Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Intervista/Federico Boggiano da portiere di pallanuoto a difensore della natura, commerciante e scrittore. ‘La mia Arenzano? C’è chi l’ha rovinata, per i soldi si vendevano l’anima’


Federico Boggiano, appartenente a famiglia assai nota in Arenzano, discendente di imprenditori coraggiosi, già membro della Guardia Forestale, sportivo appassionato ed attivo, cura gli esercizi commerciali di sua proprietà ed obbedisce ad una sincera e variegata vocazione scrittoria. 

di Gian Luigi Bruzzone

Ci parli della sua famiglia, se non le dispiace. I suoi nonni impiantarono manifatture in Uruguay e in India, attivando una rete mercantile con l’Italia.

Federico Boggiano

Riguardo alla mia famiglia, i miei bisnonni iniziarono un’attività artigianale di maglieria e di calzificio in Arenzano nel 1880. Due figli della mia bisnonna emigrarono uno in India, a Bombay, ed uno in Uruguay, a Montevideo, ed aprirono diversi negozi per vendere i prodotti ricevuti dalla madre. L’attività commerciale non si limitava alla vendita delle maglie e delle calze, ma riguardava altri prodotti inviati dall’Italia a seconda delle richieste. Si trattava di materiali diversi, anche commestibili. Nel contempo dall’Uruguay e dall’India, sempre tramite i piroscafi, venivano inviati i materiali che servivano alla mia bisnonna che aveva il negozio proprio nella casa in cui attualmente abito in Arenzano.

Come nacque questa idea imprenditoriale? Il viaggio stesso non era una bazzecola: se per raggiungere le coste uruguayane soffiano gli alisei, per toccare le coste indiane occorreva circumnavigare l’Africa.

So che nacque nel 1880, ho reperito in casa i biglietti da visita della ditta. Sul pavimento di casa mia è impressa una scritta datata 1878, cioè due anni prima della fondazione della ditta, che recita: “GENUENSIS ERGO MERCATOR, VOLENTI NIL DIFFICILE”, cioè: “per i genovesi mercanti ed imprenditori, con la volontà nulla è difficile”. Per questo ho concepito l’idea che il motivo dell’inizio dell’attività imprenditoriale e commerciale della mia famiglia sia dovuto al carattere soprattutto della mia bisnonna, di cui conservo una fotografia che evidenzia un fiero cipiglio. Ho trovato in casa, a rafforzare la mia idea, le copie delle lettere inviate da mia bisnonna Rosalia al figlio Vincenzo, emigrato in Uruguay. In queste lettere la madre si mostra dolce, ma allo stesso tempo severa, non fa nessuno sconto al figlio per quanto riguarda il commercio. Occupa diverse lettere la questione di una partita di aglio spedita da Genova e andata a male per la scarsa cura, a detta di Rosalia, che Vincenzo aveva dedicato alla merce, lasciando che fosse stipata vicino ai motori che emanavano calore. Dell’altro figlio, Claudio, ho trovato un album di fotografie dell’India, non scattate da lui ma acquistate da un fotografo, oltre a due foto in cui lui stesso è ritratto assieme ad altre persone sotto un grande albero. Ho ancora in casa due suoi caschi coloniali ed il baule in legno con la targhetta sulla quale è impresso il mio cognome. Non ho però trovato tracce di corrispondenza dall’India.

I ricordi più cari dei suoi nonni.

Rosalia Boggiano

Dei miei nonni ne ho conosciuti tre, mio nonno paterno, Pio, è morto un anno prima della mia nascita. Mia nonna paterna, Ida, è morta quando io avevo sette anni ed ho alcuni ricordi molto vivi di lei, venuta a mancare a 83 anni nel 1964, io avevo sette anni. Rammento i suoi capelli candidi, la sua voce con cui si lamentava, il fatto che si dimostrasse più vecchia di quanto generalmente si mostrano gli ottantenni di oggi. FFicordo che gustava le pasticche del Re Sole, si muoveva tra le stanze di casa ed il giardino e non usciva mai. I miei nonni materni li ricordo di più, sono vissuti fino a novant’anni e sono mancati nei primi anni ottanta. Mia nonna Maria cucinava benissimo e mi invitava tutte le domeniche. Si erano trasferiti ad Arenzano da Strevi, in Piemonte, nel 1964, quando mio nonno Verdiano aveva cessato la sua attività di meccanico in un’autofficina di sua proprietà. Con mio nonno giocavo tutti i giorni a cirula e facevamo assieme la schedina del totocalcio quando una colonna costava cinquanta lire e tutte le partite si giocavano la domenica. Della sua attività di meccanico ricordava un episodio antico, quando si occupava di biciclette. Ne aveva vendute un certo numero a Girardengo che aveva una squadra di professionisti e ancora adesso deve ricevere i soldi del pagamento. Ricordo quando ha deciso di non guidare più: facendo marcia indietro stava per sbattere contro un palo che non aveva visto. È sceso dall’auto ed ha strappato la patente. Fino quasi alla fine è venuto in barca con me a pescare con i tremagli. Poi si è spento in pochi giorni, senza un lamento. 

E i suoi studi? Qualche insegnante avrà lasciato un’impronta nella sua vita.

Non sono laureato, ho solo il diploma del liceo classico. Ho iniziato a studiare medicina, ma l’ho fatto solo per due anni, poi ho deciso di andare militare. Non riuscivo proprio a studiare, mi distraevo continuamente. Credo anche di aver sbagliato nella scelta della Facoltà, avrei dovuto studiare letteratura o arte, cosa che poi ho fatto per mio conto. Insegnanti ne ricordo molti, sia nell’ambito della scuola che in quello dello sport. Il primo da ricordare è il maestro delle elementari, Umberto Scarzella, morto centenario pochi anni fa. Ai miei tempi certi maestri usavano ancora dare degli schiaffetti e forse anche schiaffoni. Lui no, ma io ricordo di aver preso un buffetto sul collo per aver disegnato il latte color marrone dentro una bottiglia che portava la mamma. Io avevo pensato al caffelatte… Il mio maestro era un insegnante molto paziente che si faceva rispettare senza alzare la voce ed era molto propositivo nel fare lavori manuali che stimolavano la fantasia degli alunni (e delle mamme).

Io ero diventato un grande ritagliatore e incollatore, oltre che artista in erba (come lo ero di nascita ed anche prima della scuola). All’asilo non ho mai voluto andare, mi rattristavano le suore nelle loro vesti scure. Invece per andare a scuola non ho fatto una piega mentre ricordo grandi piagnistei di miei compagni al momento di entrare in classe per la prima volta. Ricordo alcuni insegnanti delle medie, in particolare il Professor Calcagno, morto anche lui pochi anni fa. Era molto galante con le professoresse, quello che si dice un gentiluomo (o gentleman, visto che insegnava inglese). Al liceo ne ricordo alcuni in senso negativo, perché cominciavo a farmi un’idea politica ed il liceo classico era infestato di fascisti. Con quelli non andavo d’accordo. Mi ero invece preso una mezza cotta per la Professoressa di greco e latino degli ultimi due anni. È morta, anche lei, in giovane età. In campo sportivo ho avuto un grande allenatore di calcio, Angelo Guarnieri, a cui ho dedicato anche una poesia. Giocava con noi, non era alto, ma saltava altissimo di testa, ci insegnava con l’esempio e con la passione. Quella squadretta era stata fondata da Don Ideo Iori, il curato della parrocchia di Arenzano, divenuto protagonista del mio libro Addio, calottina. Anche lui può essere annoverato tra i miei insegnanti, più che di religione, di vita.

Claudio Mistrangelo

Nella pallanuoto ho avuto diversi bravi allenatori, ricordo Ercole Sanson, morto da pochi giorni, che mi ha insegnato molti esercizi utili al mio ruolo di portiere, anche se lui aveva giocato sempre da attaccante. Con Gianni Lastrico, che invece aveva giocato in porta, ho avuto un rapporto molto intenso, non sempre facile, ma, alla resa dei conti, bellissimo. L’insegnante che in assoluto ha inciso di più nella mia vita è stato però Claudio Mistrangelo, con cui ho lavorato a Savona per tre anni. Lui faceva l’insegnante anche come prima professione. Poi è diventato allenatore e direttore sportivo di professione, abbandonando la scuola. Ha creato dal vivaio una grande squadra che ha militato e tuttora milita da diversi decenni tra le migliori squadre delle serie A. Ha vinto tre scudetti, disputato diverse altre finali oltre a due finali di Coppa dei Campioni.  Persona di grande cultura, il rapporto con lui mi è rimasto persino nei sogni, per diversi anni, mi è capitato di incontrarlo. La sua idea di sport coincideva con la mia: il bello è costruire una squadra, non comprare i vari pezzi e costruirla con i soldi.

Arenzano di ieri e quella di oggi. 

Riguardo all’Arenzano di ieri, posso parlare di quando si è cominciato a rovinare Arenzano, demolendo villette bellissime e costruendo al loro posto giganteschi palazzi. Un esempio è il palazzo delle Poste, sorto proprio davanti a casa mia. Ricordo che avevo appena imparato a scrivere, era il 1963, quando si è allestito il cantiere per i lavori. Sulle palizzate del cantiere ho scritto “Abbasso Meun”, nomignolo dell’imprenditore che eseguiva la maggior parte dei lavori ad Arenzano. Ripensandoci adesso, credo che la colpa non fosse sua, ma dei politici che permettevano certi scempi e ancor più dei cittadini stessi, che per soldi svendevano persino la loro anima, cioè il bello del paese. I terreni coltivati, inoltre, non venivano nemmeno più considerati, alla luce di quello che poteva rendere un terreno edificabile. Il lavoro della terra non lo voleva più fare nessuno, tutti cercavano posti da impiegati o da operai. Quando ero bambino le case sorgevano come funghi, ad Arenzano come in tutta la Liguria. Ricordo poi come in un sogno le spiagge ancora occupate dai cantieri navali e dai pescatori. Poi sono arrivati i Bagni e quei rudi pescatori o maestri d’ascia o calafati si sono trasformati, con più o meno sforzo, in operatori turistici al servizio dei milanesi. Oggi Arenzano è rimasto il primo paese dove si possono fare i bagni vicino a Genova. Un po’ di verde si è salvato, anche grazie ai parchi della Marchesa e di Figoli, quindi grazie ai nobili. Ci si vive abbastanza bene anche se mancano tutte le proposte della città, ma con il treno si fa presto ad andarci.

Gli anni della forestale.

Sono entrato nel Corpo Forestale dello Stato quasi trentenne, prima avevo lavorato come bagnino, come istruttore di nuoto e, per cinque anni, come impiegato in un terminal di container in località Erzelli, sopra il casello autostradale dell’aereoporto.  Ho lavorato per i primi dieci anni a Zuccarello, vicino ad Albenga, e per altri venti a Savona, in ufficio. Il periodo di cui conservo i ricordi più vivi è quello svolto presso il Comando Stazione di Zuccarello. La prima occupazione era quella di spegnere incendi di bosco, che scoppiavano frequentemente, sia in inverno che in estate. Si spegnevano, soprattutto all’inizio, con la tecnica del controfuoco: si puliva un sentiero oppure si sceglieva una strada, se c’era, e da lì si appiccava l’incendio che andava a congiungersi a quello già in atto, bruciando tutta la superficie che si trovava tra i due fuochi. Qualche volta sono successi episodi tragicomici: è capitato che tra i due fuochi ci si trovasse qualche volontario dell’antincendio. Oppure è capitato che il controfuoco venisse spento da uno dei rari Canadair che si trovavano a operare in zona. Comunque gli incendi si spegnevano in gran parte a mano, tracciando sentieri tagliafuoco o con i flabelli, una sorta di scope costruite con le camere d’aria delle gomme, che si sbattevano direttamente sul fuoco. Anche i militari partecipavano spesso alle operazioni, con scarsi risultati, perché non avevano esperienza. Due volte mi è capitato di rischiare la vita sugli incendi, una volta sono rimasto in mezzo al fumo e sono uscito grazie alle voci dei compagni che mi hanno guidato fuori; un’altra volta sono finito di notte sull’orlo di un precipizio. Del resto, nel periodo in cui ho lavorato in Forestale, soltanto in Liguria, quattro miei colleghi sono morti sugli incendi.

Il ricordo più bello, invece, è stato il salvataggio e la liberazione di una poiana, un uccello rapace diurno, che si era infilato sotto una rete metallica per la protezione dalla caduta dei massi in comune di Erli. I suoi voli in cerchio sopra di noi al momento in cui lo abbiamo liberato sono stati emozionanti e ancora li ricordo. Anche l’avvistamento di certi animali è stato emozionante: scoiattoli che giocavano con me a nascondino dietro un pino, tassi grassi e lenti al crepuscolo, donnole agili, ricci tranquilli, daini enormi, caprioli voraci e, soprattutto cinghiali in branco. L’aver sorpreso sul fatto alcuni bracconieri mi ha dato soddisfazione: cacciavano animali protetti o non avevano il porto d’armi. Mi ha dato anche soddisfazione redigere verbali per la protezione della flora protetta come il pungitopo o il narciso trombone. Nei miei vent’anni trascorsi in ufficio a Savona la soddisfazione più grossa è stata l’allaccio della caserma forestale di Zuccarello, in cui io avevo gloriosamente (scherzo) militato, alla rete fognaria del comune. Per la difficoltà della pratica burocratica dell’opera, che comprendeva la messa in funzione addirittura di un semaforo per regolare il traffico in occasione dei lavori. Anche nella Forestale ho avuto buoni insegnanti: per l’orientamento nel bosco, per riconoscere le diverse specie boschive, per lo spegnimento degli incendi.

Lei ama il ciclismo, come spiega il diminuito interesse per questo sport così emozionante?

Gino Bartali e Vittorio Seghezzi

Il ciclismo è la mia passione più antica. Me l’ha trasmessa mio padre, tifoso di Binda, di Bartali, di Gaul, di De Vlaeminck e di Moser. Mia madre, invece, da buona piemontese, tifava per Franco Balmamion. Il ciclismo ha scandito le ore della mia vita, i ricordi di passaggi di corse viste dal vero sono rimasti impressi nella mente fin da quando ero bambino, soprattutto se con il tempo brutto o sulle grandi montagne. La passione per il ciclismo è calata fin da dopo i tempi di Coppi e Bartali, quando il ciclismo era il primo sport in Italia e tutti avevano una bicicletta. Ultimamente la passione in Italia è ancor più diminuita secondo me a causa del problema del doping e quello conseguente della giustizia sportiva. Si è arrivati al punto di dubitare delle grandi imprese; sarà farina del loro sacco o farina del diavolo, cioè del doping? Spesso si viene a saperlo anni dopo, come nel caso di Lance Armstrong, a cui sono state tolte le vittorie in sette tour de France consecutivi e la vittoria non è stata assegnata perché si presumeva che anche i secondi non fossero meno dopati. Inoltre in Italia, dopo Nibali, non ci sono campioni capaci di infiammare le folle.

Lo sport per lei non è passivo, dal momento che allena i ragazzi arenzanesi di pallanuoto.

Don Ireo Iori

La mia prima passione è stata il ciclismo, la seconda il calcio, sono tifoso del Bologna dal 1962: avevo l’influenza, a cinque anni, e mio padre mi ha portato un giornale, Il Giorno, sulla cui prima pagina c’erano le foto a colori delle due squadre che avrebbero giocato la partita più importante della domenica. Quella volta le due squadre erano l’Inter ed il Bologna ed io tra le due, ho preferito quella con la maglia dai colori più vivaci, i rossoblu. La formazione dello scudetto del 1963-64 guidata da Fulvio Bernardini la ricordo ancora e la recito di seguito: NegriFurlanisPavinatoTumburusJanichFogliPeraniBulgarelliNielseHallerPascutti o Capra. Capra, la prima riserva, è l’unico ancora vivo. Però ad Arenzano, davanti al porto appena costruito, si giocava a pallanuoto, il famoso Don Ideo Iori tra le altre attività si era inventato anche la squadra di pallanuoto. Io ed altri amici che andavamo a fare il bagno siamo rimasti affascinati per sempre da quelle battaglie che si combattevano davanti a spalti – scogli gremiti. Abbiamo formato la squadra allievi ed è iniziata l’avventura. Che non ho ancora terminato perché tuttora cerco di formare le squadre dei più piccoli dai bambini e bambine che frequentano i corsi di nuoto nella piscina di Arenzano. Quindi si può dire che ciclismo e calcio li ho praticati per divertimento saltuariamente, ma lo sport praticato più seriamente ed in modo veramente attivo è stato la pallanuoto.

Scrittura e sport, ovvero i suoi romanzi.

Delle mie passioni sportive ho scritto nei primi miei due romanzi. Il primo, L’Avocatt e i suoi ramarri, tratta della carriera di Eberardo Pavesi, mitico direttore sportivo della squadra ciclistica della Legnano, dai primi anni venti al 1966, quando aveva oltre ottant’anni. Avvocato perché aveva difeso la categoria dei ciclisti in un processo contro gli organizzatori delle corse che non volevano pagare il dovuto. Ramarri erano invece chiamati i corridori della squadra Legnano per il colore verde chiaro (con bordini rossi) delle maglie. Pavesi ha diretto molti grandi campioni: Girardengo, Brunero, Binda, Guerra, Bartali, Coppi, Baldini, Nencini, Massignan e Battistini tra gli altri. A Pavesi piaceva raccontare anche le avventure vissute da corridore, Gianni Brera ha raccolto le sue memorie di ciclista eroico nel libro Addio, bicicletta, il cui titolo è stato suggerito da Mario Soldati.  A questo titolo mi sono ispirato per il mio secondo libro, Addio, calottina. Io amo dire che è un romanzo d’amore ed in effetti è vero, ma la passione per i miei sport ed i ricordi della pallanuoto vissuta occupano ampio spazio. È un romanzo d’amore anche per lo sport e per la vita, ambientato in un paesino immaginario della Liguria al tempo del boom economico e della speculazione edilizia: Rocca Ligure è la mia Macondo o la mia Vigata…

Il suo volume sulla campagna in Russia vista con gli occhi di suo padre è documento verace di quella tragica guerra… 

Il mio quarto libro, L’alpino che faceva sorridere i russi, presenta le fotografie scattate da mio padre durante la campagna di Russia. Ci sono solo quattro foto della ritirata, sulla neve, imbottiti di coperte. Tutte le altre foto riguardano il viaggio di andata, in gran parte a piedi, verso il fronte. In molte di queste foto sono ripresi i russi, fieri sui loro cavalli o intenti al lavoro o davanti alle loro isbe. Quello che colpisce dalle foto e dalle didascalie scritte da mio padre è che i nostri soldati non consideravano i russi come nemici e neppure i russi consideravano come nemici gli italiani. Spesso i bambini russi sorridono davanti all’obiettivo della Agfa di mio padre. Il quale descrive il russo che lo ospita nella sua isba come “padrone di casa e maestro di russo”. I soldati italiani non avevano capito la guerra del duce e del suo alleato tedesco. Molti capiranno vedendo i primi ebrei aggirarsi come spettri a cercare cibo nelle stazioni dei treni e poi durante la ritirata. Dalla guerra e dalla volontà di raccontarne le efferatezze perché non abbiano a ripetersi sono nati grandi scrittori. Ricordo Nuto Revelli, Luigi Gianoli, Mario Rigoni Stern, Primo Levi… Ho usato le parole di questi scrittori per commentare le foto di mio padre che, della guerra, non ha mai raccontato nulla. So però che era rimasto molto legato al corpo degli Alpini.

Ci presenti il suo volume: La vita di una volta in Liguria…, per favore.

Il mio terzo libro Vita di una volta in Liguria in venti testimonianze presenta appunto testimonianze sulla vita di una volta in Liguria registrate e trascritte. I testimoni sono piuttosto anziani e parlano degli anni intorno al 1930 fino i tempi recenti. A raccontare la propria vita e soprattutto la fatica ed il lavoro manuale sono contadini, allevatori, pescatori, operai dei cantieri navali, lavoratori delle cartiere, un ex ciclista e un oste di una vecchia osteria in cui si vendeva solo vino e si fumava. C’è il ricordo degli attrezzi con cui si lavorava a mano, di quello che si mangiava, delle famiglie numerose, dei cammini percorsi, del freddo e della fame. E poi della guerra, dei fascisti e dei partigiani, ma la guerra era più brutta ancora per chi viveva in città. Dai racconti sorge spontanea la domanda: era meglio o no la vita di una volta? Dalle testimonianze la risposta è vaga, ci sono i pro e i contro. Tra i pro della vita di una volta c’è, naturalmente, la giovinezza, ormai fuggita.

Che cosa intende partecipare al lettore con le sue poesie?

Il mio quinto libro, Poesie scritte perché non avevo niente da fare, è invece un libro con scarse righe e scarne rime scritte negli ultimi anni in cui ho lavorato in ufficio nel Corpo Forestale. Dopo tanti anni ormai sapevo fare il lavoro velocemente ed in due ore svolgevo il lavoro di tutto il giorno. E così mi rimaneva molto tempo per riflettere. Non ho composto tutte le poesie mentre lavoravo, ma tutte comunque in quel periodo, intorno al 2014-2015. Alcune trattano temi già affrontati negli altri libri, lo sport, la vita di una volta… altre affrontano temi più intimi, parlano del tempo passato e, forse, della vita. La scrittura per me è un modo di esprimermi, non ho un messaggio preciso da trasmettere ai miei scarsi lettori. Ho più dubbi che certezze, la parola forse, è, forse, una delle più frequenti nel mio libro di poesie.

Un progetto che le sta a cuore… 

Mi sta a cuore il rilancio del vivaio della Rari Nantes Arenzano, la mia Società di nuoto e pallanuoto. Ho ripreso dopo tre anni di stacco per motivi vari, in mezzo c’è stato il Covid. Ad Arenzano si sono moltiplicate le attività sportive che fanno concorrenza alla pallanuoto anche per la costruzione del palazzetto dello sport. Per questi motivi il settore giovanile della pallanuoto è andato in sofferenza ed io vorrei dare un contributo alla ripresa. È lavoro molto difficile. Al contrario di tre anni fa, però, penso che la Società sia più organizzata e che il mio lavoro non vada sprecato, se darà qualche frutto. Attualmente non ho in mente di scrivere altri libri, vorrei fare viaggi, leggere, andare in bicicletta, camminare, nuotare, ascoltare musica, incontrare amici, vivere… Ci siamo. Domani… speriamo di esserci. 

Grazie, Caro Federico Boggiano per aver accolto le mie domande. Auguro a Lei ed ai Suoi ore sempre serene.

Gian Luigi Bruzzone

 

Dal sito internet della RARI NANTES  ARENZANO- Under 14/under 16. I loro sorrisi dicono tutto, le parole non servono…. Un grazie speciale a Federico Boggiano!


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