Mario Draghi: l’arte di stare un passo indietro alla politica? I partiti se ne stanno facendo una ragione, senza una spinta a rinnovarsi come identità.
di Antonio Rossello
Il tema è complesso, ma vale la pena di spiegarlo perché svela il rapporto tra Draghi, la politica e la tecnocrazia. L’italiano che ha salvato l’Europa ha dimostrato di essere in grado, con il suo prestigio, di coagulare una solida maggioranza parlamentare. Il suo «whatever it takes» denota pragmatismo e, dalla giustizia alla previdenza, al fisco, ora ci sono 42 importanti riforme da fare in 100 giorni per non perdere i soldi dell’Unione europea, altro che riforma dei partiti!
A fronte delle preoccupazioni quotidiane, che attanagliano la stragrande maggioranza della nostrana popolazione, il Pnrr
(Piano nazionale di ripresa e resilienza)
ha subito una narrazione tale da renderlo la panacea dell’Italia moderna,
il lungometraggio del paese domani, il fantastico 2026. Per inseguirlo, occorrerà una partenza col botto. Già dal primo minuto si era capito che tipo di gara sarebbe stata quella tra Mario Draghi e i partiti. Con un simile progetto ambizioso di riforme, ognuna contraddistinta da stringente data di attuazione, immaginate quanto sia laborioso trovare, ministero per ministero, tra i leader politici e i peones, nel bric-à-brac legislativo, una quadra. Di fatto, prove tecniche di tecnocrazia?
Nel novero, ci sono in gran parte misure normative, presupponenti pertanto passaggi delicati parlamentari, come nel caso della legge delega di riforma della giustizia, della complessa revisione delle politiche attive del lavoro, della legge quadro sulle disabilità e della riforma universitaria. Il nodo gordiano è, comunque, rappresentato dalla legge delega sul fisco che il premier
auspica di approvare a breve (stralciando probabilmente la parte inerente alla riforma del catasto); un pò di fiato in più, invece, per il varo in Consiglio dei ministri della legge annuale di concorrenza, da calendarizzare dopo il secondo turno delle elezioni amministrative di ottobre, salvo improbabili, per i motivi che vedremo, terremoti nella maggioranza a seguito dei risultati.
Saranno dunque mesi di governo al galoppo, dal momento in cui, carte alla mano, i succitati 42 adempimenti, di cui solo alcuni semplici o burocratici, saranno da onorare entro cento giorni, essendo per giunta in numero pressoché doppio rispetto a quello previsto per ogni trimestre dal Recovery dal 2022 in avanti. Ecco qual è il termine inderogabile per non incorrere nel rischio che l’autorità preposta al controllo non vidimi la rendicontazione semestrale, impedendo la successiva richiesta di fondi per inadempienza agli elementi rilevanti concordati con la Commissione Ue.
Dunque, chi coltiva l’idea che a Palazzo Chigi un uomo valga l’altro, deve verificare accuratamente il cronoprogramma della presidenza del Consiglio collegato al Pnrr. Chi potrebbe affrontare un abaco di riforme così fitto e puntuale, se non un governo di natura eccezionale, se non Mario Draghi,
cioè l’uomo, apparentemente giunto al potere per una concatenazione fortuita di eventi, che — volente o nolente — sta di fatto arginando la décadence del nostro Sistema Paese? La ripresa non passa attraverso i vecchi sprechi colossali e continui e il premier dà priorità alle azioni piuttosto che ai proclami televisivi, spesso delegati ai ministri.
Il fenomeno e le sue linee di tendenza sono evidenti a chiunque abbia occhi per vedere già cambiamenti compiuti – quasi per non disarticolare di colpo prassi consolidate -a piccoli passi, che evocano tuttavia più radicali trasformazioni nelle regole, peraltro senza che siano ancora noti una precisa direzione, gli strumenti e le conseguenze su vita pubblica e meccanismi di governo.
Prevale però il sentiment positivo: la forza e la cifra stilistica di Mario Draghi – che non ha profili social, ricordiamolo – è quella di parlare poco e di lavorare tanto, di dire cose semplici, sebbene non ci sfuggano le imperfezioni della sua scalata a Palazzo Chigi.
AIn primis, l‘ex governatore della Banca centrale europea non ha tratto un vero mandato a governare, un mandato sostanziale, dalla volontà dei partiti— il cui voto di fiducia sembra avere ormai solo un valore di ratifica formale — ma da un’altra fonte, che ci auguriamo di poter indicare come «una volontà all’insegna del preminente interesse nazionale», sforzandoci di pensar bene, per non innescare ipotesi che non sono di mera rimozione ma spingono addirittura a vedere il complotto. È stata perciò una volontà che il presidente della Repubblica, o sommo esecutore, Sergio Mattarella, ha per così dire costituzionalizzato, avendo, con la crisi del governo Conte del febbraio scorso, palpato lo stato avanzato di inconsistenza programmatica, di decomposizione interna, di reciproca e strumentale conflittualità, sparso un pò dappertutto lungo l’arco politico.
Sopravvive, infatti, nominalmente la formula fin de siècle: «In Italia il governo si forma in Parlamento», ma i veri attori parlamentari, ossia i partiti, hanno rinunciato alla propria sovranità, in tal modo certificando la propria insignificanza e un potenziale cambio di regime. Il coup de théâtre è stato quando, nella temperie del momento, abbiamo ascoltato dal presidente del Consiglio: «I partiti svolgano pure il loro dibattito. Il governo va avanti». Come se una cosa non riguardasse l’altra, quasi come dapprima piazzati i propri accoliti nei dicasteri cardinali, lasciando il resto come contentino a tribuni di partito, si fosse insediata una tecnocrazia oligarchica tesa a soppiantare il potere politico, bramoso di incarichi e prebende, piuttosto che sostenerlo con consigli, avocando completamente a sé la funzione decisionale.
Con questa sorta di mandato di governo, ottenuto dando per scontata una maggioranza parlamentare, a prescindere dall’effettiva volontà dei partiti che la compongono, i quali decretano conseguentemente l’ininfluenza di ogni proprio eventuale dissenso, seguiti a ruota da un’opposizione unica di facciata, finisce la lunga storia della partitocrazia italiana, tramutatasi con gli anni da impalcatura indispensabile della Repubblica, e centro vitale della sua costituzione materiale, nella sua spada di Damocle.
E a chi nulla ha da vantare, se non un mare di dubbi in cui naviga, appaiono alquanto singolari e velleitarie voci fuori dal coro, che, salvo cambiare melodrammaticamente idea appena dopo aver registrato gli stupori, si candidano oggi a partigiani di un rinnovato ruolo dei partiti, auspicando fumosamente che, ad invertire la rotta di un lungo passato di declino, la lunga storia di progressiva paralisi del sistema politico, forse prodotto ineluttabile delle mancate riforme della nostra Costituzione, di proposte di porvi rimedio ogni volta andate a vuoto, sia una riforma straordinaria introdotta dal governo di Draghi.
Costoro forse dimenticano che il Draghi di oggi potrebbe rappresentare la nemesi della débâcle del decreto-legge n.149 del 28 dicembre 2013, convertito nella legge n.13 del 21 febbraio 2014, recante l’«Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore». Una norma che, ai fini dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla democraticità dei partiti, ha sicuramente segnato un passo avanti, ma si è concentrata prevalentemente sull’abolizione dei rimborsi elettorali, all’epoca chiesti a gran voce dall’opinione pubblica come scalpo per l’antipolitica montante. Ma il vero potere dei partiti è rimasto altrove, in primis nel potere di nomina, mai minimamente regolato.
Quanto, poi, agli obblighi di democrazia interna, la legge n.13 si è fermata troppo in superficie, imponendo vincoli meramente formali in termini di processi decisionali. Non parliamo poi della questione della personalità giuridica, del finanziamento pubblico in senso lato, dell’analiticità per scopi dei bilanci o di un limite alle cooptazioni dei quadri organizzativi.
Siccome è arduo pensare che si possa tornare indietro, che inoltre possa ora essere emergere qualche nuova «riforma» dall’interno dei partiti, inerente a questi stessi partiti, si apre un periodo denso di incognite. Specialmente per l’altissimo grado d’informalità, di irritualità, di assenza di regole in cui ci stiamo muovendo ed in cui Draghi pare sguazzare per realizzare – come abbiamo visto – tutt’altro tipo di riforme, quelle che vuole Bruxelles. C’è in tutto questo qualcosa di fatale, di inevitabile. Non è che l’Europa possa mettere nuovamente a disposizione montagne di soldi per favorire l’assunzione di altri battaglioni di forestali in Calabria, per aumentare la spesa dell’assemblea regionale siciliana, per costruire cattedrali nel deserto in ogni parte del Belpaese.
E sussistono perplessità anche comprensibili, in alcuni casi. Ci serve ancora la politica? Per politica, qui, si intende in primo luogo quella della democrazia rappresentativa, con le sue regole, le sue mediazioni, i suoi bilanciamenti di potere, i suoi partiti, e con le sue complessità e necessarie lentezze. Ma forse, più in generale, si deve intendere la politica di ogni ordinamento in cui i diritti dei singoli abbiano una tutela costituzionale forte.
I cambiamenti che Mario Draghi sta oggettivamente incarnando e introducendo nel nostro sistema politico (forse al di là probabilmente di ogni sua effettiva intenzione), parrebbero andare in senso contrario. E lasciano presagire che non ci sarà mai, probabilmente, un partito di Mario Draghi. Un partito insomma personale, alla Mario Monti o alla Lamberto Dini.
Cionondimeno, potrebbe essere recuperato un concetto centrale della storia della filosofia politica, il Leviatano, per colui che risolve i problemi, come il celebre Signor Wolf di Pulp Fiction, stabilizzando così le riottosità del panorama politico italiano in una coalizione ampia e trasversale, sotto il paravento di intreccio sorto da sensibilità diverse ma unite dall’emergenza.
E tutto ciò, inesorabilmente tramontata la pratica ancora ideologica della prima Repubblica, la successiva fase di formazioni eminentemente utilitariste quali FI o il PD, potrebbe in fondo essere visto come il, vero e unico, partito manageriale, del super tecnocrate di turno e dei suoi attachées, che decide su tutto e su tutti, in nome della salvezza della patria, grazie all’avallo acritico di una schiatta, siano essi eletti inetti o burocrati inefficienti, svilita delle proprie naturali funzioni.
Cari italiani, la Troika sta tornando, e non per farci un favore?
Antonio Rossello