Camillo Sbarbaro è un poeta ligure novecentesco la cui interiorità si dipana attraverso desideri, ricordi, trasalimenti che ammaliano anche Montale, autore di Ossi di Seppia. Abbiamo avuto dei personaggi quali i fratelli Novaro che, con il loro foglio letterario, allegato alle lattine d’olio, hanno tenuto a battesimo poeti quali Ungaretti. Con Angelo Silvio e Mario Novaro, letterati, imprenditori e… socialisti. I fratelli di Diano Marina rappresentano un’unicità nel mondo.
di Gianfranco Barcella
Nel 1925 scrive in <Epigramma>: “Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versi colori carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori. Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi: con il tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia che non si perda ad un ponticello di sassi” .
In un intervista, il premio Nobel genovese racconta che nel primo incontro con il poeta ligure ligure Camillo Sbarbaro, aveva l’idea di trovarsi davanti un uomo folle e irriverente, un provocatore di grande stazza e invece Sbarbaro era piccolo e minuto, addirittura intimidito. Classe 1888 <l’estroso fanciullo>diventa così uno dei fantasmi ispiratori della poesia di Eugenio Montale, alla ricerca di parole ed immagini per raccontare i paesaggi liguri ne<Gli Ossi di Seppia>.
Una sezione della raccolta sarà dedicata al suo Camillin e pure in un devoto epigramma, rivolge una preghiera al tempo affinché i versi dell’amico non andassero dimenticati.
Camillo Sbarbaro esprime il suo essere in modi concisi, spazianti nella concretezza di una quotidianità malinconica che si avvinghia alla casualità degli incontri e delle cose per sentirsi meno solo. E cerca nel contempo di non struggersi nel rimorso di una vita<inutilmente spesa,/come la feccia in fondo al bicchiere“(1). Già la sua giovinezza barbara di Sbarbaro è ubriaca, solitaria, poetica tanto che Eugenio Montale, sempre lui,il più grande poeta italiano del Novecento-lo definisce un autentico spirito poetico, ovvero cacciatore di parole e bellezza. Perduto a metà tra la maledizione di Charles Baudelaire, tanto che c’è chi ancora lo definisce il Baudelaire italiano, e la fuga da tutto di un Giacomo Leopardi in cerca di incisioni poetiche cariche di immagini e fanciullezze disperate, Sbarbaro è un dannato che si acquieta, e il cui stile è necessariamente decadente. Contemporaneo dei crepuscolari, e di quel Sergio Corazzini che ci lascerà troppo presto per asseverarsi alla morte(“Tutta la dolce, rassegnata tristezza della mia vita è in un pensiero di morte”), in realtà Sbarbaro non abbracciò nessun movimento poetico italiano, e del crepuscolarismo fece suo solo il dolce pensiero dell’eterno riposo. (E penso la mia morte/e mi vedo già stesso nella bara/ troppo stretta…).La sua parola, anche dove incarna una liricità pura diviene corposa e trasparente nel contempo. Ora si addensano in essa le
continue oscillazioni dell’io per <aridità e bisogno d’affetto, rassegnazione e ribellione, solitudine e desiderio degli altri voluttà di annullamento e volontà di lottare>(2). Ora si fanno visibili i momenti dell’esistere con meravigliosa genuinità nel poeta del rapporto essenziale con la vita, ora conferisce alla parola un impulso vitale e una vibrazione rivelatrice oltre una certa esteticità dell’immagine. Di certo la poetica di Sbarbaro rappresenta una soluzione innovatrice, di rottura con la tradizione e di recupero verso un’autenticità di stile, colta ieri come oggi. Soprattutto i suoi versi raccolti in Pianissimo influenzarono tutta la poesia del Novecento. In loro, insieme al fantasma onnipresente del padre compaiono immagini furtive di ubriachezza in osteria, di un’umanità fraterna e ritrovata grazie alla complicità del vino.
Lo stesso Ungaretti, il più europeo dei poeti italiani, risente nel momento cruciale della sua formazione, gli studi a Parigi e la Prima Guerra mondiale, di un approccio con Sbarbaro, con quel suo mondo scabro, avaro di effusioni, che ben si attaglia al paesaggio ligure.
E’ una suggestione che echeggia nel profondo non con un rapporto ben definito. Il solo punto di riferimento, storicizzabile e ricco di ipotesi, è Mario Novaro, poeta e mecenate de <La Riviera Ligure> e con lui Giovanni Boine, intento a sondare “L’Italia letteraria e contemporanea, in cerca di sostanza umana, in cerca di uomini e di vita”.(3) Al Novaro, Ungaretti indirizza cartoline postali e lettere dal fronte, parlando di sé con insospettato vigore e chiedendo con insistenza numeri della rivista, copia degli stessi, arretrati, o altri smarriti (4).Si ripetono le richieste quasi viziate da monotonia con riferimenti alla propria persona e qualche bagliore sugli avvenimenti: “Mio caro Signore, se l’ultimo numero della Riviera, dove sarebbero state pubblicate le cose mie, fosse uscito, sarà difficile che ne ricava le copie che m’avrà fatto spedire, perché dal giorno triste fino ad avant’ieri le comunicazioni postali erano state interrotte con noi. In quel caso me ne faccia rispedire qualche altra copia. La ringrazio della sua cortesia e la prego di perdonarmi l’ostinazione della mia vanità, tanto inopportuna in quei momenti”(5) E ancora: “Le ho scritto
precedentemente pregandola di rispedirmi alcuni esemplari della Riviera Ligure dove sono le cose mie”. Ungaretti ancora scrive così: “Caro Signore, rientro al 19° fanteria zona di guerra dove vorrà spedirmi un altro esemplare della Riviera Nov., e in seguito, se vuol farmi un grande favore, i numeri che si pubblicheranno….”(7)Il poeta non demorde: “Ho ricevuto una copia della Riviera; ne riceverei con piacere un’altra (8)Nuovamente il poeta delle< frammentismo, delle schegge di luce> scrive: “Mio Caro Signore, le ho chiesto diverse volte un’altra copia della Riviera, dove c’erano le cose mie, e i numeri successivi…”(9) L’insistenza ha quasi il sapore di una liberazione da un mondo opprimente o di un gesto di riscatto del proprio io, annullato o reso cosa in una trincea; ecco l’annotazione puntuale: “Mio gentile Signore, (…..) è un onore che mi fa accogliendo questi miei tentativi per un’espressione che forse, malgrado tutte le mie torture, non saprò mai sciogliere in pieno godimento di parole tutt’illuminate” (10) Boine con la sua prorompente spiritualità e con quel suo scoperto indagare l’uomo tra le pieghe della pagina, colpisce subito il giovane Ungaretti.
Le preziose veline di Plausi e botte, inserite nella <Riviera Ligure> come modesto supplemento, dove persino la pagina è numerata con un <bis>, lacerano con spregiudicata sincerità vuotaggini e bamboleggianti di poeti e di critici. I suoi giudizi, a tratti eccessivi e svisati forse da un’insofferenza verso Croce, costituiscono come una dimensione definita, un’accettata proposta di scelte per Ungaretti “ch’è semplice soldato”(12) e che va saggiando la vita accoccolato in una trincea. Da Boine proviene di certo lo stimolo ad una lettura sbarbariana, specie per quella nota su Pianissimo:
“Sono colpito in questi frammenti dello Sbarbaro dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire: mi par d’essere innanzi ad una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricordano gli uomini nella loro vita per i millenni”(13).
Fu difficile per Ungaretti ignorare un invito così imperioso! Novaro, Boine, <La Riviera Ligure> rappresentano la terraferma per un incontro senza rapporti concreti ma utile per uno sconfinato scavo poetico. Il nome di Sbarbaro non ricorre specificamente è solo una presenza imperiosa di cui piace tacere, immedesimandosi in silenzio nella sua sofferenza. Tra i meandri nascosti della sua anima, Ungaretti scava <pianissimo> e con lo scalpellino acuminato della poesia ne disquama la solitudine in un’aspettativa di morte-“separata dal resto della terra/ è la mia vita ed io sono solo al mondo”(14). In Sbarbaro la dissoluzione del verso classico si reintegra nella parola di dolore umano, espresso a tessere scomposte, prima su <La Riviera Ligure>, la <Gazzetta di Genova>, <La Voce> e L’Acerba>, poi coagulate quasi a forza, malgrado le riluttanze dell’autore, in due volumetti: Pianissimo del 1914 e Trucioli del 1920. Ungaretti pubblica in una vicinanza di desolata esperienza umana e di consapevole esperienza poetica pubblica <Il porto sepolto>(14) e <Allegria dei naufragi>(17).
La lezione di Sbarbaro è nella sofferenza della parola che deve farsi pensiero, stato d’animo che non decade mai nell’artificio.. “La parola s’insedia da sé nello schema di un verso, impossibile sloggiarla, spezzare quel ritmo gratuito. Un malefizio”(18). E’ una confessione estraniata da un’epoca precisa che non tiene affatto conto del Crepuscolarismo né del Futurismo con i quali sia Sbarbaro che Ungaretti poco si trovano a convivere., pur se impigliati nei loro meandri poetici e in qualche modo Suggestionati(19). Sbarbaro scarnifica impietoso se stesso con un verso smorzato negli arabeschi quotidiani- “Essere la puttana che sussurra”la parola al passante che va oltre!”(20)Egli oppone l’epifania di sé come una parola o un’immagine nata nell’io profondo, e come tale diventa autentica rivelazione, alla parola visiva e rombante dei Futuristi, addensata di velleità ribelli in una girandola i segni esterni. Sbarbaro ridona alla parola una pienezza di verità, una tensione di scoperta tutta umana. A questa si riconduce con avidità e con pena Ungaretti da “il mondo muto delle cose”(21),da “l’infinito buio”(22), da “le miriadi degli esseri
sigillati in se stessi come tombe”(23), egli inizia un viaggio non facile di recupero e di purificazione. Scopre il reale, quello che non lascia spazio a ghirigori fantastici né al cullammento di parole, e contempla sé “chiuso tra cose mortali”(24), simile a una pietra “dura(……..) prosciugata(……)refrattaria(…….) totalmente disanimata”(25), “la sua carcassa usata dal fango come suola”(26) e ogni cosa più incantevole usurata, reietta: “una volta/non sapevo/ ch’è una cosa/qualunque/perfino/la consumazione serale/del cielo”(26) e ogni cosa più incantevole
usurata, reietta:<una volta/ non sapevo/ch’è una cosa/qualunque/perfino/ la consunzione serale del cielo” (27). L‘immersione nel fango della trincea, come già per Sbarbaro nel fango dei vicoli, dissuade dal verso come struttura retorica e tradizionale e dagli stilemi senza forza evocatrice.
La parola di Sbarbaro istituisce un rapporto nuovo con le creature, gli oggetti e l’io stesso: nella sua limpidezza stupefatta o drammatica si stende sempre, in un fluire aritmico e denso, come vincolo tra se stesso e il reale. Sia nella localizzazione descrittiva – “Sosto dai baracconi nelle fiere/a vedere la donna del serpente” (28) sia nella percezione smarrente- “E mi vedo già steso nella bara/troppo stretta fantoccio inanimato”, per dirla con Boine “Non intoppa mai ricercando la bellezza, nel falso, nell’ abbondevole della retorica”(30).
Questo senso della parola che è vita penosamente sofferta, riaffiora genialmente in Ungaretti nella secchezza del Carso a confortare con i versi la sua vita <sul fronte della morte>. E’ un processo già puntualizzato con l’abituale finezza dal De Robertis:”Anche Ungaretti, poeta così assoluto, così essenziale, così incognito, patì del mal del secolo; anche lui quella crisi del verso che prima aveva portato il verso a dorare inutilmente tanta non poesia dell’ultima grande stagione, poi, per reazione, lo portò ad avvilirsi a quasi prosa. Fu dunque, anche lui, prosatore in verso, secondo il gusto dei crepuscolari e degli ironisti: e questo nel solo giro di un anno(anzi di meno di un anno) (…)tra il febbraio e il maggio del ’15″(31) Ed è l’epoca probabile di una lettura sbarbariana, le cui tracce emergono in un susseguirsi di particolari di parole e nel modo soprattutto di trasferire la violenza della sensazione all’oggetto, quasi vitalizzato e fatto partecipe d’una condizione dell’io. Si legga parte di Noia, nella redazione del 1919-; “La litania ai numeri degli usci serrati/ che seguo per accompagnarmi/Anche questa notte passerà//Questa vita in giro/titubante ombra dei fili tramviari /sull’umido asfalto”.(32)- e la si confronti con alcuni tratti sbarbariani: “A queste vie simmetriche e deserte/ a queste case mute sono simile./ Partecipo alla loro indifferenza,/ alla loro immobilità”.(33) E’ evidente la vicinanza del procedimento; una serie di particolari dalla strada di notte per rilevare uno stato d’animo. Più radicato nella sensazione e nell’esperienza personale (“Esco dalla lussuria”), Sbarbaro sottolinea l’opacità dell’essere quasi pietrificato (“fatto di pietra come loro”) e divenuto sordo anche al ricordo dei suoi cari(.…sepolti nella memoria). Ungaretti, invece, utilizza particolari diversi (“filo d’afa”, “occhi d’odalische”, “i faccioni dei brumisti”), e insistiti spazi bianchi per sottolineare una stanchezza esistenziale, momentanea, destinata a dissolversi(“il sonno arriva/così prudente/a portarmi un po’ via”).
Anche il sonno percepito come succedaneo della morte, offre spunto a notazioni non dissimili, ma singolarmente all’uno e all’altro vien meno il particolare immediato e la sensazione, rimasta senza un guizzante appiglio, si contrae in un riflettere generico. Conclude Sbarbaro, dopo un divagare letterario più evocativo che intenso:”Quando si dorme non si sa più nulla” (35). Conclude Ungaretti nel descrivere e ragionare sulla propria malinconia: “In una gita evanescente/come la vita che se ne va/col sonno/ e domani principia/e se incontra la morte/dorme soltanto più a lungo”.
La revisione ultima-“In una gita che se ne va in fumo/col sonno/ e se incontra la morte/ è il dormire più vero” (37) lima vieppiù il dettato, non lo essenzializza, né lo depura da una sentenziosità non scavata. (Del resto le insistite revisioni accertano una insoddisfazione, tipica di chi si sente lontano dalla meta). Più specifica vicinanza e per questo più convincente è fornita dall’immagine dello specchio: l’io vuoto che riproduce senza alterarsi, come appunto uno specchio, figure e oggetti dall’esterno. Più specifica vicinanza e per questo più convincente è formata dall’immagine dello specchio. Dice Sbarbaro con il suo tono friabile e struggente “Io sono come uno specchio rassegnato/ che riflette ogni cosa per la via./ In me stesso non guardo perché nulla/vi troverei”(38). E più incisivamente Ungaretti in Distacco, ed 1943: “Eccomi un’anima/deserta/ uno specchio impassibile/. (39). Ma associata, nella redazione del ’16, ad un
ricordo-visione dell’infanzia (lastra di deserto), l’immagine s’impoverisce di scatto analogico: “uniforme7eccovi una lastra/di deserto. dove il mondo/si specchia”(40). L’angoscia e l’inerzia esistenziali accomunano i due anche il talune soluzioni lessicali: ora è il termine carcassa a rilevare l’idea del dissesto e del naufragio, ora quello di bara a creare il senso di un annullamento o d’una immedesimazione nell’essere universale. Dice Sbarbaro; “Mi lascio accarezzare dalla brezza /illuminare dai fanali, spingere/dalla gente che passa, incuriosito/ come nave senz’ancora né vela/ che abbandona la sua carcassa sull’onde”(41).
Riprende Ungaretti: “In agguato/in queste budelle /di macerie/ ore e ore/ho trascicato /la mia carcassa/ usata dal fango/come una suola/o come un seme/di spinalba/.(43). Lo stilema carcassa spicca nel contesto, fa grumo a sé con vibrazioni profonde, quasi concretizzazione materiale dell’io in un relitto logoro in balia degli elementi. L’aspettazione soltanto è diversa: nell’uno è la consapevolezza d’una condizione immodificabile, senza più desiderio: “Aspetto(…..) che di nuovo/per la vicenda eterna delle cose/la volontà di vivere ritorni” (43). Nell’altro è l’abbattimento per una violenza momentanea, a cui basta un’illusione per fargli coraggio (44). Il sostantivo bara che è in sé evocatore di una irreparabilità senza scampo, accentua in Sbarbaro il rilievo rabbrividente dell’io che sprofonda nel nulla e che finisce inerte e grottesco: “mi stendo lungo come in una bara” (43); “mi vedo già steso nella bara/ troppo stretta fantoccio inanimato” (46)Ungaretti invece sradica dal nome l’impurità nauseante del disfacimento fino alla metamorfosi in qualcosa di lieve, di liberato dal male: “Col mare/mi sono fatto/ una bara/di freschezza/”.(47). Persiste l’utilizzazione della parola come scoperta esistenziale, mentre si divaricano sempre più le istanze conclusive.
Per questo può apparire arbitrario ipotizzare da un termine o da un’immagine reperibili a loro volta in altri poeti, una stimolante lettura o un’assunzione. E’ scontato il riferimento altrove della stessa metafora, dello stesso vocabolo in Baudelaire ad es., ricorre carcassa: “Et le ciel regardait la carcasse superbe” (Une charogne),-, in Corazzini due volte l’immagine dello specchio- “Io fui lo specchio immenso come il mare”(48); “Io sono, oramai rassegnato come uno specchio…” (49) e con insistenza il termine bara: ora in un’accezione di memoriale accorato quanto priva di un brivido esistenziale- “Oh la piccola bara, /ricordo”; (51)”Io vi vidi, tranquilla/in una bara”(52); “parve celato come in una bara/l’orto” (53)- infine per una sensazione di struggimento- “Mi sento /morire egli occhi s’ empiono di bare” (54). Questi riscontri validi in se stessi a storicizzare un uso, non scavano il testo, lo smembrano piuttosto in un materiale grezzo. In realtà , il rapporto Sbarbaro-Ungaretti va ben oltre questi dati, si esplica in profondità lungo una linea di moti esistenziali che coinvolgono gli atteggiamenti dell’io, oggetto e soggetto nello stesso tempo. L’uso reciproco, quasi ad ogni verso, del verbo riflessivo crea illusione d’uno sdoppiamento che consente un ininterrotto dialogo con se stesso. “Camminiamo io e te come sonnambuli” (55). Ungaretti ripete ad ogni istante <mi modulo>< mi sono radicato>,<mi fisso>,<m’illumino>,sempre <attento ai passaggi dell’io, alla partecipazione ai richiami esterni,nei diversi stati d’animo>(56).
Più che agire l’io subisce, prende coscienza dell’azione subita, abbandonandosi alle azioni suscitate (57). Il verso come un insieme sillabico – fonico, evoca la sensazione interiore e l’ineffabilità delle cose (che è puro spettro esistenziale qualche volta per Sbarbaro), si contrae in modulazioni nuove, si frange nei modi più impensati sempre alla ricerca di una corrispondenza profonda, di un legame tra l’io e le cose dell’universo. La parola per questo assume una dimensione totalmente nuova, di rivelazione messaggio autenticità dell’io, oltre qualsiasi modulo tradizionale:si pone, ed è lo sforzo insito dei due poeti, in uno spazio di pura contemplazione esistenziale.
Entrambi sono radicati nell’esplorazione dell’io e dei suoi rapporti con le cose e proprio in questo spazio di attuerà poi la graduale e definitiva divaricazione Sbarbaro rimane abbarbicato ai grovigli dell’io, alla condanna dell’esistere, Ungaretti per quanto ridotto <come una foglia accartocciata>(58) e usato dal tempo <come un fruscio>(59), procede oltre verso un essenziale rapporto con l’universo: “ D’improvviso/ è alto/ sulle macerie/il limpido/ stupore/ dell’immensità” (60).
L’incontro di Ungaretti con Sbarbaro si enuclea pertanto,i una temporanea conduzione e si scolora presto in assunzioni più radicali, a rafforzare i suoi temi costanti e perseguiti un’intera vita.. “….. nell’operazione- sintetizza Leone Piccioni – di portar luce nell’oscurità della <caverna>di veder la <tabula rasa> della mente da graffiature giungere a perenni segni,gli sono venuti in soccorso i suoi poeti, i veri poeti(…) Dante o Jacopone,Petrarca o Leopardi, Racine o Shakespeare, Gongora o Mallarmé, Blake o Rimbaud o Apollinaire”(61).
Tutto questo è vero ed ha la corposità quasi indiscreta del documento o della nota autografa; Sbarbaro al contrario,per la sua scontrosa estraneità , per la sua rassegnata condizione di osservatore solitario non può configurarsi che in uno spessore umano pervicace, simile a quello dei licheni, che con amore raccolse, ma capace di smuovere con sconcertante naturalezza la retorica accumulata da anni ed anni. La sua lezione è racchiusa nel rapporto esistenziale fra l’io e la parola che lo manifesta;il suo sforzo, includere in questa un senso quasi epifanico e ricercare una identità profonda fra verità e poesia nel groviglio di una quasi sconosciuta <interiorità> accompagnatasi a protagonista del nostro esistere.
Ungaretti ripercorre questa stessa condizione,molto demolendo del verso, del ritmo e della punteggiatura, pur di ritrovare nella sua purezza l’interiorità dell’io e poterla esprimere in una dimensione di genuinità. La sua tortura è trovare, come confessò al poeta Novaro, parole <tutt’illuminate> senza giochi verbali adulteranti. Il suo iter va assai oltre la notte sbarbariana. La sua parola, in un susseguirsi d’incontri e di sperimentazioni non sempre immuni dai pericoli d’una eletta letteratura, si dilata più espansa, più luminosa, con vibrazioni che scoprono il brivido dell’immenso e l’ansia non esaurita della creatura verso l’infinito.
Gianfranco Barcella.
NOTE
1) Pianissimo, Firenze, La Voce, 1914ora in Poesie, Milano Scheiwiller 1961
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Queste <oscillazioni< sono stae magistralmente puntualizzate da Gaetano Mariani sin dal 1958 in “Poesia e tecnica nella lirica del Novecento”(Padova, Liviana ed.), ora in n. ed agg. e accr. (Padova, Liviana ed, 1984,pp.129 e 131).
3) Rec Amori ac Silentio e Le Rime sparse di Ade Bonis (Plausi e botte), <La Riviera Ligure<. n.32, agosto 1914, p. 311 bis. Di Plausi e botte manca un’edizione critica: le edizioni successive sono ricalcate su quella vociana <a cura degli amici> (Firenze, 1918). Ottima e con riscontro del testo sulla rivista la recente a cura di Davide Puccini (Milano, Garzanti. 1983)
4)E’ noto che Ungaretti pubblicò alcune poesie su “La Riviera Ligure” ed esattamente sul n.10-11 ottobre- novembre 1917; Giugno (Campolongo Il 5 luglio 1917), Intagli:Nostalgia- Rosa Fiammante (Vallone il 19 Agosto 1917) Convalescenza in gita in legno;La melodia delle gole dell’orco; Tepida vaga mattina(Bulciano il 22 Agosto 1917), Dal viale di Valle (Pieve Santo Stefano il 31 agosto 1917).Le indicazioni sono ricavate dai manoscritti originali di proprietà del <Centro studi di letteratura italiana in Liguria Mario Novaro”.Sull’argomento si veda altresì l’antologia :<La Riviera Ligure> a.c. di E Villa e P.Boero (Treviso, Canova 1975) e gli Indici de <La Riviera Ligure>(1895-1919) a c. di P.Boero (Milano -Scheiwiller 1976)
5) Lettera in zona di guerra,non datata,ma, per il riferimento contenuto, dopo Caporetto: manoscritto originale, di proprietà del <Centro Novaro>, ora in Lettere di G.Ungaretti a M.Novaro, a c.di P.Boero, <Otto/Novecento> ,III (1979),3-4,p.288
6) Cartolina postale senza data,ma ricavabil dal timbro. Posta militare 11° Corpo armata 11-12-17, ms. <Centro Novaro >,ora in a.c. p.288
7) Cartolina postale,s.d. dal timbro: Posta militare 11° Corpo armata11.12-17,ms.-Centro Novaro<, ora in a.c.p. p.288
8)Cartolina postale, s.d. dal timbro: Posta militare 8° Divisione,13-12-17, ms<.Centro
Novaro>, ora in a.c. Pag.289
9) Cartolina postale,s.d, da zona di guerra. Dal timbro: Porto Maurizio, Oneglia, 5-1-1918
ms.<Centro Novaro>,ora in a.c.p.290
10) Lettera non datata, da zona d guerra: anteriore all’autunno 1917, ms. <Centro
Novaro, ora in a.c.p. Pag. 296
11)Cartolina postale, con t.p. Del 13-12-17,cit.
12)Cartolina postale dell’11-12-17,cit
13)G.Boine rec. A Pianissimo (plausi e botte), La Riviera Ligure, n.34 ottobre 1914,p338
bis
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C.Sbarbaro,Pianissimo,in ed. cit., pag.28
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Rispett. Firenze, La Voce 1914, Firenze Vallecchi 1920
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G.U. Il Porto Sepolto, Udine, Stabilimento friulano, 1916
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G.U., Allegria di Naufragi, Firenze Vallecchi, 1919
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C.Sbarbaro, Fuochi fatui, Milano, Scheiwiller, 1958, p.21
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Sintetizza in proposito il De Robertis: <Ridiamo a chi di dovere le ultime due poesiole del 1915. a un anonimo crepuscolare Epifania(<Mughetto fiore piccino>), a Palazzeschi, e a nessun altro, Viareggio(<Viani/sarà bella la pineta>).Sono i due estremi tra cui, stranamente, si divideva e svagava il primo Ungaretti. Dell’ironista poi non rimase più nulla, del crepuscolare, sì, nelle varie stampe, e non oltre la prima edizione dell'<Allegria>. (Sulla formazione della poesia di Ungaretti, studio premesso a Poesie disperse, con l’apparato critico delle varianti, Milano, Mondadori, 1945,pp. 11-12)
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C.Sbarbaro, Pianissimo, in ed. cit. p.63
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Ibid p.29
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Ibid p. 32
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Ibid p. 58
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G.Ungaretti. Dannazione in <Il Porto Sepolto>, ora in <Vita di un uomo>,I:L’Allegria (1914-1919), Milano Mondadori, 1942 p.44 (da cui le citazioni). L’edizione è comprensiva-come è ben noto- de <Il Porto Sepolto e di Allegria di Naufragi>
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Sono una creatura, in Allegria ci, .p.52
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Pellegrinaggio,in L’Allegria cit., p.58
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Monotonia,in L’Allegria, cit p.59
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C. Sbarbaro, Pianissimo,in ed cit
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Ibid, p.65
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G.Boine, rec a Pianissimo.cit.
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Sulla formazione della poesia di U. cit .,p.9
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In Poesie disperse cit, p.48
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Pianissimo,in ed. cit p.30
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Qualche verso a rilevare la stonatura: “Sonno, dolce fratello della Morte./ che della Vita per un po’ ci affranchi (…)/Vieni consolatore degli afflitti./ Abolisci per me lo spazio e il tempo/ e nel nulla dissolvi questo io”. Ibid. p.33
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Ibid. p.33
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Melanconia : 8redazioni del ’16 su <La Diana> di Napoli e de <Il porto sepolto>,La Spezia, Stamperia Apuana, 1923), in Poesie disperse, cit. pp. 86-87.
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Malinconia, in L’ Allegria (1943),cit.
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Pianssimo, ed cit.pp. 54-55.
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in Allegria cit. p.66
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Distacco,in Poesie disperse cit.,pp. 98-99
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Pianissimo, ed. cit. p.45
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Pellegrinaggio, in l’Allegria cit. p.58
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Panissimo, ed .cit. p.45
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Cfr. Pellegrinaggio, in L’Allegria cit., p.58
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Pianissimo,ed cit. p. 55
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Ibid. p.65
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Universo, in L’Allegria cit., p.62
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Rime del cuore morto, in Liriche, Milano,Napoli, Ricciardi, 1959,p.26
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Desolazione del povero poeta sentimentale, in Liriche cit., p.78
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Follie in Liriche cit, p.13
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Ibid pag.17
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Ibid pag.16
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Sonetto della neve, in Liriche cit., pag.50
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Alla serenità, ibid. pag.61
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Pianissimo, ed cit. pag. 25
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J Giutja, Linguaggio di U., Firenze Le Monnier, 1959, p.110
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Ibid p.114
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Dolina notturna in L’Allegria, cit.,p.78
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Ibid.p.78
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Vanità, in L’Allegria cit. p.95
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L.Piccioni,Vita di un poeta.G.U. Milano Rizzoli,1970 pp.241-242