Le deportazioni degli operai liguri per gli scioperi del 1° marzo 1944 . La testimonianza del finalese Antonio Schiappapietre.
di Gabriello Castellazzi
Gli scioperi del 1° marzo 1944 segnarono un momento di svolta nella Resistenza al nazi-fascismo, perché dimostrarono il radicamento dei valori di libertà in settori importanti della classe operaia. E’ doveroso ricordare i tanti giovani che per quel gesto di ribellione subirono la deportazione nei campi di concentramento.
La rivolta nelle grandi fabbriche del nord Italia segnò la saldatura tra la lotta di Resistenza in montagna e quella di città. Il gesto politico avrebbe assunto un ruolo decisivo nella fase cruciale della guerra alla vigilia dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944), mentre le truppe sovietiche avanzavano a tappe forzate verso occidente.
In quel giorno a Savona furono arrestati 150 operari dell’ILVA e della “Scarpa e Magnano”, condotti prima alla “Casa dello Studente di Genova” e poi deportati in Germania. Nei giorni successivi altri 1488 operai genovesi furono rastrellati agli ingressi di Ansaldo, ILVA e SIAC. Tra il primo e il 3 di marzo anche a Finale Ligure furono catturati 30 operai “ribelli” dello stabilimento aeronautico Piaggio: avevano partecipato alla distribuzione di giornali clandestini all’interno della fabbrica e diffuso notizie trasmesse da “Radio Londra”. In un primo tempo vennero condotti con camion all’ “Ospizio Merello” di Spotorno e poi trasferiti in treno a Genova.
Antonio Arnaldi e Antonio Schiappapietre erano tra loro: sopravvissuti alla prigionia, hanno poi lasciato importanti testimonianze della loro drammatica esperienza. Arnaldi, detto “Tunittu” partecipò per molti anni ad incontri pubblici, privilegiando il dialogo nelle scuole e raccontando con semplicità ed efficacia la sua vita da “deportato” rinchiuso nel campo di concentramento di “Mauthausen”; diventò anche guida, nei viaggi organizzati dall’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) di Savona, per le visite in quel luogo di dolore e atrocità. Insieme a “Tunittu”, nello stesso giorno venne arrestato Antonio Schiappapietre, un giovane ventenne di Finalborgo.
Alla fine della guerra, mentre Arnaldi riprese la sua vita in Finale Ligure, Schiappapietre incontrò una ragazza proveniente da Bussana di Sanremo: si fidanzarono, si sposarono e con lei andò ad abitare in quella cittadina. I contatti con i parenti di Finalborgo diventarono meno frequenti, ma ad un certo punto si rese conto della necessità di trasmettere ai suoi nipoti le vicende vissute in prima persona durante la guerra. Dopo qualche anno gli avvenimenti che l’avevano segnato profondamente vennero scritti su quaderni da consegnare ai giovani come testimonianza di quanto sia doloroso perdere la democrazia e la libertà.
I racconti sono ovviamente piuttosto lunghi, ma è interessante mettere a fuoco, in modo sintetico, almeno le tre fasi più significative: l’arresto e la deportazione, la sopravvivenza nel campo di concentramento, la fuga e il ritorno a Finalborgo.
Ecco le sue parole: “Il 3 marzo, alle ore 5 a.m., udii qualcuno che saliva la scala esterna della casa. Bussano alla porta. Mia madre va ad aprire tutta spaventata. Mi dice: “Sono venuti a portarti via!”. Io, che già avevo intuito quello che stava per accadere, ero già vestito. Un carabiniere e un milite fascista mi presero e mi condussero in caserma a Finalborgo. Qui trovai altri giovani. Tramite la donna di servizio che accudiva i carabinieri, mandai a dire ai miei genitori di portarci qualcosa da mangiare. A mezzogiorno arrivò mio padre con una grossa pentola di minestra di riso (sarà sempre il mio pranzo ogni 3 marzo) e ne mangiarono tutti. Alle ore 15 giunse un grosso camion con alcuni militi. Ci incitano a salire per essere trasportati all’Ospizio Merello di Spotorno. Qui erano già stati fatti confluire giovani e meno giovani di Vado e Savona. In tutti eravamo 124. Fatto l’appello, polizia fascista e militari tedeschi corrono verso la ferrovia e fanno fermare il treno. Una voce grida con tutta forza: “Avanti detenuti, in treno!”. Ci fecero salire su carri per il bestiame, stipati l’uno sull’altro. Chiuse ermeticamente le porte, partì un fischio e il treno lentamente partì alla volta di Genova, lasciando dietro di sé una moltitudine di parenti in preda alla disperazione”.
Seguono descrizioni sulla sosta nel capoluogo ligure, con la prima dolorosa parte del viaggio fino al momento che decise la sua vita: “Giunti in una stazione in aperta campagna, ben oltre la città di Innsbruck, ci fecero scendere dal treno e ci condussero in un baraccone lontano circa 500 metri dalla stazione, fra bianchi campi di neve. Alle nove un tedesco fece l’appello. Dopo aver risposto “presente”, gli si dovevano consegnare i documenti. Costui poi indicava il treno e la località che si doveva raggiungere. Io avevo lasciato quei documenti nella valigia in stazione, quindi dovetti andare a prenderli, e per accorciare la strada attraversai i campi coperti da oltre un metro di neve: quanta fatica! Ad un certo punto credevo di non farcela più. Quando ritornai al baraccone l’appello era finito. Alcuni compagni di sventura mi dissero che dovevo andare a Mauthausen e che durante l’appello, quando fu fatto il mio nome, fù detto che anche io ero destinato lì. Il tedesco cui consegnai i documenti mi indicò alla svelta il treno e la località: Stoccarda. Quella dimenticanza mi fù propizia, anche se poi non mancarono momenti duri e cupi”.
Lo sbaglio del militare tedesco gli salvò probabilmente la vita. “Tunittu”invece venne fatto salire sui vagoni piombati per Mauthausen, un campo durissimo dove tanti persero la vita (tra questi 5 suoi compagni operai finalesi) e dal quale lui miracolosamente ritornò. La parte centrale del racconto descrive la vita terribile del campo, i fortunati incontri con persone civili della comunità tedesca e la dimostrazione che la bontà esiste senza confini: “Quando al mattino entravamo in fabbrica a lavorare avevamo l’obbligo di salutare dicendo : “Heil Hitler”. Una mattina, non essendomi gradito quel modo di salutare, dissi: “Buongiorno”. Che guaio! Non avessi mai pronunciato quel saluto. Lì vicino c’era una SS. Mi afferrò alla gola con tutte due le mani stringendomi fino a lasciare il segno delle unghie. Caduto a terra, mi rialzò e continuò a strangolarmi finché persi i sensi: per tre giorni non capii nulla, credetti di dover morire”…
“In fabbrica lavorava anche il custode dell’officina; era una bravissima persona, come pure sua moglie. Quando potevano mi invitavano a casa loro e mi offrivano cibo e bevande. In fabbrica il custode faceva il fuochista; a volte mi conduceva nei sotterranei dove era la caldaia a carbone e, tra una palata e l’altra, dava sfogo a tutta la sua rabbia contro la guerra ripetendo in continuazione: “Krieg aus! Krieg aus!” Invocava la fine di quell’evento bellico che doveva durare pochi mesi e che invece ebbe fine dopo ben sei lunghi anni. Aveva un figlio militare in Italia di cui non aveva notizie e temeva per la sua sorte”.
Nella terza parte, superando ancora un gran numero di avvenimenti drammatici, ci si avvia alla tanto attesa liberazione: “Nei primi giorni del mese di aprile, quando si udirono in lontananza i colpi dei cannoni dell’esercito alleato si decise, in compagnia di altri tre italiani, la fuga verso casa in Italia”.
Il racconto prosegue con l’avventuroso viaggio fino al Brennero, poi verso il Piemonte e finalmente l’arrivo in Liguria:
“Da Vado prosegui il cammino sempre a piedi finché, nei pressi di Varigotti, arrivò un camioncino che viaggiava in direzione di Finale: feci cenno all’autista di fermarsi e chiesi un passaggio; il conducente impaurito dapprima rifiutò e poi acconsentì… Giunti a Finalmarina, al crocevia da cui parte la strada per Finalborgo, scesi dal camioncino e mi diressi a piedi verso casa. Percorsi 500 metri di strada, vidi mio padre venirmi incontro correndo velocemente… Poi l’affettuoso abbraccio con la mamma e la sorella che erano in attesa al crocevia oltre il ponte di Porta Testa. Così, dopo tredici lunghi mesi di angoscia, mentre il mio peso corporeo era sceso al di sotto dei quaranta chilogrammi, alle ventuno del 19 aprile 1945 ebbe fine questa mia triste storia”.
Dopo sei giorni sarebbe stato il 25 Aprile…la Liberazione.
Gabriello Castellazzi
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