Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Intervista impossibile a Camillo Sbarbaro / ‘Lina, a 12 anni, il mio primo amore. Gli studi sui licheni? Mi somigliano un po’. Montale bocciò Resine’


Il poeta segreto. I brevi incontri estivi con la figlia del segretario comunale di Spotorno: “Le lasciavo fiori di campo davanti alla porta e poi scappavo con il volto in fiamme”. Varazze il luogo del cuore: “La grande casa sul mare nell’ex convento delle monache e il salone con cinque enormi finestre aperte sul mare per godere il fascino delle mareggiate. La nostra isola incantata in una spiaggetta isolata fra gli scogli”.

Il collegio Don Bosco: “Qui si è formato il mio rapporto con la cultura e la natura”. Il rapporto con la sorella Lina: “Ero dispettoso: le rompevo i giocattoli e la facevo piangere”. Il liceo a Savona: “Né stima, né ricordo per gli insegnanti del Chiabrera, affetto per il professor Baratono di filosofia: mi ha arricchito culturalmente e spiritualmente”

di Tiziano Franzi

Camillo Sbarbaro è stato uno tra i più importanti poeti liguri del Novecento. Il suo carattere schivo lo faceva rifuggire da ogni forma di mondanità o notorietà. Anche per questo la conoscenza delle sue opere è rimasto per troppi anni patrimonio di pochi. Recentemente però è stato pubblicata la raccolta completa delle sue opere, in versi e in prosa, nei prestigiosi Meridiani della Mondadori e questo importante tributo servirà certamente a diffondere il nome di Sbarbaro ben oltre i confini liguri e nazionali.

Nato a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888, rimasto presto orfano della madre, insieme alla sorella Clelia (detta Lina) visse per molti anni con la zia Maria (detta Benedetta). Dopo avere ricevuto dal padre una iniziale formazione scolastica, dal 1895 al 1904 si trasferì con la famiglia a Varazze per completare la scuola elementare e proseguire gli studi di scuola media ( che allora si chiamava Ginnasio ) presso il locale collegio don Bosco, gestito dai padri Salesiani. Qui egli fece importanti incontri e avvertì per la prima volta la vocazione a scrivere: anni di formazione, crescita fisica e – soprattutto – di maturazione interiore.

Ho pensato così di realizzare questa ‘intervista impossibile’ al poeta, ricordando con lui gli anni trascorsi a Varazze e quelli successivi a Savona, dove frequentò il Regio Liceo Gabriello Chiabrera.

Camillo Sbarbaro nel 1905

Maestro – mi permetta di chiamarla così, anche se so che non ama questa definizione, ma lei è stato davvero un “maestro” per tanti altri autori di poesie e per chi, come me, ha avuto il piacere di conoscere ciò che lei ha scritto e di imparare molto da quelle pagine. Maestro, dunque, vorrei ricordare con lei gli anni che ha trascorso a Varazze.

Ricordo distintamente e con affetto quegli anni. Ero poco più che un bambino quando , con tutta la famiglia, ci spostammo a Varazze, dove c’era l’istituto superiore più vicino, quel Collegio Don Bosco dove ho inconsapevolmente formato il mio particolare rapporto con la cultura e con la natura.

Perché parla di “particolare rapporto con la natura”?

Perché la natura – e in particolare quella ligure – è sempre stata per me confidente e ispiratrice, oltre che oggetto di costante studio riguardo ai licheni.

Perché e come gli anni delle della scuola elementare e del ginnasio vissuti a Varazze sono stati così importanti per lei?

Per due ragioni, soprattutto. La prima legata alle persone che lì ho avuto la fortuna di conoscere e la seconda proprio per quel particolare paesaggio di Varazze, dove la macchia mediterranea scende fino agli scogli sulla riva del mare, o si innalza fin sulla cima delle colline .

Per quanti anni ha vissuto a Varazze e di quali vicini di casa ha particolari ricordi?

A Varazze abbiamo abitato per undici anni , mio padre, mia sorella Lina e la zia Benedetta, dal 1894 al 1905. Mio padre aveva affittato un appartamento in un edificio circondato da un grande giardino. A quella casa è anche legato il ricordo di vicini “particolari” , che si lamentavano spesso del chiasso che noi bambini facevamo in cortile. Io avevo allora un carattere piuttosto imprevedibile e, per vendicarmi delle loro continue lamentele, un giorno, di nascosto da tutti, strappai quasi tutte le piantine di quel giardino al quale i nostri vicini tenevano tanto, per poi rimetterle in ordine, ripiantandole nella terra, ma ormai prive di radici e, quindi, di possibilità di sopravvivenza. Non avevo, allora, un carattere facile, come ho già detto, e spesso la mia vittima era mia sorella Lina, alla quale rompevo regolarmente i pochi giocattoli che ci potevamo permettere in famiglia, soltanto per il piacere di farla arrabbiare e di vederla piangere, consolata – come sempre- da zia Benedetta.

Di altri vicini ho invece un bel ricordo, soprattutto della famiglia Tassara, che abitava in piazza san Bartolomeo, dove ci trasferimmo come seconda abitazione. Soprattutto di Maria ho un ricordo carico di affetto: rimasta nubile, si dedicava spesso a noi bambini, con una gioiosa inventiva con cui riusciva sempre a farci ridere.

E quali altri ricordi ha di quegli anni?

Il ricordo di bellissime passeggiate in compagnia di mio padre, di Lina e di zia Benedetta che portava sempre un paniere con dentro la merenda. In una di queste escursioni pomeridiane scoprimmo, a levante di Varazze, un’insenatura piccolissima, isolata dagli scogli e pressoché invisibile dalla strada. Trovato il modo di scendervi, la considerammo da quel momento il nostro privato dominio. Ogni scoglio fu conquistato , ognuno ebbe un nome. Era un gioco senza fine, storie di pirati, di barche a vela e a vapore, di isole misteriose, di viaggi senza tempo: la «spiaggetta» fu per anni la nostra isola incantata.

A Varazze cambiammo presto casa, altre due volte per la verità: la seconda casa era tra la ferrovia e la chiesa di san Bartolomeo, la terza sul mare, un ex convento di monache, poi suddiviso in appartamenti, di cui noi occupavamo l’ultimo piano, con un salone che aveva cinque enormi finestre aperte sul mare, osservatorio privilegiato per le mareggiate spettacolari di questo tratto di costa. C’era, sottotetto, una grande stanza vuota dove noi bambini improvvisavamo un teatro con cassette,tavoli, e quanto potevamo racimolare. Io scrivevo i copioni che poi recitavo con Lina davanti ai bambini che abitavano nelle soffitte della casa, gli stessi per i quali mio padre preparava a Natale un albero colossale sotto cui ciascuno trovava un regalo: la notte del 25 dicembre; anche i genitori dei bambini venivano invitati e Benedetta distribuiva dolci e bevande per tutti.

E della scuola, in quegli anni,  che cosa mi dice? Mi vuole parlare dapprima delle persone e del perché queste abbiano lasciato in lei un segno profondo?

Dei compagni di scuola, pochi sono rimasti nella mia memoria: Fazio, Vallino, Patrone, che venivano a fare i compiti a casa. Di Patrone ricordo soprattutto l’irruenza e la foga contestatrice, in quei tempi di assoluta obbedienza.

Tra i miei insegnati di ginnasio ricordo con sincero affetto don Giuseppe Gresino che è stato non soltanto mio insegnante di latino e di greco, ma colui che mi ha iniziato alla conoscenza dei licheni e alla passione per il loro studio e la loro raccolta, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Don Gresino era anche un esperto botanico e, sotto la sua guida, ho imparato a conoscere i nomi delle piante locali e a prediligere quei muschi, apparentemente insignificanti e poco attraenti, che sono i licheni.

Perché proprio i licheni?

I licheni sono formati da due organismi, un fungo e un’alga, che vivono associati: un’alga verde o azzurra e un fungo microscopico, i quali insieme formano un unico organismo. Sono piccoli vegetali molto primitivi, ma molto importanti perché sono in grado di assorbire sostanze inquinanti presenti nell’ambiente circostante. Questo mi ha insegnato don Gresino. E poi i licheni mi somigliano un po’: non si mettono in mostra, non sono appariscenti, vivono nel loro ambito naturale, pronti a svelarsi soltanto a chi si accosta loro con interesse e passione. I licheni, poi, hanno forme straordinarie, se studiati da vicino, magari con la lenti d’ingrandimento, le une differenti da quelle di un altro, anche se vivono sulla stessa pianta. Don Gresino ne aveva raccolto e catalogato moltissimi e anche io, nel mio piccolo, ne ho una discreta collezione, realizzata in decenni di ricerca e di passione.

Hai mai più incontrato don Gresino, dopo gli anni della scuola?

Sì, sono andato a trovarlo al collegio di Varazze molti anni dopo e ci siamo intrattenuti per qualche ora. A seguito di quell’incontro ho scritto “Visita al liceo”, pubblicata poi nella raccolta “Scampoli”. Se vuole, gliene leggo qualche riga.

Con molto piacere

Nel parlatorio dove son venuto a cercare dell’antico maestro, riprovo il disagio che già da ragazzo. Il divano invita a restare in piedi e il lume che pende dal soffitto non ha mai assaggiato petrolio. Arredamento che uno scenario sostituirebbe con vantaggio e tenuto accuratamente a riparo dalla luce. Si respira polvere. Esco nel corridoio per ingannare l’attesa[…] . Ritrovo del maestro i bruschi modi che amo. Propone con mio sollievo una arrampicata all’aperto. Degli amenti caduti alle querce che ombreggiano qui sopra il convento dei cappuccini, si fece la prima sigaretta; e a scuro, su quei sedili che accolgono i poveri all’ora della minestra, si copiava la versione, ginocchioni intorno a un calamaio. […] Dall’inizio della salita il maestro ha preso la sottana due mani e pare una donna che si destreggia tra le pozzanghere. Non so come, viene a parlare degli indigeni della Patagonia; sarà a proposito delle missioni che l’Ordine ha in quelle terre. […. ] Qualcosa a questo punto passa nella voce del maestro; l’ha alzata ad affrettare disinvoltura; non vorrei fosse a causa di questo incontro …. Per uno simile, un giorno che ci accompagnava in una passeggiata collegiale, la voce, mi sovviene, gli era uscita così diversa da non lasciarmela riconoscere; perché, già allora, m’era venuto di pensare che la via scelta dal maestro doveva condurre più presto alla santità che ha la pace. ”

E con lui, nei momenti liberi dallo studio, faceva passeggiate nel territorio di Varazze?

Sì, con lui, ma soprattutto ricordo quelle con Lina e la zia, ai Piani d’Invrea. Ed è proprio durante una di queste passeggiate, in particolare durante la salita al Montegrosso o Madonna della Guardia, che ricordo di avere avvertito per la prima volta un rapporto nuovo e diverso con la natura e il bisogno interiore, la necessità di scrivere.

Il Montegrosso “ricciuto” sopra Varazze

Ho letto le pagine di “Trucioli” in cui ne parla. Se non le dispiace, le rileggiamo ora, insieme: Montegrosso folto di pinastri, Montegrosso di qui par ricciuto.  In vetta stasera la chiesa rintocca, arrossata dal sole al tramonto. È la Madonna della Guardia, la ricorrenza dell’anno.

Come a Varazze, ieri, qui ai piani d’Invrea, nelle case han cotto la focaccia da portarsi lassù: impastata d’olio, insaporita di salvia. A buio stamane si son chiamati: han preso per tracce da capre, con le scarpe a tracolla da metter giungendo. Per noi, da bambini, questa era notte d’insonnia. Di nascosto per non esser uditi, scalzi ci si azzardava alla finestra a spiare che tempo faceva. Che apprensione dava la nube che montava all’assalto del cielo! Con le mani l’avremmo respinta. Allora la felicità era alla mercé del tempo: una goccia di pioggia la rimetteva d’un anno.

Dietro zia Maiolin, che in testa filava pregando, si arrancava per poco[…] Sulla rossa mulattiera si partiva in stormo d’uccelli a raggiungere la zia; a protestar fame e sete dietro le sue scarpe da uomo – la nostra scoperta!- per vedere che mai ancora la zitella cavasse, per distrarci da sé, dalle tasche all’uopo riempite. Lassù ci accoglieva la sporta sull’erba e, attaccata alla bocca del pozzo, la tazza di stagno. Vi affondavo la testa. Sento ancora il cerchio di gelo intorno alla fronte accaldata, il gusto allappante dell’acqua su cui di voluttà sbattevano al sorso le ciglia. Non ebbi mai più quella sete. Cosparso dei greggi dei borghi, con strazio e delizia commisti, presentii la mia vocazione.

Suonava l’avemaria. In piedi nella brughiera, mi giungevano con quello scampanio fievoli e spersi belati, prossime voci di gente sottratta alla vista; e, vicini e lontani, voci e rintocchi , ferivano tutti, chiedevano d’essere accolti, e, non sapevo come, esauditi; al cuore facevano ressa, gli davano un soffocamento soave..[…]

Marea mi montava nel petto, esiguo per contenerlo, quel soverchio di gioia che l’impotenza mutava in tormento. Vacillai sopraffatto, e come l’urto di un dito manda a terra nel gioco il bambino che ride, mi trovai da quell’empito messo in terra a sedere.

Attirai un cespuglio, abbozzai vergognoso un abbraccio all’intorno. Inappagato eppur colmo d’una gioia insensata, oppresso di felicità, restai sull’erba a sorridere muto […] Dai miei venuti alla città per sostenermi alla prova, la prima, e che a casa m’aspettavano in ansia, di ritorno con l’esito, mi lasciai festeggiare. Ma altra era la mia gioia; segreta e da celebrare da solo. Essi nella pagella riportata vedevano un’arra d’avvenire; io, il lasciapassare pel paese che, solo, sapevo […].

Che ricordi….Come sono stati felici, nella loro semplicità, quegli anni….. Felici sì, ma sempre un po’ velati di malinconia, com’è nel mio carattere.

Nostalgia anche di qualche primo “amore”?

Eh, sì. Verso i dodici anni, durante le vacanze estive, mi innamorai di una bella bambina, brunetta e piccolina: si chiamava Lina Garassino ed era la figlia del segretario comunale di Spotorno. Io portavo fasci di fiori di campo davanti alla sua porta, poi, con il volto in fiamme per il timore che qualcuno mi vedesse, mi davo subito alla fuga. Così per due estati consecutive…. Più tardi la rividi a Savona, nei corridoi del liceo, ma eravamo tutti e due già più grandicelli e tutto finì lì.

E dopo Varazze?

Poiché l’istituto don Bosco di Varazze non era parificato, per proseguire gli studi ho dovuto superare, da privatista, l’esame presso il Regio Ginnasio Cristoforo Colombo, ottenendo per la verità risultati non molto lusinghieri, come dimostra la pagellina che conservo tutt’ora: bene in francese, ma in italiano e storia naturale- che pure amavo molto- non raggiunsi la sufficienza; però mi sono diplomato a luglio, senza rimandatura a settembre.

Pagella di licenza ginnasiale anno 1904. E quindi vi trasferiste a Savona?.

Sì. Mio padre prese in affitto una bella e comoda casa, al quarto piano del civico n. 15 di via Paleocapa. Poi ci trasferimmo sulla collina, nel villino Foglia, in quella zona che oggi è chiamata “la Villetta“: una casa divisa in sei appartamenti, di cui abitammo quello all’ultimo piano. Ho proseguito gli studi al Regio liceo classico ” Chiabrera” di Savona, dal 1905 al 1908. Ma, per una forte forma di scarlattina che prese prima me e poi Benedetta, non ho potuto concludere il primo anno e così ho lasciato la scuola dopo il primo trimestre. Ricordo che il preside, professor Taddeo Taddei Castelli, veniva ogni tanto a casa a farmi visita, soprattutto per insistere con mio padre a farmi riprendere gli studi non appena mi fossi rimesso in salute. E così fu. Ripresi regolarmente la frequenza scolastica e mi sono diplomato nel giugno 1908.

Quali sono state le figure per lei più importanti in quegli anni di liceo a Savona?

Di molti insegnanti non ho mantenuto né stima, né ricordo, ma per uno serbo ancora nel cuore un affetto riconoscente: il mio insegnante di filosofia, Adelchi Baratono, che mi ha arricchito culturalmente e spiritualmente, spronandomi a leggere i classici e a scrivere. Fece lo stesso lo scrittore Gaspare Invrea (noto come Remigio Zena) che apprezzò un mio scritto di allora e mi sollecitò a scrivere ancora, in prosa e in poesia. Seguendo il loro incitamento intensificai la mia attività poetica , mantenendo però sempre “riservati” i miei scritti.

Varazze prima e Savona poi sono quindi state per lei le città della sua formazione culturale e della sua prima attività di scrittore.

Sì, è assolutamente così.

E quando pubblicò il suo primo libro di poesie?

Nel 1911 , con i ventidue componimenti di “Resine” . Fu l’amico poeta Angelo Barile, che era stato mio compagno di liceo, a sostenere questa pubblicazione, organizzando la raccolta del denaro necessario presso amici e condiscepoli. Il libricino fu stampato dallo “Stabilimento di arti grafiche Caimo” di Genova. Ricordo che la spesa fu di 140 lire e il mio guadagno di 16 lire: Tempestivo avvertimento che i miei proventi letterari sarebbero stati sempre modesti”, come scrissi in seguito. La copertina era molto semplice, di colore beige, illustrata da un’ incisione, di formato quadrato, di Giuseppe Giglioli. Quella veste editoriale mi parve, allora, una meraviglia e la sua uscita mi procurò una specie di ebrezza, passando per il Corso, di sbirciare il mio nome bene in vista nella vetrina del maggior libraio .

E quali giudizi ricevette di quella prima opera poetica?

Pochi, in verità, e non tutti lusinghieri. Eugenio Montale, ad esempio, che in seguito lodò apertamente la raccolta “Trucioli”, a proposito di Resine scrisse : “..sonetti e quartine e strofe varie, oneste tutte e decorose ma niente più”.

Tiziano Franzi


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