Maura Maffei, savonese trapiantata a Casale Monferrato, erborista, soprano lirico, già presidente diocesano di Azione Cattolica, profonda conoscitrice della storia irlandese, autrice di una ventina di volumi storici e di centinaia di articoli, vulcanica promotrice della conoscenza di vicende storiche antiche e recenti taciute dalla massificazione culturale imperante. Ha meritato molti premi prestigiosi, è invitata a parlare in molteplici località.
di Gian Luigi Bruzzone
L’infanzia, a Savona, in corso Colombo vista mare, i primi libri acquistati dal padre Angelo in via Pia, la nuova casa a Luceto tra ulivi, caprette, conigli e galline. Il Classico ad Asti dai Padri Oblati con padre Mario Zani indimenticabile insegnante di greco; gli studi di canto lirico con il basso De Bortoli; la passione per l’erboristeria sulle orme di mamma Elda. Il ricordo delle visite al Santuario della Misericordia con il papà affascinato dai modellini delle navi ex voto che pendevano dal soffitto. Casalinga a tempo pieno (“facendo lo scrittore in Italia non si campa”) e prolifica scrittrice di successo. I libri come indagine e denuncia dei drammi delle deportazioni e dell’emigrazione.
Cara Signora Maura, ci parli un poco della sua famiglia, se non le dispiace.
Mio papà Angelo ripeteva sempre: «Noi non siamo savonesi, ma fornacini!» Per lui era motivo di orgoglio essere del quartiere delle Fornaci, nato in una famiglia originaria di Noli. Era stato il suo bisnonno a lasciare Noli e a trasferirsi a Savona, dove suo nonno aveva aperto una tipografia. Suo padre Antonio aveva portato avanti quest’attività, insieme con la moglie Elsa. Mio papà era il loro unico figlio e, al contrario, scelse di studiare per diventare avvocato. Io sono nata alla Clinica Rossello nel gennaio del 1969. Sono nata in anticipo, di otto mesi. Quindi non era previsto che io venissi alla luce proprio nel giorno di san Francesco di Sales, patrono di scrittori e giornalisti. Sono stata battezzata ancora in clinica, nella festa di santa Brigida, patrona dei poeti e compatrona d’Irlanda insieme con san Patrizio. Con queste premesse, non avrei potuto fare altro nella mia vita, se non la scrittrice di romanzi storici d’ambientazione irlandese.
Corso Colombo, Costa de’ Siri, Piazza della Rovere: quali ricordi le suscitano…
Ho trascorso la mia infanzia, con mamma Elda, monferrina, e papà Angelo in un appartamento di corso Colombo. Dal quarto piano, si vedeva il mare, inondato di sole o plumbeo come le nubi, e sulla sinistra, si scorgeva anche la fortezza del Priamar. Scendevo ogni giorno nei giardini del Prolungamento, a giocare con Federico o con Luca. Davanti a casa nostra si alternavano spesso i tendoni colorati del circo, attorniati dai carrozzoni degli artisti e degli animali. Mia mamma mi portava a vedere gli spettacoli: mi piacevano le evoluzioni dei trapezisti, ma mi annoiavo quando c’erano i pagliacci. Non mi hanno mai fatto ridere.
Ricordo che andavo sovente a trovare papà nel suo studio in piazza Della Rovere, vicino a quello che allora era il tribunale. Lui poi mi portava in via Pia, a scegliere un libro nella libreria, per me misteriosa e piena d’incanto. Non ho mai ricevuto giocattoli in dono da mio papà, ma solo libri: anche questo ha contribuito a farmi sognare sulle pagine e a far nascere in me la voglia di scrivere.
Quando avevo quattro anni, i miei acquistarono un podere sulle alture di Albisola Superiore, alla Costa dei Siri. Il piano regolatore permetteva di costruire una casa molto piccola, poco più di una costruzione agricola. A loro piaceva molto quella vita un po’ zingara, con il camino accesso, la luce delle candele – perché non era neppure stato fatto l’allacciamento alla linea elettrica – gli olivi distribuiti sulle cinque fasce e gli animali: pecore, caprette, galline, conigli e, naturalmente, cani e gatti. A me piaceva molto meno, forse perché mi faceva sentire diversa dai miei amici: non guardavo mai la televisione, non comprendevo chi erano i loro eroi e la mia unica distrazione, la sera, era il romanzo di Salgari che mi leggeva la mamma. E poi era una festa quando, per fare le compere, passando per l’Uliveto, si scendeva a Celle. C’erano le giostrine, ai Piani, davanti alla galleria del treno e c’era ancora il muro della ferrovia, che impediva di guardare il mare…
E i suoi studi? Da qualche insegnante certo avrà appreso anche una lezione di vita.
Ho iniziato la scuola elementare a Luceto, frazione di Albisola Superiore, e ricordo quegli anni con tanta nostalgia: in classe eravamo solo una dozzina di alunni e ci volevamo tutti un gran bene. Sono ancora amica di Giovanna, a distanza di più di quarant’anni. Avevamo un maestro originario di Casale Monferrato: Fiorenzo Borasio e sembrava balzato fuori dal libro Cuore… È finito tutto troppo presto: i miei genitori si separarono e io fui sradicata dalla mia Liguria, per seguire la mamma in Monferrato. Ho concluso la scuola elementare a Montemagno, dove ho frequentato anche la scuola media: vivevamo con la mia nonna materna, cui ero molto affezionata, ma mi sentivo un pesce fuor d’acqua, perché la mia vita era completamente cambiata per ambiente e per un’indicibile sofferenza.
Ho frequentato ad Asti il Liceo Classico “S. Giuseppe Marello” retto dai Padri Oblati di S. Giuseppe, da lui fondati, e quel periodo per me è stato davvero formativo dal punto di vista umano e culturale. Padre Mario Zani, mio professore di greco nel triennio, con i suoi approfondimenti sul teatro, ha avuto un’influenza preziosa e determinante sulla mia formazione letteraria. Ho anche studiato canto lirico, sempre ad Asti, con il celebre basso Cardo De Bortoli e poi ho seguito le orme della mamma erborista iscrivendomi al Corso di Erboristeria della Facoltà di Farmacia dell’Università di Urbino: ho avuto come rettore il poeta Carlo Bo.
Il Santuario della Misericordia Savona e S. Giuseppe Marello…
Il ricordo infantile del Santuario, tanto caro al mio papà, è legato ai modellini delle navi che, quali ex voto, pendono dal soffitto e che, ogni volta, destavano in me grande meraviglia. Il Santuario della Misericordia è per me un luogo del cuore, scrigno d’arte e di fede, in cui torno sempre assai volentieri, anche perché legato a S. Giuseppe Marello, Santo a me carissimo, Santo della mia formazione liceale, che proprio al Santuario maturò la sua vocazione.
Com’è sbocciata la sua passione per la storia irlandese?
Contavo dodici anni quando Bobby Sand, il 5 maggio 1981, morì in carcere in seguito a quasi settanta giorni di sciopero della fame. Ogni sera davano notizie della sua agonia al telegiornale e io ne ero sconvolta, perché nulla sembrava poter evitare la sua fine. Negli ultimi giorni, il suo unico nutrimento fu l’Eucaristia quotidiana. Ho così iniziato a studiare la storia irlandese, per capire le motivazioni del conflitto in Irlanda del Nord. E ne sono rimasta affascinata, perché è la storia di un popolo che ha subito otto secoli di dominazione straniera e che, dopo ogni batosta, ha sempre rialzato la fronte, non si è mai dato per vinto, sino a raggiungere l’indipendenza nel 1922, cent’anni fa.
Dovendo presentare in sintesi le figure dei due massimi santi irlandesi, che direbbe?
San Patrizio per me è il Santo del sorriso. Lui, britanno, rapito dai pirati irlandesi e costretto alla schiavitù, a pascolare per otto anni le pecore, quando tornò in Irlanda da vescovo ebbe il coraggio di convertire con l’esempio della gioia. Era solito ripetere: «Mostriamo alla gente come noi cristiani siamo felici. E tutti vorranno imitarci!» Grazie alla sua lungimirante predicazione, alla sua capacità di conciliare ciò che di buono nella cultura irlandese preesistente con il rivoluzionario messaggio del Vangelo, ottenne in breve tempo la conversione in massa del popolo irlandese, senza che ci fossero martiri. L’Irlanda è l’unica Nazione europea che, all’epoca, non ebbe martiri. Ci avrebbero pensato a procurarglieli gli inglesi, qualche secolo dopo… Quanto alla compatrona santa Brigida, la testimonianza storiche su di lei sono piuttosto frammentarie. Come donna, ebbe il coraggio di tenere testa agli uomini del suo tempo, a iniziare dal proprio padre, che osteggiò la sua conversione al cristianesimo e la successiva vocazione, in una concezione del ruolo femminile assolutamente moderna.
Giorno dopo giorno, ogni ora disponibile è dedicata alla scrittura: come mai?
Dato che il lavoro dello scrittore in Italia non permette di vivere, ufficialmente sono casalinga e ringrazio mio marito Paolo perché mi mantiene e mi permette di vivere il mio sogno. Del resto si vive una volta sola, e io non potrei fare a meno di scrivere. Il lavoro in casa mi impegna molto, perché svolgo io tutte le mansioni domestiche. Per scrivere non ho mai più di due o tre ore al giorno e le devo far rendere al massimo; non posso permettermi il cosiddetto blocco dello scrittore. Così, mentre, stiro, mentre passo l’aspirapolvere o mentre lavo i piatti, penso già a come costruire una scena o a come condurre un dialogo, per poi procedere svelta, quando finalmente riesco a sedermi davanti al computer.
Per un’autrice prolifica come Lei non pretendo di presentarmi tutti i suoi romanzi, ma quelli ritenuti più significativi.
Posso accennare qualcosa riguardo agli ultimi cinque, tutti pubblicati dalla casa editrice piacentina Parallelo45 Edizioni. Ho narrato in “Dietro la tenda”, saga familiare scritta a quattro mani con l’autore dublinese Rónán Ú. Ó Lorcáin, l’epoca terribile delle Leggi Penali in Irlanda. Siamo nel Settecento e queste leggi britanniche imposte agli irlandesi tolsero loro tutti i diritti: la libertà di praticare la religione cattolica, quella di lavorare, di possedere beni di fortuna e persino di sposare la persona amata! Ne “La Sinfonia del Vento” ho raccontato invece, grazie al destino incrociato di due musicisti, la Rivolta di Pasqua del 1916 a Dublino e il dopoguerra successivo alla Prima Guerra Mondiale in Liguria. Ho ritratto in “Primavera d’Irlanda” S. Patrizio e la grande attualità del suo messaggio. Infine ho dedicato due romanzi indipendenti e autoconclusivi, “Quel che abisso tace” e “Quel che onda divide”, all’affondamento dell’Arandora Star. Si tratta di un dramma scomodo e insabbiato della Seconda Guerra Mondiale e, purtroppo, è un dramma dell’emigrazione italiana in Gran Bretagna: quando Mussolini dichiarò guerra al Regno Unito, i primi a subirne le conseguenze, ad essere arrestati e internati furono proprio i nostri connazionali che vivevano là.
Qual è il messaggio comune a tutti i romanzi suoi?
Sicuramente la speranza. Nei miei romanzi c’è sempre un raggio di sole in fondo al tunnel e c’è il bene che vince sul male. C’è l’opportunità di fare qualcosa di buono per gli altri che diventa occasione di riscatto per sé medesimi. Ci sono vite ferite che si aggrappano a ciò che le trascende con fatica e con crescente, luminosa e abbagliante fiducia. Mi piace paragonare i personaggi che creo all’Araba Fenice, che risorge sempre dalle proprie ceneri.
Di sicuro concorda con la icastica espressione manzoniana: «Il vero per soggetto, l’utile per iscopo, l’interessante per mezzo»! peccato che non componga saggi storici: Lei possiede la stoffa dello storico.
Purtroppo il romanzo storico è vittima di diversi pregiudizi, anche per colpa di tanti romanzi storici di cassetta, anche pubblicati da grandi case editrici, che sono pessimi, infarciti di scene truculente, di violenza e di sesso. D’altra parte, c’è chi considera il romanzo storico un ripiego, rispetto al saggio storico. In realtà non si possono paragonare in alcun modo i due generi, perché il saggio è un testo argomentativo e il romanzo è un testo narrativo. Hanno funzioni e finalità diverse. Il saggio storico ricostruisce i fatti in maniera oggettiva, analizzandoli in tutte le loro sfaccettature e parla alla mente del lettore. Il romanzo storico, al contrario, parla al cuore del lettore e prova a trasportarlo in un’epoca lontana, condividendo con lui i pensieri e le emozioni dei personaggi realmente esistiti che vissero gli eventi narrati o di figure inventante ma perfettamente calate nel contesto. Secondo me, il romanziere storico deve fare le stesse ricerche approfondite del saggista, ma poi deve anche avere il coraggio di filtrare le sue conoscenze attraverso il vissuto dei protagonisti, attraverso la vicenda narrata, che deve appassionare e deve emozionare, senza mai imporre la propria erudizione in pagine noiose e didascaliche. Non deve redigere una cronaca ma creare un affresco che funzioni come una macchina del tempo, immergendo il lettore nei fatti narrati. Un buon romanzo storico per me è come la maglia jacquard: i disegni geometrici a più colori devono essere composti da punti perfetti e solo sul retro, invisibili se non a chi li ha realizzati, ci devono essere i fili che corrono e il grande, faticoso lavoro d’intreccio. Detto questo, non potrei mai scrivere un saggio: non fa per me, che voglio sempre e comunque narrare la speranza!
Mi ha accennato ai 29 cimiteri di italiani in Irlanda…
Si tratta dei cimiteri irlandesi che ospitano le salme delle vittime dell’Arandora Star. La tragedia avvenne il 2 luglio 1940. Questo transatlantico, considerato la più bella nave da crociera della Marina britannica negli anni Trenta del secolo scorso, venne affondato dal sottomarino tedesco U47 di Günther Prien alle ore 6:58, a 75 miglia nord ovest da Cnoc Fola, sulla costa irlandese del Donegal. Era una nave di internati ma non fu segnalata, scortata e protetta come tale. Quindi, anche se Prien la scambiò per un trasporto di truppe o armi e la colpì, in virtù della Convenzione di Ginevra che durante la Seconda Guerra Mondiale equiparava le navi di internati alle navi ospedale, è un crimine di guerra britannico, perché non fu apposto il contrassegno della Croce Rossa sui fumaioli e sul ponte né fu predisposta la necessaria scorta di due incrociatori. Morirono 805 persone, di cui 446 erano italiani. Erano caffettieri, ristoratori, gelatai, gestori di fish and chips, camerieri, imprenditori, direttori d’albergo… Morirono da innocenti e da eroi, dato che ci furono atti di grande abnegazione, mentre la nave affondava, ma non sono ricordati sui libri di storia perché citare il loro sacrificio significa accusare la Gran Bretagna. Le loro salme, ormai irriconoscibili per lo scempio che ne fecero le onde, i pesci e i gabbiani, giunsero un mese dopo su mille chilometri di costa, che comprende le quattro contee più settentrionali dell’Irlanda, le isole Ebridi e la Scozia (nella zona di Glasgow). Solo 17 furono identificate, ma le popolazioni locali seppellirono a loro spese, togliendosi il pane di bocca perché erano comunità molto povere, tutti coloro che riuscirono a recuperare dal mare. Nei cimiteri irlandesi ci sono lapidi dalle scritte curiose: “Un italiano che Dio conosce”, “Un italiano amato da Dio”. Fu un gesto di grande pietas, proprio nel senso latino del termine, in mezzo al conflitto devastante che incendiava l’Europa.
E all’emigrazione italiana in Gran Bretagna…
L’Arandora Star è una tragedia tra le più terribili della nostra emigrazione. E per questo è davvero triste che non venga citata sui libri che studiano a scuola i nostri ragazzi, perché a livello cronologico rappresenta il primo eccidio di italiani civili della Seconda Guerra Mondiale. Questi italiani non avevano colpa alcuna se non di vivere e lavorare nel Regno Unito nel momento sbagliato. Quando Mussolini, il 10 giugno 1940, dichiarò guerra ai britannici, ci andarono di mezzo i nostri connazionali, che all’epoca erano più di 18000. Le loro attività furono assaltate e devastate e, nella notte tra il 10 e l’11 giugno, Churchill diede un ordine spietato, di sole tre parole: «Collar the lot!» È una frase di difficile traduzione che significa all’incirca “prendeteli tutti quanti per la collottola”. Così, nei quindici giorni successivi, casa per casa, furono rastrellati come criminali quasi 10000 italiani maschi, tra i 16 e i 75 anni, e condotti in campi d’internamento. I meno fortunati, come i 712 sventurati caricati sull’Arandora Star, furono destinati al Canada o all’Australia. Anche questo non sarebbe stato permesso, secondo la Convenzione di Ginevra del 1929, perché gli internati civili non devono essere mai esposti in scenari di guerra, com’era a tutti gli effetti l’Oceano Atlantico, infestato di sottomarini tedeschi.
Ha fatto conoscere le tragiche vicende della nave Arandora Star…
Ho scritto due romanzi storici che affrontano da due diversi punti di vista i fatti che riguardano l’Arandora Star. Non sono uno il sequel dell’altro, ma ho voluto creare una sorta di dittico, capace di indagare nella maniera più approfondita che cosa davvero avvenne. “Quel che abisso tace”, uscito nel 2019 e primo classificato nella Sezione Romanzo Storico al Premio Letterario Rotary Bormio Contea di quell’anno, narra la sorte delle vittime e la grande generosità del popolo irlandese. Invece, “Quel che onda divide” segue nella loro odissea i circa duecento sopravvissuti, che senza poter riabbracciare le loro famiglie in pena, furono dopo pochi giorni caricati su un’altra nave, la Dunera, e condotti attraverso un viaggio infernale di quasi due mesi, in Australia. In questo secondo romanzo, dedico ampio spazio anche alle donne, che avevano mariti, padri e figli sull’Arandora Star: a differenza dei loro uomini, non furono arrestate, ma pagarono un prezzo altrettanto alto di lutto e di dolore infinito.
Considero entrambi i romanzi i più importanti in assoluto della mia carriera di scrittrice perché io sono parente di una delle vittime: il cugino germano di mia nonna materna Teresina, cugino carissimo, a cui lei voleva tanto bene, si chiamava Cesare Vairo ed era il direttore del Piccadilly Hotel di Londra, sino al 10 giugno 1940. Non ebbe figli dall’adorata moglie Lola e nessuno ne ha mai difeso la memoria, Toccava a me, come parente più prossima, dopo la morte di mia mamma e di mia zia Maria, e come narratrice preservarne il ricordo e restituirgli la giusta dignità che una fine iniqua e ignobile gli ha sottratto. I miei romanzi sono stati scritti nel nome di Cesare e di tutti gli altri.
Di specifico le domando un ragguaglio sul suo libro La lunga strada per Genova.
Non si tratta di romanzo ma del diario di guerra del capitano genovese Pietro Apostolo, che va dall’8 settembre 1943 al 26 aprile 1945. Ne sono stata la curatrice, quando Marna decise di pubblicarlo nel 2007: meriterebbe di essere riproposto perché Pietro Apostolo fu l’ufficiale di collegamento tra i Governi Badoglio e Bonomi e i massimi vertici delle forze alleate che risalivano l’Italia (generale Taylor e ammiraglio Stone). La sua è una testimonianza esclusiva, da un punto d’osservazione privilegiato, su aspetti poco conosciuti della cobelligeranza italiana con gli Alleati, come la loro calcolata lentezza nel liberare l’Italia, perché stavano preparando lo sbarco in Normandia, o gli interessi di parte dei politici italiani.
La sinfonia del vento ci riguarda più da vicino, non è vero?
Per me è il romanzo delle meraviglie. Vincitore del primo premio assoluto al 56° Concorso Letterario Internazionale “San Domenichino – Città di Massa” (Sezione Inediti), è da oltre cinque anni il mio libro più letto e più amato ed è uno dei titoli più ristampati e venduti del catalogo di Parallelo45 Edizioni. È un omaggio alla mia Liguria, perché, sebbene ci sia una parte centrale che narra le rivolte d’indipendenza a Dublino, comincia e finisce a Genova ed è ambientato per la maggior parte in un borgo del savonese che io ricostruisco com’era nel 1919, citando vie, chiese, località, ma non ne svelo mai il nome se non in una postilla finale. Questo perché mi piacerebbe che il lettore provasse a indovinarlo e, magari, dopo la lettura del libro, avesse anche voglia di visitarlo.
Alla storia ed alla narrativa Lei unisce la musica!
Oltre a Ciarán, il protagonista irlandese de “La Sinfonia del Vento”, direttore d’orchestra di fama internazionale, in tutti i miei romanzi i personaggi suonano e cantano. Del resto, la musica è un elemento caratterizzante la cultura irlandese. In “Dietro la tenda”, ad esempio, Labhaoise, la protagonista femminile, suona l’arpa, mentre Bran, uno dei personaggi maschili più importanti, suona la cornamusa, quale metafora di un antico proverbio irlandese, secondo cui, nel giorno del Giudizio Universale, i beati suoneranno l’arpa e i dannati la cornamusa…
Incontri memorabili…
Ne voglio citare uno solo, il più importante fra tutti. Il 23 luglio 2006 – tra l’altro era il mio 12° anniversario di nozze con Paolo – in occasione della santa Messa nel suo ritiro estivo in Valle d’Aosta, ho incontrato di persona papa Benedetto XVI. I suoi scritti sono stati e sono tuttora fondamentali nel mio cammino di conversione.
La mia Casale Monferrato…
Vivo a Casale da 23 anni e alla mia città ho dedicato un romanzo che ha anche riscosso molto successo. Purtroppo non collaboro più da alcuni anni con la casa editrice che lo pubblicò ma spero che prima o poi la mia attuale casa editrice accetti di fare una riedizione di “Anna che custodì il giovane mago”. La vicenda si svolge nell’inverno tra il 1540 e il 1541, quando la marchesa del Monferrato Anna d’Alençon-Valois ospitò alla sua corte il quindicenne irlandese Gerald FitzGerald, undicesimo conte di Kildare, perseguitato dai sicari di Enrico VIII Tudor. Questo romanzo mi ha permesso di dipingere in modo il più possibile rigoroso un affresco rinascimentale di Casale e del Santuario diocesano di Crea. E ho cercato di far emergere la complessa e affascinante personalità della protagonista, Anna d’Alençon, che fu una donna straordinaria e che reagì ai tanti dolori della sua vita con una fede granitica.
Che cos’è la felicità?
È la certezza che Qualcuno mi ama da sempre e per sempre d’amore infinito e che, nonostante la mia miseria, le mie fragilità e le mie cadute lungo il cammino, continua a tendermi la mano, continua ad abbracciarmi in un segno di croce.
Sto lavorando al romanzo che, a Dio piacendo, uscirà nel 2023, in occasione dei miei trent’anni di carriera. Ambientato a Parigi e in Bretagna tra il 1789 e il 1794, mi permette di trattare diversi argomenti che mi stanno a cuore: la Brigata Irlandese, che servì i re di Francia per cent’anni, la condanna senza attenuanti della Rivoluzione Francese e dei suoi eccessi, il movimento controrivoluzionario bretone della Chouannerie e, in filigrana, anche le conseguenze della mancata consacrazione della Francia al Sacro Cuore di Gesù, chiesta da S. Margherita Maria Alacoque e rifiutata dal Re Sole.
Domani…
Sta scritto: “A ciascun giorno basta la sua pena”. Io spero di poter continuare a scrivere, benché sia così difficile e faticoso, ma mi rimetto totalmente nelle mani del Signore: sia fatta la Sua volontà.
Grazie, cara Signora Maura per aver accolto le mie domande. Le auguro giorni ricolmi di ore sempre serene per Lei e per i Suoi Cari.
Gian Luigi Bruzzone