Non sia mai che scada il 2019 senza che “Trucioli” abbia minimamente ricordato quell’idillio leopardiano che tutti gli Italiani conoscono, hanno studiato e va sotto il titolo di “Infinito”, scritto con ogni probabilità proprio nella primavera del 1819, ben duecento anni fa, ma che ancor oggi splende vivissimo e di luce propria.
Sorvolo sul dottissimo Leopardi “traduttore” (dall’intensa e voraginosa attività, per usare un termine caro a quell’Ungaretti che lo predilesse) e passo invece a dire di Leopardi “tradotto”, limitandomi (ma non vuol certo essere un omaggio alla Brexit!) all’ambito di lingua inglese, pur consapevole che fuori d’Italia è davvero notevole la fortuna che il nostro Giacomino ha incontrato: sue edizioni complete sono apparse, ad esempio, in Francia e in Germania, in Ispagna e in Polonia, in Russia e in Ungheria per citare solo alcuni paesi.
Relativamente all’àmbito inglese il “leopardista” più agguerrito e informato è stato Ghan Shyan Singh (1929-2009), già docente presso la University of Kentucky (ove nel 1964 pubblicò Leopardi and the Theory of Poetry) e passato in seguito alla Queen’s University di Belfast. Presente ai numerosi convegni promossi dal “Centro Nazionale di Studi Leopardiani” di Recanati, Singh è stato lo studioso di lingua inglese che più e meglio ha affrontato la problematica traduttiva riguardante Leopardi, nonché la presenza del recanatese nella cultura inglese e americana. Oltre il testo già citato, vale la pena di ricordare le altre sue opere: Leopardi e l’Inghilterra (Le Monnier, Firenze 1968); Canti di Giacomo Leopardi nelle traduzioni inglesi (con prefazione di Mario Luzi e presentazione di Franco Foschi; Transeuropa, Ancona 1990); L’Infinito, A Silvia, A se stesso (in inglese; Il lavoro editoriale, Ancona 1990) e Leopardi
e i poeti inglesi (Transeuropa, Ancona 1991).
Se i traduttori inglesi e americani di Dante e di Petrarca sono più numerosi, non mancano tra loro quelli che hanno tradotto Leopardi. Personalmente, non so se bene o male, mi sono cimentato in tre fatiche del genere: L’Infinito (vv. 15), La ginestra (vv. 317), Alla sua donna (vv. 55), delle quali, a favore dei lettori di Trucioli, è qui riprodotta, in chiusura, soltanto la prima trasmessa e depositata anche al sopra citato “Centro Nazionale di Studi Leopardiani” di Recanati. Certo si può dire con Singh che la fortuna di Leopardi in Inghilterra non è legata al numero di traduttori, ma alla qualità e all’importanza di essi.
Tra i poeti, i critici e gli studiosi che si sono accostati a Leopardi ne ricorderò solo alcuni: da Matthew Arnold ad Algernon C. Swinburne, da Thomas Hardy a Christina G. Rossetti, da Ezra W. L. Pound (che di Leopardi tradusse anche un’unica poesia, “Sopra il ritratto di una bella donna”, inserendola nelle sue Canzoni, 1911) a G. L. Bickersteth e J. H. Whitfield che citerò ancora. Secondo lo specialista Singh la prima traduzione in assoluto di Leopardi è dovuta all’arcidiacono Francis Wrangham, amico dei poeti Wordsworth e Tennyson, che pubblicò la traduzione di All’Italia sulla rivista Winter’s Wreath a Liverpool nel 1832; da allora svariati traduttori inglesi e americani hanno affrontato le difficoltà, spesso insormontabili (da Sisifo, dicevo all’inizio), del linguaggio poetico di Leopardi.
Ne passo brevemente in rassegna alcuni, tra i più significativi e che hanno affrontato la traduzione di tutti i Canti o almeno di un numero significativo di composizioni leopardiane. Nel 1887 l’americano Frederick Townsend pubblica, in contemporanea a New York e a Londra, The Poems of Giacomo Leopardi. Essendo anch’egli poeta, Townsend, pur prendendosi talune libertà, cerca di tenersi vicino sia al linguaggio sia alla musicalità di Leopardi. Col medesimo titolo, The Poems of Giacomo Leopardi, il poeta e studioso di letteratura classica e moderna Francis Henry Cliffe pubblica le sue traduzioni nel 1893 e, da studioso qual è, unisce ad esse un commento e un saggio sulla vita di Leopardi. Data l’oggettiva difficoltà di affrontare Leopardi in traduzione, anche Cliffe non è immune da pecche; il suo libro, però, ottiene successo e, con l’aggiunta di sette poesie, nel 1903 viene pubblicata la seconda edizione.
Nel 1900, frattanto, vede la luce l’edizione completa – è la terza – di tutti i Canti. L’autore è J. M. Morrison, il quale, nella sua prefazione, asserisce di voler fornire “non semplici parafrasi, ma traduzioni fedeli, non servili”. Quattro anni dopo, nel 1904, appaiono le traduzioni dei Poems of Giacomo Leopardi a cura di Sir Theodore Martin. Sia pure rilevando qualche punto male interpretato, Singh approva la sua traduzione dell’Infinito definendola “bella e fedele“. Nel 1923, per i tipi della Cambridge University Press e a cura di G. L. Bickersteth, che Sing considera uno dei più insigni studiosi del poeta recanatese, esce la traduzione di tutti i Canti di Leopardi.
Nella sua prefazione Bickersteth espone i criteri seguiti e dichiara che, “se la lingua inglese fosse per natura musicale quanto quella italiana”, certe libertà non se le sarebbe prese. Accademico e accurato, preciso e colto, il linguaggio di Bickersteth, secondo l’appropriata osservazione di Singh, pare non risentire affatto delle rivoluzioni in poesia di poeti della forza di un Ezra Pound o di un T. S. Eliot. In tempi a noi più vicini, nel 1962, a cura di un valido studioso e critico di Leopardi, J. H. Whitfield, appare un’altra traduzione completa dei Canti. Anch’egli, come Bickersteth, ricerca la fedeltà, ma con un linguaggio un po’ meno accademico e più moderno. Il traduttore che Singh pare maggiormente apprezzare e che nelle sue traduzioni cerca di creare “qualcosa che sia poesia inglese in sé” è R. C. Trevelyan.
Nella prefazione ai quattordici Canti di Leopardi Trevelyan sostiene fra l’altro che qualunque sforzo un traduttore voglia affrontare o qualunque linea voglia seguire, anche se è in grado di tenersi vicino all’originale e sa ad esso essere fedele, nel tradurre poesia “molto deve per forza essere perso”. Chi non è fedele affatto, tante sono le libertà che si prende, è il poeta Robert Lowell: più che traduzioni egli ci fornisce “imitazioni”, ma troppo libere e lontane dall’originale per meritare la poundiana definizione di Imitations, capaci cioè di cogliere l’essenzialità tanto per contenuto quanto per forma. E concludo con una curiosità: se la poesia meno tradotta è Palinodia, quella più tradotta è L’Infinito (il testo poetico che secondo Renato Dellepiane, saggista e storico della letteratura italiana, ha subìto più analisi e indagini da parte dei critici e dei linguisti), seguìta da A se stesso e A Silvia.
Ebbene tra i traduttori dell’Infinito – e molti li ho taciuti – vi è anche quella Irma Brandeis, alla quale il nostro Montale s’era rivolto per andare in America e alla quale aveva voluto dedicare Le occasioni. D’altra parte è innegabile il fascino perenne d’un testo lirico quale L’Infinito di cui un critico quale Elio Gioanola in Leopardi, la malinconia (Jaca Book, Milano 1995) ha fornito la definizione più esaustiva definendolo “modello archetipico della grande poesia leopardiana e modello insuperato di tutta la lirica nuova”; definizione completata dalle parole dello studioso Luigi Garbato e del filosofo Carlo Angelino che hanno precisato essere la composizione leopardiana “sintesi (quasi) perfetta di poesia e pensiero”. In occasione del bicentenario dell’Infinito (1819-2019), come omaggio (chi sa mai se da lui gradito!) a Leopardi, “il grande fratello romantico di Schopenhauer”, per finire riporto la mia versione in inglese del famosissimo testo leopardiano.
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando; e mi sovvien l’eterno,
e le morti stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
The Infinite
Ever dear was to me this lonely hillock,
And this hedge too, that from so large a share
Of far-off horizon the look shuts and leaves out
But sitting there and there staring, boundless
Spaces beyond that hedge, and superhuman
Silences, and deep, very profound quietness
I try to fancy with my imagination;
So that my heart is nearly getting frightened.
And as the wind I hear in these trees rustling,
That endless silence to this whispering voice
I am comparing; and everlasting time
Occurs to me, and slack seasons and present age
And signs of today’s life. So in this vastness
Of time and space and soul my thought’s dismay’d
And is my wrecking sweetest in this mindtide.
Benito Poggio