di Luigi Vassallo*
8 settembre 1943: la Patria muore o rinasce?
Il governo Badoglio, col quale il re aveva sostituito Mussolini che aveva fatto arrestare, stipulò l’armistizio con gli anglo-americani il 3 settembre 1943. L’armistizio fu reso pubblico con un annuncio alla radio fatto dal generale Eisenhower l’8 settembre e la notizia colse di sorpresa il re e il governo che, dopo aver rilanciato la comunicazione dell’armistizio via radio, presero la decisione di fuggire a Brindisi all’alba del 9 settembre abbandonando l’esercito italiano, i cui comandi erano all’oscuro dell’armistizio, nelle mani dei tedeschi che si affrettarono ad occupare militarmente l’Italia fino a Roma.
La fuga del re e di Badoglio fu così improvvisa che lo stesso ministro degli esteri, rimasto a Roma, ne fu informato solo nel corso della giornata. Con la fuga del re e l’occupazione militare da parte dei tedeschi l’Italia si trovò divisa in “due Italie”:
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Al sud, occupato dalle truppe anglo-americane, la monarchia sostenuta da una coalizione antifascista (C.L.N.), grazie alla svolta di Salerno con la quale Il Partito Comunista di Togliatti rinviava la questione istituzionale (monarchia o repubblica) a un referendum alla fine della guerra e sottolineava la necessità dell’unità antifascista per sconfiggere i fascisti e i nazisti. Il governo di coalizione fu presieduto prima da Badoglio (a Salerno, aprile 1944) e poi da Bonomi (a Roma, giugno 1944). Il re avrebbe voluto conservare uno stato di neutralità al Paese e solo a fatica si piegò alle pressioni degli anglo-americani autorizzando la dichiarazione di guerra alla Germania il 13 ottobre 1943. A sua volta il governo Badoglio, solo dopo molti sforzi, ottenne dagli alleati il riconoscimento dell’Italia come “cobelligerante” e, quindi, la partecipazione alla guerra, al fianco degli Alleati, dell’esercito regolare italiano, costituito come Corpo italiano di liberazione.
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Al nord, occupato militarmente dai tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana, fondata da Mussolini dopo la sua liberazione da parte dei tedeschi, la quale si richiamava ai principi del nascente movimento fascista ma di fatto era uno strumento nelle mani dei tedeschi.
La Resistenza italiana dal 1943 al 1945 fu un movimento corale e plurale, che non solo fu significativo sul piano militare perché sostenne l’avanzata degli anglo-americani con la sua guerriglia contro i nazi-fascisti, ma segnò la rinnovata partecipazione politica e la riscoperta della democrazia. Nell’ottobre 1944 i partigiani italiani tennero impegnate con le loro azioni da 6 a 8 divisioni tedesche sul totale di 26 che i tedeschi avevano in Italia per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. Tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 morirono nella lotta di liberazione 72.500 italiani e vi furono 39.167 mutilati e invalidi civili; le commissioni repubblicane chiamate a riconoscere l’effettiva partecipazione alla Resistenza assegnarono la qualifica di partigiano combattente a 232.841 persone e quella di patriota (cioè di collaboratore costante e attivo della Resistenza) a 125.714 persone. Certo i partigiani non furono tutti modelli di eroismo, non mancarono tra loro persone dai costumi discutibili, né mancarono quelli che usarono la violenza per vendette personali: del resto la guerra è sempre un esercizio di violenza da una parte e dall’altra. La domanda da porsi è se contro i nazifascisti sarebbe stata possibile ed efficace una resistenza non armata. E l’altra domanda è: cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stata la Resistenza o se a vincere fossero stati i nazifascisti?
La Resistenza fu un movimento corale perché coinvolse:
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I soldati italiani, che, lasciati allo sbando dal governo del re dopo l’8 settembre, rifiutarono in grandissima maggioranza di passare con i tedeschi e difesero sul campo la fedeltà all’onore nazionale molto meglio di un re in fuga.
A Roma il 9 e il 10 settembre 1943 i Granatieri di Sardegna e altri reparti militari rifiutarono di cedere le armi ai tedeschi e diedero vita al primo episodio di lotta armata resistenziale combattendo, appoggiati da civili, nella zona della Magliana e presso Porta San Paolo. I tedeschi presero il controllo di Roma: gli italiani ebbero 597 morti, di cui 414 militari e 183 civili.
A Cefalonia la divisione Acqui, dopo una consultazione democratica tra ufficiali e soldati disposta dal generale Gandin, decide di non arrendersi ai tedeschi e si impegna in scontri armati per più giorni fino alla resa incondizionata di fronte alla superiorità dei tedeschi in armamenti. Migliaia tra soldati e ufficiali muoiono in battaglia, gli ufficiali superstiti (tra cui il generale Gandin) vengono fucilati; i sopravvissuti vengono deportati in Germania ma una parte di essi muore a seguito dell’affondamento della nave sulla quale erano imbarcati. Altri militari raggiunsero i “ribelli” sulle montagne, contribuendo a dare un’organizzazione militare alla spontaneità della guerriglia, o collaborarono con la Resistenza antitedesca in altri Paesi europei nei quali si trovavano nel settembre 1943.
Circa 700.000 soldati italiani rifiutarono di passare con la Repubblica Sociale e furono internati in Germania e costretti a lavorare per le aziende tedesche. Nonostante le durissime condizioni di vita, che provocarono la morte di molti di loro, la maggior parte continuò a rifiutare di passare con Mussolini. Solo una minoranza accettò di aderire alla RSI, ma di questa minoranza diversi, arrivati in Italia, passarono con la Resistenza. I soldati italiani deportati in Germania non erano considerati giuridicamente prigionieri di guerra, perché l’Italia era alleata della Germania e la dichiarazione di guerra alla Germania fu decisa dal governo Badoglio solo nell’ottobre 1943. Così gli internati non avevano diritto alle visite e alla poca assistenza che la Croce Rossa Internazionale poteva dedicare ai prigionieri di guerra.
Carabinieri, che in stragrande maggiorana restano fedeli al re e costituiscono un Comando Cladestino della Resistenza: alcuni di loro finiranno nelle Fosse Ardeatine.
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I singoli (uomini e donne) che salirono sulle montagne a combattere contro i nazisti e i fascisti. Contro si trovarono la repressione fascista organizzata dalle Brigate Nere, dai paracadutisti della Nembo, dalla Legione Muti e dalla X Mas, mentre nelle città operavano bande di torturatori con funzione di polizia, le quali agivano nelle cosiddette “Ville tristi”. Tra i partigiani i più disciplinati, forgiati dalla lunga attività clandestina, erano i comunisti, organizzati nelle Brigate Garibaldi. Meno consistente l’adesione alle Brigate Matteotti dei socialisti, alle brigate di Giustizia e Libertà (anch’esse costituite da elementi fortemente motivati e forgiati dall’attività clandestina), alle brigate cattoliche delle Fiamme Verdi, alle Brigate Mazzini dei repubblicani, alle brigate e alle divisioni dei Gruppi autonomi, guidate da valenti ufficiali. In Friuli e Veneto operarono le Brigate Osoppo che raggruppavano volontari di ispirazione laica, liberale, socialista e cattolica, sotto il comando di ufficiali dell’esercito italiano e di un sacerdote, don Ascanio De Luca, cappellano degli alpini in Montenegro. Queste brigate furono spesso in conflitto con i partigiani comunisti, come testimonia il controverso episodio dell’eccidio di Porzus del 7 febbraio 1945, con l’uccisione di 17 partigiani delle brigate Osoppo. La lotta partigiana fu coordinata dal Comitato di Liberazione Nazionale, nel quale erano confluiti i diversi partiti antifascisti. Fuori dal CLN agirono formazioni minori come le formazioni partigiane anarchiche e Bandiera Rossa che operava a Roma ed ebbe 68 dei suoi componenti fucilati alle Fosse Ardeatine.
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Le donne, che non avevano ancora il diritto di voto e se lo guadagnarono partecipando attivamente e rischiosamente alla Resistenza, come staffette partigiane o come combattenti e ancora curando feriti, procurando cibo e vestiti ai partigiani combattenti, nascondendo militari in fuga dai tedeschi o perseguitati dai nazifascisti.
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Sacerdoti e suore che assistono e nascondono chi si oppone ai nazifascisti.
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Singoli funzionari pubblici o cittadini qualunque che rischiano la vita per proteggere ebrei o partigiani.
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Contadini che sostengono le bande partigiane nel loro territorio, a rischio che le loro cascine siano incendiate e loro stessi messi a morte da parte di nazisti e fascisti.
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I civili che restarono nelle città e nelle campagne e vi organizzarono gruppi di appoggio ai partigiani o realizzarono sabotaggi contro i tedeschi: Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e Squadre di Azione Patriottica (SAP).
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Gli operai che nelle fabbriche seppero difendere le strutture produttive dalla tentazione dei nazisti di fare terra bruciata dietro di sé e seppero salvare gli strumenti per ricostruire economicamente il nostro Paese. Gli operai, che nel 1943 proclamarono al nord uno sciopero di più giorni per rivendicare un aumento dei salari del 100%, l’aumento della razione di pane a 500 grammi e il raddoppio dei generi da minestra, ma diffondendo volantini clandestini con chiare parole d’ordine politico: Basta con la politica di fame, basta col fascismo. Vogliamo pane, pace e libertà. Gli operai, che nel marzo 1944 in tutta l’Italia settentrionale sfidarono con un nuovo sciopero la reazione nazifascista e pagarono duramente la loro lotta con la deportazione in Germania al lavoro coatto a favore delle industrie belliche tedesche.
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Gli intellettuali e i dirigenti antifascisti che contribuirono a un ricco e variegato confronto politico tra idee diverse ma ancorate a un fondamento comune: il radicale ripudio di nazismo e fascismo.
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Città intere che si ribellarono. Come la città di Napoli che non volle più tollerare l’arroganza orgogliosa dell’esercito tedesco e non volle aspettare l’arrivo degli anglo-americani e in quattro giornate (dal 28 settembre al 1° ottobre 1943) costrinse i tedeschi a lasciare la città: donne che affrontarono i camion tedeschi per liberare i maschi appena rastrellati; civili che si improvvisarono combattenti contro i carri armati tedeschi; donne e vecchi che dai balconi rovesciavano ogni cosa sulla testa dei tedeschi; ragazzi fuggiti dal carcere minorile che anziché darsi alla fuga si misero a combattere contro i tedeschi; militari che l’8 settembre se l’erano data a gambe e ora tornavano a riscattare la loro dignità partecipando alla rivolta popolare.
E fu la Resistenza un movimento plurale, nel quale gli storici individuano tracce di guerre diverse e parallele: una guerra di liberazione contro l’occupante tedesco, la quale istituiva in qualche modo una continuità ideale col Risorgimento riscattando il buio del ventennio fascista; una guerra civile tra italiani, perché erano italiani sia gli antifascisti che i fascisti, anche se gli uni combattevano per la libertà e la democrazia e gli altri combattevano per far trionfare l’ordine nazista; una guerra di classe, perché alcuni potevano vedere nella Resistenza la possibilità di una riscossa delle organizzazioni proletarie (schiacciate dalla violenza delle squadre fasciste e messe al bando) contro un padronato che aveva fatto il tifo per il fascismo o gli era stato tollerante pensando di usarlo contro il proletariato.
Ma fu plurale la Resistenza anche e soprattutto per le idee politiche che attraverso di essa ripresero a circolare e a confrontarsi: le vecchie idee liberali; le idee degli azionisti di Giustizia e Libertà (costituitasi nel Partito d’Azione nel 1942) con forte sottolineatura etica; le idee democristiane che volevano coniugare i principi sociali del cristianesimo con una laicità non subalterna a visioni clericali; le idee dei socialisti e dei comunisti, che insistevano sul riscatto dei lavoratori in una società a forte connotazione democratica.; le idee repubblicane; le idee anarchiche e finanche le idee monarchiche contro il fascismo. Fu merito dei dirigenti antifascisti far sì che la coralità e la pluralità della Resistenza non deflagrassero (a parte singoli e marginali episodi) in scontri intestini tra le diverse bande partigiane e che la diversità delle idee e delle opzioni politiche restasse sempre ancorata – anche nei momenti di più aspro confronto – al comune fondamento dell’antifascismo.
Una nuova sovranità
Mentre lo Stato italiano si sfascia, col re e il governo in fuga e l’esercito e i pubblici funzionari abbandonati a se stessi, una parte degli italiani decide di assumere il proprio destino nelle proprie mani e di farsi Stato. La maggior parte di chi sceglie di fare il partigiano (combattente o senza armi, comunque contro i nazifascisti), sono nati o cresciuti sotto il fascismo. Sono stati educati al mito di Credere, Obbedire, Combattere e al mito di Mussolini ha sempre ragione perché è l’uomo della Provvidenza. Non hanno mai sentito parlare di libertà e democrazia.
Ora, all’improvviso, abbandonati dalle autorità, devono scegliere come salvarsi: come sfuggire alla guerra, come evitare di essere arruolati dai tedeschi o dai fascisti della RSI, come smettere di aver paura, come pensare a un futuro di pace. E così, da un giorno all’altro, sono costretti a prendere il proprio destino nelle mani e a diventare “sovrani” al posto del sovrano scappato via. E con altri “sovrani” cominciano a costruire il popolo sovrano che finirà nella Costituzione della Repubblica Italiana.
Questo scoprirsi e farsi “sovrano”, a rischio della propria vita, avviene soprattutto (ma non solo) nelle bande partigiane. Nella banda i singoli si aggregano intorno alla figura di un capo costruendo tra loro e con lui rapporti di solidarietà che li segneranno per tutta la vita, anche quando la guerra sarà finita. La banda decide, discutendo, le azioni di guerriglia e le eventuali punizioni di chi tradisce il codice d’onore partigiano (magari rubando o facendo violenze ai contadini). La banda tiene i rapporti col territorio e, per come può, garantisce al territorio protezione dai nazisti e dai fascisti e ne ricava in cambio appoggio materiale. La banda è espressione concreta di solidarietà: si vive, si soffre, si lotta, si fa la fame INSIEME. Le bande, via via, si aggregano in distaccamenti e brigate, ma l’unità in cui si esercita la nuova sovranità continua a restare la banda.
A leggere le lapidi dei caduti nella guerra partigiana, si scopre che la maggior parte dei partigiani erano giovani. Quei ragazzi si fecero “sovrani” a prezzo della loro vita: oggi, alla loro età, si è appena adolescenti. E ci furono anche partigiani bambini. Di due almeno vogliamo lasciare un ricordo: Gennaro Capuozzo e Ugo Forno, entrambi dodicenni, entrambi piccoli eroi della Resistenza, entrambi medaglia d’oro. Gennaro Capuozzo muore combattendo contro i tedeschi nelle “4 Giornate di Napoli” (1943); Ugo Forno muore a Roma nel tentativo (riuscito) di impedire ai soldati tedeschi, in fuga davanti all’esercito americano, di far saltare il ponte ferroviario sull’Aniene (1944).
Negli anni 1943-1945 in cui una parte degli italiani penava per ricostuire lo Stato sulle macerie lasciate dal fascismo e dalla monarchia, non mancarono, però, indifferenti e opportunisti che nel disordine generale pensarono a tenersi a galla, facendo la borsa nera, barcamenandosi tra partigiani e nazifascisti, tradendo magari per interesse gli uni e gli altri. Anche costoro sarebbero poi stati ammessi, senza né merito né fatica, nel popolo sovrano della nostra Costituzione.
Ma, se dalla tragedia della guerra poté uscire un’Italia repubblicana, fondata, almeno nelle aspirazioni, non sui privilegi ma sull’uguaglianza, lo si deve al movimento corale e plurale della Resistenza, che ebbe una parte modesta sul piano militare (e tuttavia utile a tenere impegnate nella guerriglia le forze tedesche), ma ebbe un significato enorme sul piano della cultura democratica e repubblicana.
Quelli che stavano dall’altra parte
A proposito della Repubblica Sociale Italiana, costituita da Mussolini dopo la sua liberazione nel settembre 1943 per mano di paracadutisti tedeschi, si può discutere se fu solo un fantoccio utilizzato dall’occupazione militare tedesca dell’Italia centro-settentrionale per legittimarsi o fu un tentativo di riscossa consapevolmente, anche se velleitariamente, avviato da Mussolini e dai suoi fedelissimi. Sta di fatto che anche la Repubblica Sociale ebbe i suoi sostenitori, spesso volontari. Tra quelli che aderirono alla RSI i sentimenti erano contrastanti: chi voleva continuare il fascismo come regime e chi invece voleva richiamarsi al fascismo delle origini repubblicano e socialisteggiante; chi esibiva un senso dell’onore che richiedeva la fedeltà all’alleato tedesco e la disponibilità ad affrontare sconfitta e morte pur di non tradire la parola data; chi odiava i traditori e cioè il re, il governo Badoglio, la Chiesa, gli industriali, gli alri ufficiali che non avevano portato alla vittoria il nostro esercito, i gerarchi che avevano abbandonato Mussolini e, soprattutto”, i “banditi” ovvero i partigiani contro i quali questi fascisti scatenarono una feroce guerra civile.
Aderirono alla RSI:
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I funzionari dello Stato italiano abbandonati dal re in fuga, che fecero funzionare l’amministrazione per i tedeschi, anche se alcuni di loro, con gravi rischi personali, cercarono di boicottare le azioni repressive dei tedeschi, in particolare contro gli ebrei.
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Gli idealisti ancora fedeli al duce.
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Quelli che si erano compromessi col regime fascista e temevano le vendette dei futuri vincitori.
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Giovani ventenni allevati nella scuola egemonizzata ideologicamente dal fascismo. Di questi alcuni passarono poi con la Resistenza. Del resto, come una volta ci ha detto uno che da giovane era stato partigiano, trovarsi da una parte o dall’altra spesso era solo frutto del caso. Non mancarono infatti episodi di guerra civile all’interno di una stessa famiglia.
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Una parte minoritaria dei militari italiani internati (IMI).
L’organizzazione militare della RSI era così articolata:
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ENR, Esercito Nazionale Repubblicano, con 248.000 uomini, formalmente apolitico e destinato al combattimento contro gli Alleati anglo-americani.
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GNR, Guardia Nazionale Repubblicana, 150.000 uomini con compiti soprattutto di polizia.
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Brigate Nere, 22.000 uomini e SS Italiane, 20.000 uomini, corpi specializzati nella guerra contro i partigiani, nella repressione dei cittadini che collaboravano con la Resistenza, nella caccia agli ebrei. Queste azioni erano svolte anche da alcune unità speciali dell’Esercito.
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Unità e bande autonome, cosa che ha fatto parlare gli storici di “poliarchia anarchica” nella RSI.
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Circa 6.000 donne, impiegate soprattutto come ausiliarie, ma anche combattenti o come membri di bande irregolari nelle quali parteciparono attivamente alle torture degli antifascisti catturati.
Per quanto riguarda le stragi di civili compiute in Italia sotto l’occupazione tedesca, se ne contano ufficialmente 5.626 con 23.662 persone uccise: di queste stragi il 65% fu compiuto solo dai nazisti, il 21% solo dai fascisti e il 14% da nazisti e fascisti insieme.
La Resistenza, dunque, considerata in tutte le articolazioni di quello che fu un movimento corale e plurale, è uno spartiacque tra due Italie possibili. La Resistenza è fondamento dell’Italia repubblicana e democratica e il suo testamento è depositato nella Costituzione della Repubblica Italiana In questo senso, la Resistenza, al pari del Risorgimento, è un mito fondante dell’Italia di oggi: mito, perché magari abbellisce nel racconto i dettagli (tralasciando che nella realtà gli eroi non sono e non furono tutti liberi e belli), ma fondante, perché conserva in quel racconto un nucleo di valori irrinunciabili, un nucleo di significati, senza i quali il cammino verso la libertà e l’uguaglianza, cammino che è ancora da compiere, non si sarebbe neppure potuto iniziare.
Unità antifascista. Repubblica. Costituzione
Al referendum del 2 giugno 1946 votarono per la prima volta in un’elezione politica in Italia le donne (che avevano partecipato già al voto amministrativo del marzo 1946). La repubblica vinse con 12.718.641 voti contro i 10.718.502 della monarchia. I risultati per l’elezione dell’Assemblea Costituente furono: 207 deputati per la Democrazia Cristiana, 9 per la Democrazia del Lavoro, 104 per il Partito Comunista, 21 per il Partito Liberale, 24 per il Partito Repubblicano, 64 del Partito Socialista, 52 del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, 9 dell’Unione Democratica Nazionale, 32 del Fronte democratico liberale dell’Uomo Qualunque, 10 del Gruppo autonomistico, 24 del Gruppo misto. 21 degli eletti alla Costituente erano donne.
COSTITUZIONE da cum + statuere ossia “decidere insieme”, dove INSIEME si riferisce anzitutto ai soggetti che scrissero la nostra Costituzione: eletti dal popolo, agirono su mandato del popolo, e agirono facendo in modo da far confluire nella Costituzione le tradizioni culturali presenti nel Paese, quella liberale, quella cattolica, quella socialista e comunista, in modo che veramente la Costituzione fosse patrimonio comune. Ma INSIEME significa anche che tutti gli aspetti individuali e sociali della vita dell’uomo e del cittadino, regolamentati dalla Costituzione nei diritti e nei doveri, sono collegati tra loro e fondati sui principi fondamentali scolpiti nei primi 12 articoli. La nostra è una costituzione rigida perché per qualsiasi modifica prevede un complesso iter parlamentare: questo per evitare che essa possa essere sovvertita con legge ordinaria da una qualsiasi maggioranza parlamentare, come il fascismo aveva fatto nei riguardi dello statuto albertino manipolandolo “legalmente” in modo da legittimare con leggi ordinarie il proprio regime.
Come ebbe a dire Piero Calamandrei, la nostra Costituzione, a partire dai suoi principi fondamentali, è una dichiarazione polemica contro il passato ma anche contro il presente. Una dichiarazione polemica contro il passato perché in ogni articolo della Costituzione si sente l’eco della condanna per ciò che il fascismo è stato. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art.3).
E’ il ripudio del fascismo:
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che non riteneva donne e uomini uguali davanti alla legge;
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che aveva deciso per legge l’inferiorità di certe razze e aveva perseguitato gli ebrei;
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che aveva proibito alle minoranze linguistiche l’uso della loro lingua imponendo finanche l’italianizzazione dei cognomi e creando la premessa di feroci rancori e feroci vendette nei territori della Jugoslavia;
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che aveva riconosciuto la supremazia della religione cattolica;
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che non aveva riconosciuto il diritto ad un’idea politica diversa da quella fascista.
Ed è il ripudio di tutte le tentazioni che potrebbero presentarsi oggi o domani di ripristino di situazioni di disuguaglianza o di privilegio davanti alla legge. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art.3, 2° comma). E qui la polemica della Costituzione, nella quale è stato depositato il testamento della Resistenza, si fa denuncia dei ritardi attuali rispetto all’orizzonte di piena democrazia e piena cittadinanza.
Perché la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sono limitate da ostacoli di ordine economico e sociale: Ostacoli come:
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non avere un lavoro;
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pagare con sacrificio le tasse e vedere altri che non le pagano;
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scuole che non sempre forniscono una formazione critica e la capacità di fare scelte consapevoli e responsabili;
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sanità pubblica non sempre adeguata ai bisogni dei più deboli;
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in alcune Regioni la vita dei cittadini pesantemente condizionata dai clan criminali.
Allora è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli e ripristinare condizioni di libertà e di uguaglianza tra i cittadini. E la Repubblica non è solo lo Stato, ma come recita l’art.114 della Costituzione, La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Tutte le istituzioni pubbliche, quindi, hanno il dovere di attualizzare la Costituzione.
Luigi Vassallo (coordinatore di “Costituzione e Democrazia”