Il Tanarello nasce nei pressi di Cima Garlenda (c’è la ‘margheria Tanarello’), nel comune di Triora, poi va per un breve tratto nel territorio del comune di Briga Alta (loc. Piaggia), poi passa vicino a Monesi di Triora. Scendendo a valle, a Pian Laiardo si congiunge con il Negrone (che nasce da Cima Missun) e forma il vero Tanaro. Un particolare che molti ignorano e non viene mai citato.
Pian Laiardo si trova nel Comune di Ormea; c’è un’area di sosta recentemente sistemata dal Comune di Ormea (danni alluvionali). Dunque il vero Tanaro inizia il suo percorso nel territorio di Ormea.
Il Tanaro, tratta dal volume “Ricordi storici di Ormea” di Don Secondo Odasso, allora Curato di Ormea, che li aveva pubblicati sull’appendice del settimanale “Il Falconiere” di Ceva tra il marzo 1912 e il novembre 1914. Poi fatti ricopiare in formato elettronico con l’aiuto delle Dott.ssa Barbara Florio dell’Associazione storico-culturale di Ceva. E pubblicati dall’editrice Fusta di Saluzzo nel 2015. Ecco il testo ricco di tante curiosità ai più certamente inedite e che riguardano ben tre province, i suoi paesi, i monti, le vallate, i corsi d’acqua, ruscelli inclusi.
Il Tanaro Sue origini e suo corso Asserzioni di scrittori sulla sua antichità- Uno dei più considerevoli affluenti del Po è senza dubbio il Tanaro, sia per la particolarità delle sue scaturigini, sia per la sua abbondanza d’acqua, come pure per la lunghezza e varia direzione del suo corso e gli importanti suoi tributari. Esso scorre per la lunghezza di 276 km, bagnando ben tre province, che sono Imperia, Cuneo ed Alessandria. Nasce adunque il Tanaro nelle Alpi Marittime, a levante del colle di Tenda, in due rami distinti, chiamati uno del Tanarello e l’altro del Negrone, col quale ultimo va a congiungersi, dopo essere sceso precipitosamente a tramontana, a 13 km circa sovra il Ponte di Nava.
Raccolte le acque in una sola corrente e sotto un solo nome «attraversa, scrive il professor Zitta, il famoso Ponte di Nava, confine un tempo tra il Piemonte e la Repubblica di Genova e viene a lambire le case di Ormea le une alle altre addossate. Di là il fiume procede quasi sempre ristretto in forre profonde, che col lungo, ma continuato lavorio dei secoli andossi scavando nel vivo sasso, sino che riesce ad allargarsi quasi in un’oasi nella piccola pianura di Garessio, di dove, seguendo il suo cammino bagnate Ceva, Alba, Asti ed Alessandria, va a gettarsi nel Po presso Valenza…».
La direzione del fiume, che, fino a Ponte di Nava è da ponente a levante, va cangiando di qui a Barchi, col tracciare una curva, con centro a scirocco. Ha una pendenza meno rapida, man mano che si allontana dalle sorgenti e, a Ponte di Nava, il letto è a 800 metri sul livello sul mare. Il suo corso è assai ineguale e piuttosto rapido. Le acque hanno comunemente 8 decimetri di altezza: però il suo letto offre alcuni laghi di una certa profondità. Raramente gela. In alcuni posti è guadabile perché corre incassato ed ha or l’una or l’altra delle sue rive alquanto dirupate. Alcuni scrittori parlarono ex professo del Tanaro, tra i quali monsignor Della Chiesa; vescovo di Saluzzo, nella sua voluminosa Corona Reale di Savoia, trattando dei monti, colli, fiumi e castelli della provincia degli Statielli, del Tanaro così favella: «E’ questo uno dei quattro principali fiumi, che attraversano il Piemonte: e siccome separava i Liguri Statielli da’ Baggieni: così ora le Langhe dal restante del Piemonte divide. Plinio dice, che egli è il primo fiume dell’Appennino, onde ingannati si vedono coloro, che non solo Genova, ma la città di Bobbio ancora nelle Cozie mettono. Da’ Latini è detto Tanagrum, perché è composto da due ruscelli; l’uno il Tanarello e l’altro il Negrone nominati, i quali avendo da due grossi fonti, quello sopra il paese dei Genovesi al piè del Monte Cavriolo nella diocesi di Ventimiglia e questo nel territorio di Ormea origine, otto miglia da detta Ormea discosto, in territorio tra gli uomini d’esso luogo e quelli della Pieve contenzioso di congiungono».
2 Affluenti del Tanaro- Statuti comunali riguardanti l’Armella. Come ciascun fiume o torrente, di qualunque lunghezza ed importanza esso sia, vanta i suoi tributari, o grandi o piccoli, che loro rendono ricco di acque, così il Tanaro, a destra ed a sinistra riceve numerosissimi affluenti. Dovrò premettere che il Tanarello dopo le sue scaturigini dai monti Saccarello e Cical scende attraverso i casali di Momezi, Ca’ di Ferrari, ponte Tanarello, Barchetti, Tetti dell’Isola, Carpanea; si ingrossa a sinistra di tre rigagnoli che vengono dal colle delle Rosse e sulla destra, d’altri nove rii provenienti dal monte Frontè e dal San Bernardo di Mendatica e confluisce nel Negrone sotto Pornassino. Il Negrone segna per 7 Km circa i confini tra Cosio ed Ormea. Nasce in due distinti rami, cioè dal monte Bertrand e dal colle di Sella Vecchia a sud e dalla testa di Ciandon, colle di Malalberga, colle del Pal e di Carsena e colle delle Saline a nord. Il primo si unisce co’ suoi due rigangoli ad Upega che sono Certigora e Zerbilone: dopo un breve corso precipita sopra un nudo scoglio escavato dalle acque a guisa di vasca, ivi detto l’Imbottao o l’Imbottore, perché le acque medesime perdendosi dentro di esso, scorrono sotto terra per un tratto di 200 metri e ritornano quindi a zampillare da nudi scogli in due sorgenti chiamate le Foci, che riunendosi piglian nome di Negrone e scorrono per la lunghezza di due miglia circa.
Si scarica nel Negrone un ruscello proveniente dai colli Carnino e poco dopo vi sboccano alcuni rivi: le Vene, di cui le freddissime acque non contengono verun pesce; il Reggioso presso la cappella di Viozene ed il Rio Bianco; di questi tre rivi, il primo deriva dalle Colme, il secondo dal Bocchin dell’Aseo ed il terzo dal monte Bianco e vien così denominato perché le sue acque scorrono attraverso uno strato di terra bianchissima e saponacea, la quale essicata al sole diventa una pasta molto dura e compatta che potrebbe servire per la fabbricazione di stoviglie di qualche pregio e pure come smalto.
Il secondo ramo del Negrone si unisce coi suoi rivi alle Serre di Carnino. Bagna il Negrone le villate di costa di Montenegro, Viozene, Torria, Pian del Fò, Pornassino e il Baraccone, ingrossato anch’esso di nove rivi sulla sinistra, s’unisce al Tanarello cangiando poi ambedue, ripeto, il nome in quello di Tanaro. Entrano frattanto nel Tanaro a destra nel territorio di Ormea:
1° il rio dei Pendagli: questo, asserisce il dottor Bassi, «in un punto, laggiù del Tanaro, dove la falda coltivata va morendo per cedere il posto alla nuda roccia…, ha potuto trovare una grande spaccatura in cui si è interrato e che, ingrandita per l’azione 24 del tempo, forma un lungo burrone, ove l’acqua scroscia e rimbalza sordamente, formando cascatelle e laghetti, in uno dei quali molti anni or sono un povero mentecatto fu ripescato coll’aiuto di congegni e corde. In questo baratro, narra la tradizione, sono stati dai terrazzani gettati molti francesi».
2° il rio del Prale.
3° il Bossi che scende dal monte della Guardia.
4° il rio della Bossieta e quelli poi della Valle dei Buschei, di Pian del Lupo, dei Ronchi, che scendono dall’Armetta e finalmente quel di Barchi che separa Ormea da Garessio ed ha un corso di 4.200 metri. Entrano nel Tanaro a sinistra:
1° il rio Borgosozzo, con uno sviluppo di 5.400 metri che si avvalla dal Pizzo di Ormea, ingrossato a sinistra dal rio della Mellea e dal Gaio proveniente dagli Archetti.
2° il rio della Regina e di Valmarenca, in mezzo ai quali giace la borgata di Quarzina, il rio di Valmoglia e di Cantarana;
3° il rio Chiappino, che scende dal Pizzo, raccoglie le acque decorrenti sul fianco destro del vallone, fra le quali il rivo Carbonea e di Ravagrossa ed ha un corso di 7.000 metri;
4° il torrente Armella che ha bocca di derivazione ad Altramella, dal lago del Pizzo a levante di questo, prende le acque della costa di Valxaira a destra, delle Ruscarine, delle Ferrarine e colle dei Termini a sinistra. Questo torrente, che limita dalla parte meridionale il concentrico della città di Ormea, resta attraversato presso il piazzale del Municipio dalla strada nazionale per Oneglia con un ponte in pietra ad una sola arcata e superiormente dall’antico Ponte dei Corni a due luci e fornisce, per via di un acquedotto, l’acqua necessaria alla lavatura delle vie di questa città, per lo sgombro delle nevi e per l’irrigazioni di alcuni orti a valle del caseggiato;
5° il rio San Pietro, il rio Pesino, che è alimentato da Fontana Fredda ed è lungo 4.200 metri e finalmente il rio delle Orse. Il Corsaglia corre per 9 km sul territorio di Ormea, ove ha diverse scaturigini: la principale è quella del lago di Revello, un’altra scende dal Mongioie e passa per il Gias del Pisciasso Soprano, Sottano e pel Gias della Seppa; una terza scende pure dal Mongioie, dalla Cima della Brignola e dal Mondolè. Nel suo corso riceve il rio Borello o della Mastra, formato dalle acque che defluiscono per l’Alpe degli Stanti, dal Colle dei Termini e dalla Ciuajera. Per tre chilometri e mezzo serve a dividere il territorio del comune da quello di Roburent.
Le acque avevano un tempo, come ancor attualmente, un utile grandissimo, presso gli abitanti di Ormea: il loro uso però era regolato da statuti correlativi, fra i quali piacemi qui a proposito riportarne un esemplare. Difatti, al capo XXIII, viene stabilito che «quello che condurrà l’acqua di Armella di sotto il Ponte di Armella, debba havere l’acqua alli prati, che ha nelle giaire di Armella, ognuno per la sua parte e se vi fosse qualche litiggio per causa di detta acqua, li Sindici debbano provvedere, e secondo 25 quello, che sarà ordinata l’acqua, per i medesimi Sindici sia fermo e si debba osservare e chi contrafarà paghi il bando di soldi cinque per ogni volta».
3 Il Tanaro nel rimanente del suo corso sino alla foce. Per completare la trattazione del corso di questo fiume, porgerò frattanto un rapido cenno degli affluenti che riceve dal territorio di Ormea sino alla foce del Po. Oltrepassato questo e ricevuto in quello di Garessio vari rii, fra i quali il Lovia ed il Malsangua ed a Ceva il Cevetta, viene ingrossato dai seguenti torrenti e fiumi e anzitutto a sinistra: 1° il Corsaglia, che nasce dal colle dei Termini, bagna Frabosa, Torre, riceve il Casotto, che scaturisce dal monte Berlino, toccando Pamparato e Monasterolo e dopo San Michele, il Mongia, che scende dal Mindino irrigando le terre di Viola, Scagnello e Mombasiglio ed a qualche tratto da Lesegno si scarica nel Tanaro; 2° l’Ellero: piglia le sue scaturigini al monte delle Saline, bagna Roccaforte, Villanova, riceve le acque dal Maudagna che viene dalle Frabose, passa a Mondovì ov’è ingrossato dall’Ermena e mette nel Tanaro presso Bastia dopo un corso di 36 km circa; 3° il Pesio, che scende dal Picco di Salinè ed è a sua volta ingrossato dai torrenti Pogliola, Brobbio e Colla, bagna Chiusa Pesio, Rocca de Baldi e dopo un corso di 20 miglia presso Carrù entra nel Tanaro; 4° la Stura di Demonte: nasce dal versante settentrionale del monte Encestraga, s’ingrossa delle acque del Riofreddo che riceve prima di Vinadio e del torrente Arma che tocca Demonte, sbocca nella pianura a Borgo San Dalmazzo, si dirige verso nord-est lasciando alla sua destra Cuneo presso cui riceve le acque del Gesso formato di due rami, Gesso d’Entraque e Gesso della Valletta, che si uniscono prima di Valdieri e ingrossato dal Vermenagna, sbocca nel Tanaro.
A destra: 1° il Belbo: nasce dai colli di Montezemolo, bagna i territori di Camerana, Mombarcaro, Murazzano e, lasciato il circondario di Mondovì, entra ad irrigare quello di Alba, ove tocca Bossolasco, indi con direzione costante di nord est, passa a San Stefano Belbo, Canelli, Nizza Monferrato e, sotto Oviglio, innanzi che il Tanaro tocchi Alessandria, ad esso tributa le sue acque dopo un corso totale di 35 miglia; 2° la Bormida. Due sono i rami che portano il nome di Bormida: di Millesimo l’uno, di Cairo il secondo. Il primo ha le sue scaturigini a Roccabarbena, scende a Bardineto, bagna Calizzano, Murialdo, Millesimo, Cengio, Saliceto, Monesigio, Cortemilia e Bubbio e a Bistagno riceve il secondo ramo che proviene dal Settepani, irrigando le terre di Pallare, Carcare, Cairo, Spigno. Poscia, toccata Acqui ed altri luoghi, dopo essere stato ingrossato da altri rivi durante tutto il suo percorso, va a scaricare le sue acque nel Tanaro presso Alessandria. Quasi tutti questi fiumi danno vita con le loro acque a numerosi opifici, nei quali 26 migliaia di operai traggono quel sostentamento che la natura montuosa del terreno ed il rigido clima non consentirebbero. Numerosissimi sono poi i canali che da questi fiumi derivano e per iscopo di irrigazione così in pianura che in montagna e per motivi industriali.
4 Flottazioni sul Tanaro Forze idrauliche- In tempi a noi remoti, per difetto di buone strade, usavasi la flottazione del legname sulle acque del Tanaro per essere tradotto alle segherie a fine di ridurlo in tavole, ovvero per la vendita e tale era pure la ragione che fra le altre vantava ab anco il pubblico d’Ormea. Ce ne rendono fede i medesimi Statuti comunali, ove tal mezzo di trasporto viene contemplato al capo 174, il quale stabiliva che alcuno non dovesse appropriarsi le legna condotte pe l’acqua del Tanaro, né segnare le dei legne per sue, gravando del bando di soldi cinque chi avesse contravvenuto a tal statuto. Poco prima del 1847 i francesi avvertirono, come già il grande Napoleone, che dalle boscaglie di cui erano foltissime le montagne donde piglia origine il Tanaro, si potevano estrarre i legnami di cui abbisognava la Francia. Così una compagnia di imprenditori francesi mandò qua un suo delegato a farne incetta per attuare massime la strada ferrata da Marsiglia a Parigi. Questi dal Comune di Tenda comperò la estesa e ricchissima foresta delle Navette, sovrastante al torrente Upiga, ne fece eseguire il taglio e con molta spesa e fatica ne condusse col mezzo del galleggiamento i legnai a Nava. Il sistema di flottazione usato allora ci viene descritto minutamente dall’abile penna del professore avvocato Angelo Nani d’Ormea nella sua Origine del Tanaro, ove ci fa osservare come dessa si praticasse specialmente in primavera, formando, per la scarsezza dell’acqua, delle robuste dighe in legno, affinché elevandosi l’acqua ad un’altezza considerevole si potessero trainare i lunghi pedali di larice e di abete e rompendosi poi le dighe, la grande furia d’acqua li trasportasse per un lungo spazio.
È ben vero che Napoleone aveva già decretato nel 1812 una strada rotabile, che da Nava conducesse a quelle foreste per estrarvi legnami da costruzione; ma di poi, decaduto dall’Impero, l’industria umana trovò modo di derivarli di colà mediante la flottazione. Però fin d’allora già usavasi trasportare dalle vicine foreste di Cosio e Mendatica fusti di pino e di abete colla flottazione per ridurli in tavole, ad una sega prossima al Ponte di Nava, o ad un’altra più antica esistente in Ormea. Così pure di là si traevano i ciocchi di faggio per ardere, come più tardi verso la metà del secolo passato si derivavano ogni anno quelli destinati alla vetraia di Garessio La perenne defluenza delle acque sia del Tanaro come degli affluenti, dà moto a sei seghe, a cinque martinetti, a due fabbriche di paste (proprietari Molinari e Monetto), ad una cartiera (fondata nel 1904, proprietà Lorenzetti), ad una macchina dinamoelettrica (proprietà Monetto) e ad otto molini; e potrebbe ancora essere utilizzata per l’impianto di importanti stabilimenti industriali, quando lo permettessero le condizioni economiche del paese. Riguardo alle seghe, mi torna opportuno avvertire come il primo che in Nava erigesse uno degli edifizi di seghe ad acqua fu, circa il 1812, un tal architetto Antonio Seno di Ormea, il cui molino e sega calcolavansi del valore di L. 500, ma egli non poté ricavare dal traffico delle tavole il vantaggio che, lui morto, ritrassero altri più avveduti ed arditi speculatori.
Altre seghe poscia furono costrutte in vicinanza del Ponte di Nava, «le quali, osserva a proposito il Nani, con meravigliosa prestezza, siccome quelle, che sono messe in azione dalla precipite forza delle acque raccolte in docce, adempiono al fine, cui le destinava l’ingegnoso accorgimento umano ». Il guadagno, inoltre, che risultava ai proprietari di esse dallo smercio delle tavole, era considerevole, mentre altri nel disboscamento delle selve, nella flottazione del legname e nell’assistenza del segamento del legname, traevano largo partito per la loro vita. Liguri ed ormeaschi, che una volta vivevano in quella furiosa nimistà che durò circa sei secoli, attendevano, terminate le loro aspre contese, a quest’industria, fonte per loro di non comune vantaggio.
5 Le ricchezze del Tanaro e de’ suoi affluenti Ordinati e statuti comunali sulla pesca- Monsignor Della Chiesa altrove citato, parlando del Tanaro, s’introduce a far mezione delle sue ricchezze e sulla scorta del Volaterrano, riferisce che in esso «vi sono granelle d’oro raccolte, copioso di pesi d’ogni sorta; onde in ogni parte di esso e massime nel marchesato di Ceva si pescano trutte e tamari di smisurata grandezza, le quali per l’arene d’oro, che mangiano, sono di mirabili bontà». Ad ognuno adunque è noto che il Tanaro abbonda di trote squisite, di temoli, di eccellenti anguille e di altri pesci di qualità inferiore. Così pure ne vanno ricchi di trote il torrente Armella ed il rio Chiappino, mentre nel rio Pesino, della Valle e di san Pietro vivono gustosi gamberi che però vanno sensibilmente scomparendo. Il regolamento sulla pesca era già anticamente in vigore, fornito da quei saggi amministratori per via di Statuti e Ordinati.
Secondo quelli veniva stabilito, come apparisce dal capo 117, che «chi pescherà nelle acque d’Ormea alli sfriagli, ò sia chi darà in dette acque per caosa di pesca, calcina, uarego, ò altra sorte di veleno per i pesci paghi per il bando soldi diece, et altretanti per l’emenda alla Comunità». Dai secondi poi risulta che il Comune aveva deliberato e venduto il 30 gennaio 1604 la pescaria del fiume Armella per un anno a Garcilasco Ceva, conte di Ormea; e più tardi, il 2 luglio, ordinava che si vendesse la pescaria del Tanaro dalla parte soprana da Armella in su verso Viozene per un anno, dando incarico ai sindaci di mettere la pesca all’incanto e deliberarla a chi ne farà miglior condizione e benefizio per la comunità e che non si dovesse dare morbo di sorta alcuna…, che nessuno avesse da pescare, né far pescare nel fiume Armella, né dargli morbo di sorta alcuna sotto pena di dieci ducatoni per ognuno e per ogni volta. Da questi ed altri ordinati e statuti chiaro emerge come la pesca nei fiumi e torrenti del territorio ormeese già anticamente appartenesse al Comune, il quale ne regolò sempre in ogni tempo l’uso. Tuttavia, non si limitò a tali disposizioni, ma altre ne propose ancora d’allora in poi, alquanto modificate. Infatti, nel 1788 stabilì:
1° Che sia proibita la pesca con qualunque ordigno anche colla canna, ossia amo, tra mezzo li due ponti denominati di san Pietro e san Giuseppe e ciò all’oggetto di popolare nuovamente il fiume Tanaro.
2° Che sia proibito in tutti gli altri luoghi anche il pescare con quegli strumenti che raccolgono i piccioli pesci, come anche di pescare quando essi vanno in voga.
3° Che sia proibito a qualunque il pescare in qualunque sito ed in qualunque modo senza avere prima ottenuto il viglieto di permesso sottoscritto dalla persona che verrà deputata da questo consiglio e visto dall’ufficio di giudicatura. E persino fra i bandi campestri che il Consiglio Comunale nel 1816 propose per essere interinati ed osservati sul territorio d’Ormea, comprendesi anche questo per cui «per la conservazione… della pescaria su questo territorio sarà proibito a chiunque di pescare in alcuna maniera fra mezzo li due ponti di san Pietro e di san Giuseppe, sotto pena di lire dieci se di giorno, e di lire venti se di notte tempo, e del doppio se con veleno, o con ordigni proibiti, oltre la perdita di questi, e dei pesci» (articolo 15).
Recentemente poi, ai 3 dicembre del 1880 il sindaco Barli dichiarò «che il diritto di pesca nelle acque del fiume Tanaro e dei torrenti discorrenti in questo territorio è di esclusiva spettanza del Comune in forza di atto d’Investitura feudale in data 3 ottobre 1722; di atto pubblico 13 marzo 1731, Rogato Badino; che come tale è stato finora da esso Comune esercitato senza interruzione, come ne fanno fede i bandi campestri interinati con Declaratoria del R. Senato in data nove Settembre 1816, et Regolamento di Polizia rurale approvato con R. Decreto del 6 febbraio 1862». Nessuna ragione, come risulta da documenti, pretendeva sulla pesca il marchese d’Ormea, col quale però questa rimase in contesa per qualche tempo, perché solo gli apparteneva la bealera o canale e i molini e soltanto gli era concessa la facoltà di pescare e far pescare solamente per suo uso e di sua famiglia.
6 Ponti sul Tanaro e sugli affluenti Origine del Ponte dei Corni (Leggenda) Ordinati e statuti relativi Palancole- Nel territorio d’Ormea stanno sul Tanaro quattro ponti; due costrutti in pietra da taglio a tre archi, cioè quello di san Pietro, a greco, detto anticamente del Combuglio, 29 l’altro a libeccio della città, di san Giuseppe, quasi interamente ricostrutti sotto l’Amministrazione del dottor Bassi. Si tragittano per andare sugli Appennini e per recarsi ai comuni di Alto e Caprauna dipendenti dal mandamento di Ormea. Si opina che questi due ponti siano stati opera dei francesi ai tempi di Carlomagno, ma non se ne conservò memoria alcuna. Il terzo il ponte di Nava, rinominato per la sua posizione, solidità e bellezza, dà il passaggio alla valle d’Arroscia; quindi, a quella d’Oneglia ed era il confine tra il Piemonte ed il Genovesato ai tempi della Genovese Repubblica: fu ricostrutto nel 1823 in bellissimo marmo nero, screziato di giallo, ad un arco solo, essendo il primo e più antico fondato nel 1192, del quale rimangono ancora avanzi e ristorato nel 1785. Il quarto, di recente costrutto, è aderente alla fabbrica cartiera di Lorenzetti e serve di accesso agli operai dalla strada provinciale al locale. Fra i ponti che accavalciano gli affluenti, due vogliono essere di preferenza ricordati, quantunque altri abbian diritto ad essere menzionati, sui quali transitano o la via provinciale o la strada ferrata: – quello di Armella, costrutto in marmo nero nel 1724, pel quale si accede all’ isola Colombina ed al Ponte di Nava, donde apresi il passaggio alla Liguria pel commercio, come anticamente serviva di confine per trattenere i frodatori e disertori; – e l’altro dei Corni, superiore al primo per posizione, inferiore invece per la sua semplice e vecchia costruzione e che conduce alla Fontanetta. Di quest’ultimo venne pubblicata sull’Alpino (numero unico 16 settembre 1900) una leggenda che ne accenna all’origine e che stimiamo opportuno quivi riportare: «Nel medioevo, quando il Castello di Ormea era intatto ed ergeva al cielo le sue torri merlate, governava il paese Belisario il Tiranno.
Sui bastioni e nelle case circostanti, non si udiva che il cozzare delle armi e il vocione tuonante del truce signore; ma alle gotiche finestre, sul verone prospiciente all’Armella, spesse volte appariva un volto soave e triste, una figurina pallida e sottile, con due occhi azzurri, grandi e melanconici, una gloria di capelli biondi attorno alla fronte: la marchesa d’Ormea. Alla sera, quando Belisario il Tiranno percorreva, co’ suoi fidi, il paese, Ildegonda usciva furtiva dal Castello, per ascoltare il dolce suono di un liuto, e le parole, ancora più dolci, del bruno trovatore che ne toccava le corde. Ai piedi della torre, che s’innalzava dove ora sorge il mulino, protetti dall’ombra sinistra proiettata dalle sue brune mura, la castellana ed il trovatore s’abbandonavano ai loro dolci colloquii, ma non solo la luna argentea e gli uccelli che volavano sul loro capo furono testimoni del loro convegno. Una sera, mentre tutto taceva e la luna aveva nascosta la faccia lucente fra un ammasso di nubi nerastre, più del solito, torbida e muggente Armella scorreva ai loro piedi, l’uccello della notte s’alzo a volo nell’aria, gettando al vento che passava, un grido sinistro, presagio di sventura. Ed un istante dopo un gruppo di uomini, dalle armature lucenti, appariva a due passi dalla torre; una raffica passò fischiando ed un lampo abbagliante squarciò le nubi e, al suo truce chiarore, dinnanzi alla castellana colpevole e al triste trovatore, come fantasmi spaventosi, larve di sventura, apparvero il marchese di Ormea e il suo seguito di bravi.
Un lampo illumina la notte e fragoroso come il rombo del tuono, rompe il silenzio la voce del marchese, rivolto ai bravi: “Fate il vostro dovere!” Ma prevedendo il suo padrone e signore, la bionda castellana e il suo fido trovatore, sono spariti nel fiume muggente, un tonfo: un gorgoglio dell’acqua spumeggiante, poi un ultimo palpito dell’onda, poi più nulla… Sull’acque torbide galleggia un fine velo bianco ed ai piedi della torre giace abbandonato un liuto, con le corde rotte, spezzate, come l’anima del signore d’Ormea. Un mese dopo, dove erano scomparsi i cadaveri dei due infelici, sorgeva un rozzo ponte in pietra, eretto da Belisario il Tiranno: egli l’aveva denominato il Ponte del Peccato; i nostri contadini ora lo chiamano Ponte dei Corni». I ponti sul Tanaro più volte minacciarono rovina e venivano in parte od in tutto distrutti dalle alluvioni, ragione questa che induceva il comune ad ordinare a tempo opportuno la ristorazione.
Così, ad esempio, il ponte antico di san Pietro, che venne ricostrutto circa il 1890, fu distrutto in parte dalla grossa piena del 1844, resa più potente dal rigonfio prodotto da grosse piante di flottazione che postesi contro le luci del ponte, queste ostruirono in parte, costringendo le acque a fare un battente che fu fatale alle due arcate di sinistra. I due ponti sovradescritti del Combuglio e dell’Armella vengono celebrati dagli Statuti Comunali, secondo i quali veniva stabilito che chi avesse rubato qualche biada nel podere d’Ormea, pagasse per il bando soldi venti e l’emenda, o in caso di impossibile solvibilità, fosse frustato dal ponte di Combulio sino a quello dell’Armella (cap. V); colui che avesse rubato nel mercato d’Ormea, pagasse per il bando soldi sessanta e l’emenda, ovvero perdesse un piede od una mano, oppure fosse frustato dall’uno all’altro ponte, se il ladro fosse maggiore d’anni quattordici e in caso di minorità, restasse in arbitrio del Podestà et huomini del Conseglio (cap. VI); colui che avesse detto ad una donna maritata o vedova: tu sei una meretrice, pagasse per bando soldi venti, ovvero gli fosse ordinata la frusta, dal Podestà, da un ponte all’altro (cap. 136); qualunque persona che avesse raccolto letame sul ponte del Combuglio, pagasse soldi due per ogni volta (cap. 140); chi avesse asportate delle pietre dalle pile dei ponti pagasse per il bando soldi cinque (cap. 147). Cinque sono inoltre le palancole, le quali uniscono fra esse le rive del Tanaro, quantunque due possano considerarsi anche come ponti e sono: il ponte o la palancola di Cantarana che si tragitta per recarsi alla frazione Prale ed è situata all’omonimo casale pressoché a metà strada tra Ormea e Ponte di Nava; il secondo è il ponte dei Sospiri aderente al borgo, che mette al Castelletto; ed a questo si aggiungono le palancole, di Barchi, l’una presso Nasagò, costrutta nel 1891 e dei Bassi l’altra, presso l’Isola Perosa, che comunica con Villarchioso. Anticamente erano celebri, specie nel 1802, le tre pianche del Pesino, d’Armella e del Chiapino, le due ultime convertite in ponti per la costruzione della strada Mondovì-Oneglia.
ORMEA C’ERA UNA VOLTA LA ‘PASSEGGIATA DETTA DEGLI INGLESI’
(durante la belle epoque gli inglesi frequentavano il Grand Hotel ed il Casinò di Ormea).
Ora danneggiata dall’alluvione del 2020. Nell’alveo sono in corso lavori per ripristinare i muri di sotto-ripa crollati. Sabato 4 agosto 2022 il cronista ha ascoltato lamentele dei gitanti e la cosa da considerarsi “strana” è un’Amministrazione civica forse rivolta al consenso più che al buon senso direbbero gli analisti di cose di locali, ma tutto il mondo è paese. In tanti tacciono, minoranza consiliare inclusa, a leggere siti on line vari. Le strutture turistiche e i relativi arredi, a Ormea, cose d’altri tempi ? Con immancabili e lodevoli eccezioni ad opera di privati.
Possiamo testimoniare, ad esempio, che la ‘passeggiata’ lungo il mitico Tanaro, dal centro di Ormea verso Garessio, fino alla frazione Barchi (40 minuti a piedi senza correre) non ha neppure una panchina per sedersi. Non parliamo di tavoli. Ed abbiamo condiviso, con turisti anziani e famiglie con bambini, la carenza che in questo caso non è dovuta a cause di forza maggiore. E’ ‘cultura turistica’ del abc e buon senso. Scrive chi frequenta e conosce Ormea, la ama, da quando era poco più che sedicenne ed ora sta superando gli ‘anta conta l’ultimo miglio. E ‘Ormea domani’, quando riuscirà a svecchiare il capo-popolo ? E rinnovare i soloni (non saloni) di palazzo civico ? Chi tace acconsente !