Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Libro e intervista / Io, tu, noi, gli altri
Più importante la ricchezza o la felicità?


Fabrizio Bellaviata ! Mi verrebbe da definirti un postmoderno guru dell’informatica, ma in effetti mi pare definizione sminuente date le tue competenze e attitudini in ambito socio-economico in senso lato, e la tua spiccata sensibilità artistico-umanistica. Come ti presenteresti a chi ci legge?  Una persona in ricerca continua e che non è mai soddisfatta: più sai meno sai di sapere! 

In un recente incontro a Milano hai parlato, tra l’altro, di “ultracorpi”. Fantascienza? L’anima è più grande del corpo? 

La sfida lanciata dall’innovazione è un uomo ‘aumentato” (ultracorpo): lo è attraverso device (smartphone, auricolari wi-fi, smartwatch e molto altro) unitamente ad una serie nutrita di sensori indossabili, ma anche attraverso protesi (vedi l’atleta Oscar Pistorius, che, per esempio, oltre ad essere pluricampione paralimpico, grazie a particolari protesi in fibra di carbonio, denominate cheetah, è riuscito a vincere una medaglia in una competizione iridata per normodotati). L’intelligenza artificiale è un’ulteriore zona aumentata (esterna) del corpo naturale umano: non dimentichiamoci che è stato l’uomo a concepirla!

Di fronte a questo incredibile mutamento tecno-antropologico abbiamo una fantastica occasione per approfondire certi aspetti dell’umano: per esempio la sua “matrice” profonda che secondo l’appartenenza religiosa o le diverse culture, viene definita “spiritualità”, “anima”, “spirito”. Ebbene, di fronte a parti del corpo replicabili (con discreti risultati, tanto che una parte del fare e del progettare umano viene fatta meglio e più velocemente da una I.A.) resta insoluta la parte più importante, una parte a cui la scienza certamente non riuscirà mai a dare una risposta: qual è la vera e profonda essenza – quella parte unica e non replicabile – dell’uomo? Se ci troviamo a discutere finalmente delle cose importanti della vita, dobbiamo dire grazie anche alla IA! 

Il futuro è il “privato sociale”? 

Dici bene quando usi un ossimoro (“privato sociale): in questa parte del nostro III millennio stiamo scoprendo modi diversi di usare l’impianto cognitivo di cui siamo dotati e, avendo studiato il modo di pensare degli orientali ho notato come sia molto naturale per loro conciliare quelli che a noi sembrano inaccettabili “lontananze”: c’è un detto cinese che afferma: “Chi ti fa lo sgambetto è lo stesso che ti farà rialzare”, un aneddoto molto lontano dalla nostra concezione ma che spiega bene il pensare fluido degli orientali in cui le contraddizioni spesso non esistono. Dunque “privato sociale”? Sì, si tratta proprio di questo: la sfera “privata” diventa sociale e viceversa: è un grande impegno che coinvolge tutti, dalle aziende al singolo cittadino… viviamo immersi in un’unica realtà, il globo terrestre è un dono meraviglioso a cui dobbiamo offrire la massima attenzione tutti insieme. 

Da qualche parte hai scritto che per costruire la felicità bisogna calarsi negli abissi. Che intendi?

È molto semplice: nel nostro quotidiano viviamo tutti in un equilibrio molto incerto ma se non guardi dentro te stesso, se non prendi coscienza della tua essenza profonda e degli abissi che tutti gli uomini contengono, sarà molto difficile avere accesso alla felicità, seppur minima. 

Tecnica dell’umanesimo o umanesimo della tecnica? 

Al centro dello sviluppo odierno c’è, basilare, il concetto della tecno-creatività, che connette l’emisfero cerebrale tecnologico con l’altro creativo-umanista: questo approccio è l’unico che fa “tornare i conti” veramente. Il tecnocreativo è il creativo di oggi, è colui che sintetizza l’anima tecnologica insieme ad una creativa e umanistica e che ha una forte predisposizione verso la “contaminazione culturale”. Un esempio conosciuto nel mondo di un uomo che usava molto bene entrambi gli emisferi cerebrali? Leonardo da Vinci. Chiudo con una citazione tratta da “NOVA IlSole24Ore”: “L’istruzione del futuro ha bisogno di un intreccio del sapere tecnico-scientifico con il sapere umanistico: questi apprendimenti vanno messi in gioco a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’università. Il punto delicato è dare un senso preciso a una tale scelta, indirizzata a modificare una tradizione formativa divenuta ormai inadeguata. L’attuale generazione di docenti deve far propria questa sfida, predisponendosi a intrecci conoscitivi e formativi inediti, che risultino disponibili verso ipotesi di costruzione di competenze nuove adeguate alle necessità di un avvenire che sta diventando sempre più il nostro oggi”. 

Economia partecipativa, economia della condivisione: quali nessi con la democrazia e con la giustizia sociale? 

Per risponderti vorrei riandare al 1700 perché In Italia abbiamo una specie di fil rouge che ci prospetta una economia diversa, più attenta al sociale che deriva dalla storia del nostro pensiero economico: a partire dalla Scuola Napoletana dell’economia civile e dall’esperienza della Scuola Milanese, entrambe del ‘700, passando attraverso l’esperienza delle aziende cooperative, sino a giungere all’economia della condivisione dei nostri giorni. L’economia viene generalmente fatta risalire all’approccio anglosassone, in particolare di Adam Smith. Il suo pensiero è stato sintetizzato ponendo alla base di tutto il discorso economico, l’egoismo e l’individualismo (questo secondo aspetto è in realtà una deriva nata più tardi, con la teoria di Jeremy Bentham). Smith sosteneva infatti che in economia il soddisfacimento non deriva dall’altruismo ma dalla convenienza, che consente all’economia di convergere verso lo sviluppo”.

E qui lascio la parola a Gaetano Fausto Esposito autore insieme a me del libro “Io, tu, NOI, gli altri”:La teoria di Smith è divenuta la cultura dominante in ambito economico, sebbene, venti anni prima di lui, vi erano stati una serie di autori, tra cui Antonio Genovesi (filosofo e titolare della prima cattedra di economia al mondo) che avevano teorizzato una visione diversa. Genovesi pensava che al fondamento dell’economia non vi fosse l’egoismo e dunque l’individualismo ma la relazionalità; sottolineava infatti che l’obiettivo non è tanto la ricchezza delle nazioni (quella che Smith poneva a fondamento della sua teoria) ma la felicità”. Esposito ha anche affermato che “il triangolo del capitalismo tradizionale era basato sulla proprietà, sulla finanza e sulla limitazione delle responsabilità e questo triangolo è alla fine deragliato. Il pensiero di Genovesi immaginava invece una ricchezza non soltanto economica ma anche sociale”. È evidente come questa visione, a differenza di quella anglo-sassone, possa aprire un dibattito molto ricco di consegue positive riguardo la democrazia e la giustizia sociale. 

Cosa c’entra Olivetti col ‘68?  

La cultura olivettiana aveva una semplice ricetta che non è certo nuova nella cultura italiana: senso imprenditoriale spiccato, attenzione al sociale, contaminazione con la comunità creativa, ecco il miracolo nato ad Ivrea! Faccio un esempio della contaminazione che Olivetti favorì attorno agli anni ’60: tra i grandi designer coinvolti nel suo progetto spicca la figura di Ettore Sottsass che con i suoi innumerevoli linguaggi – dalla ceramica al vetro, dal design all’architettura – ma anche con i collegamenti con la beat poetry USA, rappresenta perfettamente la figura del “creativo completo” (non dimentichiamoci che fu anche marito di Fernanda Pivano) di quegli anni irripetibili. Riguardo l’esperienza di Olivetti vorrei ricordare che lo scorso anno Ivrea è stata insignita come “città industriale del XX secolo” diventando Patrimonio Mondiale UNESCO.

Gianluca Valpondi

 


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