Gabriello Chiabrera, una risorsa culturale per Savona che puntualmente non viene valorizzata perché mancano i fondi e soprattutto le idee. Almeno un convegno annuale sarebbe opportuno per ricordare un poeta che ha caratterizzato il nostro ‘600.
LA POESIA MELICA E’ RINATA A SAVONA E… POCHI LO SANNO
La poesia melica, destinata ad essere cantata o recitata da una voce o da un coro con accompagnamento musicale, è l’ aspetto forse più rilevante della produzione poetica dei lirici del Seicento che coltivarono anche la canzone eroica e civile. Fra i letterati del Seicento che cercarono di combattere l’arte barocca, con la poesia melica, imitando anche il Petrarca, il maggiore è stato Gabriello Chiabrera, poeta savonese di tendenze classicheggianti, innamorato <dell’arte pura dei greci antichi.>
di Gianfranco Barcella
Gabriello Chiabrera, savonese di nascita, (nato il 18 Giugno 1552), dalla descrizione che egli stesso diede di sé nella “Vita”, apprendiamo che era di media statura, <di pelo castagno>, affetto da lieve miopia (vedea poco da lunge, ma altri non se n’avvedeva”), frugale nell’alimentazione e poco propenso a perdere ore di sonno (ritratto in perfetto stile oraziano).
Sempre nella “Vita” dichiara di aver avuto come maestri Omero, Virgilio, Dante Alighieri e Ludovico Ariosto, ed ammette di trovare la poesia italiana povera e di aver avuto come massimo obiettivo di arricchirla, come un Galileo Galilei o un Cristoforo Colombo nei loro rispettivi campi d’azione, di nuove strutture ritmiche e musicali. Tali strutture a loro volta, non furono nuove in senso assoluto, ma imitarono i metri antichi, soprattutto greci, cosicché la novità non fu altro che un ritorno al classicismo antico dopo quello moderno del petrarchismo rinascimentale. In sostanza: per rinnovare l’ormai stanco classicismo rinascimentale, il poeta invece che dissacrarlo (come spesso accade nella poesia mariniana), lo sostituisce semplicemente con un altro classicismo: quello antico. Da qui la famosa definizione del Chiabrera come poeta classico – barocco, sperimentatore che attinge nuovamente all’antico.
Lo stesso poeta savonese credeva in questa missione di riformatore. Un anno prima di morire, soddisfatto del proprio operato, così scriveva all’amico Pier Giuseppe Giustiniani: “…Io ebbi animo di dar alla lingua poemi ch’ella non avesse, chiamando la gioventù all’antico Parnaso” L’esistenza di Chiabrera fu quella <di un comune cittadino>,sostanzialmente priva di fatti eclatanti ma vivace e ricca di soddisfazioni e onori letterari. Così almeno deduciamo ancora leggendo la <Vita di Gabriello Chiabrera scritta da lui medesimo>, un breve consuntivo, steso in terza persona, il cui tono è auto commemorativo ed eroico, anche se lo stile è percorso da un ritmo malinconico.
Il poeta ultraottantenne vi sintetizza ancora gli anni turbolenti della sua gioventù, segnati da vari trasferimenti a causa di lutti familiari e sfociati in una serena vecchiaia. E’ vivissimo inoltre il ricordo della Roma tardo-umanistica, splendida ed irriverente che lo ospitò giovanissimo. Soggiornò presso uno zio che provvide alla sua educazioni, facendogli frequentare la scuola dei Gesuiti.
A Roma restò sino al 1572 quando morto lo zio, e spentasi la sua vocazione religiosa, si pose al servizio del Cardinale Cornaro. Sposò poi, nel 1602, una cugina di sedici anni, ebbe incarichi civili di modesta importanza ma soprattutto, si dedicò alla sua produzione letteraria, che<nell’esilio ligure fu assai nutrita>. Dopo aver effettuato alcuni viaggi per l’Italia ritornò spesso a Roma.
Nel 1632 si ritirò definitivamente nella sua città dove, sei anni dopo, morì. Lodato ed ammirato dai contemporanei, questo poeta <dalle passioni tranquille>, piacque anche a Ugo Foscolo, che vide in lui “uno dei due felici ingegni che scansarono l’universale barbarie quando dopo la morte del Tasso, i costumi e la letteratura spagnuola inondarono tutta l’Italia, sì per l’ingegno prepotente del Marini, il quale cercandosi novella via, traviò e tirò seco gli altri a smarrirsi”. Lo stesso Chiabrera credeva in questa missione di riformatore.
Un anno prima di morire, soddisfatto del proprio operato, così scriveva all’amico Pier Giuseppe Giustiniani. “…Io ebbi animo di dare alla lingua poemi ch’ella non avesse, chiamando la gioventù all’antico Parnaso, e farmi originatore, se non in tutto, in gran parte, di versi, di parole, di testure; et in ciò non ho perdonato a me stesso, et in alcuna parte parmi di non aver perduto il sudore e parmi che l’altezza e la bravura della poesia non sia rimasta fuori de’ miei componimenti”. La riforma del Chiabrera consisteva nel tentativo di modellare metricamente le composizioni sulle odi di Pindaro, una restaurazione del classicismo in opposizione al marinismo dilagante.
Ma la sua poesia appare più viva nelle canzonette così dette <anacreontiche> perché si richiamavano ai componimenti scoperti dall’umanista Enrico Stefano nel 1554 ed erroneamente attribuiti ad Anacreonte. Per il Chiabrera il suono e il ritmo contano più dell’originalità dell’immagine: “Belle rose porporine/ che tra spine/ su l’aurora non aprite, /ma, ministre degli Amori,/bei tesori/ di bei denti custodire”, scrive nel “Riso di bella donna”. Nella poesia del Chiabrera si distinguono due momenti: la tendenza civile, di ispirazione pindarica, a quella melica, cioè delle canzonette, un0’arte questa, ambigua e labile, che sta tra la parola e il suono e che guiderà più avanti, il Metastasio.
Chiabrera appartiene dunque a quella schiera di autori che tentarono di opporsi al marinismo, rivolgendosi in particolare al mondo classico come fonte di ispirazione, a Pindaro e ad Orazio, in primis. Ma delle loro composizioni, tese a rinnovare il mondo della poesia, ricorrendo a motivi degli antichi, poche hanno superato il giudizio dei tempi. Anche del Chiabrera sono cadute nella dimenticanza le odi pindariche, per le quali fu famoso nella sua epoca. Se oggi è ancora ricordato (non nella sua terra d’origine), lo si deve ad alcune canzonette amorose, le quali, pur riflettendo il difetto maggiore del marinismo, cioè la scarsezza del sentimento più ispirato e delle note umane più vive, hanno un valore dal punto di vista storico-letterario. Infatti danno l’avvio ad una poesia che si svilupperà particolarmente nella seconda metà del Seicento e sfocerà nella poesia degli Arcadi del Settecento: una produzione lirica in cui le parole si risolvono in un puro suono, in una tessitura musicale dal ritmo agile che ben poco esprime del sentimento insito nell’argomento trattato.
Gianfranco Barcella