire. Toccare, misurare. Erano vent’ anni che un italiano e un americano ci lavoravano su con dedizione encomiabile. I loro nomi: Silvano Sinigoi, professore di petrografia all’ università di Trieste e James Quick prorettore della Methodist University di Dallas. Da soli o con i loro studenti hanno battuto quattrocento chilometri quadrati di montagne, ignorando i sentieri, arrampicandosi per scarpate impossibili, dormendo in malghe abbandonate, in tendina o all’ aperto, calandosi in corda doppia nei burroni o scendendo i corsi d’ acqua con canoe gonfiabili. Hanno raccolto infiniti campioni perché avevano capito di trovarsi davanti a qualcosa di unico sulla faccia della Terra. Tutte le rocce del vulcano avevano la stessa identica età. Erano il prodotto di un unico spaventoso evento. Pochi mesi fa la conferma, quando i campioni raccolti sono passati attraverso le macchine di datazione dell’ università di Stanford, Usa, e di Camberra in Australia. Il rapporto piombouranio dentroi cristalli di zirconio – esistono al mondo solo sei apparecchiature capace di misurarlo – hanno avvalorato in pieno quell’ intuizione di cui si era cercata testardamente conferma. Così oggi possiamo dire quello che fino a ieri non sospettavamo neppure: risalire la Valsesia significa compiere un viaggio al centro della Terra, come in un romanzo di Jules Verne. Trenta chilometri verso il buio e il fuoco, dove le rocce hanno raggiunto temperature e fluidità inimmaginabili da mente umana. Finora non si era riusciti a entrare in un cratere fossile per più di cinque chilometri. L’ acqua spumeggiante della Sesia che scende ripercorre quasi fedelmente la strada e la direzione di quella lava vecchia di circa trecento milioni di anni. Chi ne segue la corrente vede tutta la sezione del vulcano in modo esemplarmente chiaro. Esci dalle risaie del Novarese, risali in fiume verso Romagnano, e la valle si rinserra, perfora una barriera di vulcaniti e porfidi sbrecciati ricchissima di vegetazione: è l’ orlo della caldera, il mega-pentolone esploso nella notte dei tempi. Anche se la chimica e la geologia sono diverse, è un po’ come trovarsi sulla superficie della conca di Pozzuoli, fra l’ isola di Nìsida e Capo Misero. Con Sinigoi proseguiamo ancora verso Nord, ed eccoci nel profondo, nella breccia che le spinte sottostanti hanno riempito di roccia fusa. Lungo il fiume graniti pesanti, compatti, durissimi, color grigio cinerino. Sono questi che hanno riempito l’ esofago del gigante prima di farlo vomitare con violenza. Avanziamo ancora così, controcorrente, con lo studioso triestino che conosce il terreno metro su metro e ha battuto queste valli anche con competenza di alpinista. Ma ecco che la valle si avvita su se stessa, sembra quasi tornare indietro, ridiscende a Sud fino al paese di Scopello e ci porta nella pancia del vulcano, il luogo della digestione dei magmi. Ora siamo a contatto con rocce di una durezza pazzesca, dense come il piombo. Gabbri e basalti, pieni di minerali, lisciati in superficie dal tempo. E siamo a 25 chilometri e oltre di profondità. Ma non è finita. Tra Balmuccia e il rifugio Borgosesia sopra Scopello, un’ altra meraviglia, la Linea Insubrica, il punto di contatto fra lo zoccolo basale africano su cui abbiamo viaggiato finora, e la barriera eurasiatica che chiude la strada a nord-ovest in direzione del Monte Rosa. È qui che, cinquanta milioni di anni fa, causa lo scontro fra i due continenti, si sono formate le Alpi e il nostro vulcano spento si è coricato di fianco, miracolosamente integro, come un ricciolo di burro sotto la pressione di un coltello. Tutto intorno a noi svela pressioni spaventose. E dispiega con evidenza quasi scolastica la struttura intima della Terra. La notizia ha fatto subito il giro del mondo, dopo un primo annuncio sulla rivista internazionale “Geology”. «Quella che è certo è che in Valsesia si comincia a comprendere che la nostra visione dei vulcani era forse troppo schematica. Capirlo potrà comportare vantaggi non da poco nella comprensione dei fenomeni vulcanici in Paesi a rischio come l’ Italia».

Da “ associazione sesia valgrande geopark”.

Un caso unico al mondo. Nel cuore delle Alpi occidentali si trova il fossile di un supervulcano che mostra le sue parti più profonde. Circa 300 milioni di anni fa, quando sulla Terra esisteva un solo continente chiamato Pangea, un vulcano è esploso eruttando un’immensa quantità di materiale e sprigionando un’energia pari a 250 bombe atomiche. Tra 60 e 30 milioni di anni fa gli stessi processi che hanno formato le Alpi, hanno sollevato e ruotato la parte di crosta terrestre in cui si trovava il vulcano esploso, mettendone in evidenza il sistema di alimentazione, fino a circa 30 km di profondità: si tratta di un caso unico al mondo! L’area del Supervulcano fa parte del Sesia Val Grande Geopark riconosciuto dall’UNESCO il 5 settembre 2013 e diventato, nel novembre 2015, “UNESCO Global Geoparks”, il nuovo programma prioritario, al pari del Patrimonio mondiale dell’Umanità, delle Riserve della Biosfera e del patrimonio immateriale.

E’ possibile vederlo in un’area che comprende Valsesia e Valsessera, fino a lambire il lago Maggiore. Per promuoverne la peculiarità geologica, nel 2011 si è costituita l’Associazione geoturistica “Supervulcano Valsesia“, che nel 2017 ha cambiato il nome in “Sesia Val Grande Geopark”.

L’importante scoperta, tra  la Valsesia e la Valsessera, nelle Alpi Occidentali, è da attribuirsi a Silvano Sinigoi, professore di Petrografia all’Università di Trieste, e da James Quick, prorettore della Southern Methodist University di Dallas. Il prof. Sinigoi, allievo del geologo Giorgio Rivalenti, professore di Petrologia e Petrografia dell’Università di Modena (un pioniere nella comprensione della geologia della Valsesia), studia la geologia del territorio valsesiano dal lontano 1979 (continuando gli studi del prof. Rivalenti) e la collaborazione con il prof. James Quick risale agli anni ’80.Nel 2009, dopo la pubblicazione del primo studio completo sull’argomento sulla rivista scientifica internazionale “Geology”, la notizia ha fatto subito il giro del mondo, rimbalzando sulla stampa nazionale, in Internet e trasmessa in televisione.

Il 2 ottobre 2009 lo stesso prof. Sinigoi ha presentato i risultati della ricerca in una conferenza al teatro Pro Loco di Borgosesia. Si sapeva già da oltre un secolo che nella bassa Valsesia affioravano rocce vulcaniche, come da parecchio tempo si sapeva che nella zona di Balmuccia emergevano strati molto profondi della Terra (peridotiti di mantello) e che, complessivamente, le rocce che affiorano lungo la Valsesia tra Balmuccia e Gattinara costituiscono una sezione attraverso la crosta terrestre. La novità importante è  stata quella di dimostrare, grazie alle moderne tecniche geocronologiche, che le rocce magmatiche intruse in questa sezione crostale e le rocce vulcaniche affioranti tra Borgosesia e la pianura Padana appartenevano ad un unico sistema magmatico attivo tra 290 e 280 milioni di anni fa e ormai fossile. Circa 60 milioni di anni fa, in seguito all’apertura dell’oceano Atlantico e la conseguente deriva del continente Africano, la collisione tra Africa ed Europa ha portato alla formazione delle Alpi e, in corrispondenza della Valsesia, ha ripiegato di 90° la sezione crostale, mettendo in luce le parti più profonde del sistema di alimentazione del vulcano. Grazie a questo rovesciamento della crosta terrestre è possibile oggi osservare direttamente ciò che in origine si trovava a 25 chilometri di profondità.

Si tratta di una struttura geologica ormai fossile, che espone parti tra le più nascoste e profonde del sistema magmatico sottostante il vulcano, in genere inaccessibili. Ciò permetterà agli studiosi di tutto il mondo, geologi e vulcanologi, di capire cosa succede realmente sotto un vulcano attivo. Grazie all’evidenza delle strutture emerse lungo la Valsesia i ricercatori, avranno un modello completo per interpretare sia i profili geofisici che i processi magmatici che agiscono sotto le caldere attive, capire quali sono i processi fondamentali che influenzano le eruzioni, dove sono immagazzinate le enormi quantità di materiale lavico, e spiegare ancora meglio i collegamenti fra i movimenti delle placche tettoniche e le eruzioni vulcaniche.

Una storia complessa. Attorno a 290 milioni di anni fa c’è stata una generale anomalia termica che ha interessato buona parte dell’Europa, causando la fusione parziale del mantello a profondità di svariate decine di chilometri. Il magma basaltico prodotto dalla fusione dl mantello è risalito e si è intruso nella parte più profonda della crosta. Successive intrusioni di magma proveniente dal mantello hanno progressivamente causato la crescita di un grande complesso magmatico di composizione basica, intruso nella parte più profonda della sezione crostale della Valsesia, noto come Complesso Basico. Il magma basico interagiva con la crosta, incorporando ed assimilando successivamente livelli crostali sempre più alti. Contemporaneamente parte delle rocce della crosta  fondeva per il calore trasmesso dal magma basico, che stava raffreddando e iniziava a cristallizzare. Dalla parziale fusione della crosta ebbero origine fusi di composizione granitica, che migravano verso l’alto e che per circa 10 milioni di anni alimentarono l’accrescimento di plutoni nella porzione meno profonda della crosta (conosciuti come i Graniti dei Laghi) o furono effusi, determinando l’attività vulcanica. Dalla mescolanza dei magmi di origine mantellica con quelli derivati dalla fusione della crosta si sono formati magmi “ibridi”, dai quali sono cristallizzate le rocce che costituiscono la maggioranza del Complesso Basico. A loro volta, i fusi acidi derivanti dalla crosta che hanno alimentato i corpi granitici furono contaminati dal materiale proveniente dal mantello.
Tra 290 e  280 milioni di anni fa, nella zona più profonda della crosta, il magma basico raffreddava formando una specie di “granita” magmatica (mush cristallino), costituita in parte da cristalli e in parte da fuso interstiziale. Al di sopra del Complesso Basico il materiale crostale stava in parte ancora fondendo, mentre più in alto anche i plutoni acidi raffreddavano originando un mush cristallino. Contemporaneamente in superficie aveva luogo l’attività effusiva. Poco tempo dopo, attorno a 280 milioni di anni fa, ebbero luogo una violentissima eruzione accompagnata dal collasso del sistema, con la formazione di una caldera di almeno 13 km di diametro. Nel giro di pochissimo tempo – pochi giorni – il tetto della camera magmatica crollò e vennero emesse centinaia di chilometri cubi di materiale piroclastico: uno dei più violenti eventi geologici conosciuti. L’intrusione di materiale del mantello che portò alla formazione del Complesso Basico fu dunque il “motore termico” che determinò la formazione su larga scala di magmi acidi, per fusione parziale della crosta. Furono questi ultimi a  originare plutoni e una cospicua attività vulcanica, fino alla super-eruzione finale.

Alesben B.


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