All’epoca di Plinio, pesci ed alghe nel Mediterraneo non esistevano, il Mar Ligure era un mare “pulito”, tutto al più c’era qualche nave affondata con il suo carico di anfore [porta container]; la fauna ittica esotica rimaneva confinata fuori dal mondo sino allora conosciuto; non c’era inquinamento tipo “Haven”, al massimo il mare Nostrum era punto di ricaduta di ceneri e lapilli vulcanici; non c’erano navi di vario genere ovvero c’erano si navi ma solo con propulsione umana.
La Naturalis historia (Storia naturale, dal latino, propriamente “Osservazione della natura”) è un trattato naturalistico in forma enciclopedica scritta da Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.). La fonte principale di Plinio è Marco Terenzio Varrone. Nei libri geografici, Varrone è confrontato e complementato con i commenti topografici di Agrippa che furono completati dall’imperatore Cesare Augusto. Per la zoologia si basa in gran parte su Aristotele e Giuba II, l’erudito re di Mauretania, studiorum claritate memorabilior quam regno (v. 16). Giuba è inoltre la sua principale guida in botanica, e anche Teofrasto è nominato negli indici. Comprende la botanica nei libri XII – XIII – XXII; zoologia animali marini e insetti nei libri IX e XI. Nel trattato sulle alghe verdi “Ulvophyceae”, Plinio descrive l’alga Caulerpa cylindracea, riscoperta poi nel 1873 , un’alga verde della famiglia Caulerpaceae.
LA MICROALGA – L’Ostreopsis ovata è una microalga che appartiene alla famiglia delle Ostreopsidaceae. È un nemico invisibile, subdolo e pericoloso, individuata in diverse zone del Mediterraneo a partire dalla fine degli anni novanta, rinvenuto per la prima volta nelle acque italiane (Lazio) nel 1994; ma da più di un decennio torna periodicamente a colpire le nostre coste. La Ostreopsis ovata, è una micro-alga tossica che con le sue “fioriture” causa ingenti danni agli ecosistemi marini e provoca fastidiose intossicazioni per gli esseri umani. E’ praticamente invisibile a occhio nudo: le sue dimensioni variano fra i 27 e i 35 micrometri (μm) in larghezza e fra i 47 e i 55 μm in lunghezza (1 μm= 1 millesimo di millimetro), ma diventa visibile quando fiorisce. Vive nei primi metri vicini alla riva, in acque poco profonde, ancorata alle macroalghe che popolano comunemente le scogliere e i fondali rocciosi, prediligendo le acque calme, calde e ben illuminate.
I FONDALI – Schiuma e materiale gelatinoso in superficie, una pellicola scura che riveste il fondale. È in questi casi, ovviamente, che iniziano i problemi. Trattandosi di un organismo bentonico, l’alga si deposita sui fondali, dove in caso di intense fioriture esaurisce l’ossigeno disponibile causando gravi danni a tutti gli organismi che vi abitano. In particolare, risulta dannosa per ricci di mare e stelle marine, che perdono rapidamente aculei e braccia prima del decesso, e per mitili, patelle e altre conchiglie che vivono attaccate alle rocce, che in presenza dell’alga tendono a staccarsi dagli scogli e quindi morire. In queste condizioni, inoltre, l’alga diventa un pericolo anche per la salute umana.
La prima osservazione descritta è quella relativa a Villefranche-sur Mer alla fine degli anni ’70 (Taylor, 1979). Altre segnalazioni nel Mediterraneo riguardano la costa libanese, francese e spagnola e le isole Baleari, in cui sono stati riscontrati casi di intossicazione umana. Inoltre, la microalga è stata ritrovata nel Nord Egeo ed evidenziata la contaminazione di molluschi da tossine di Ostreopsis sp. (Aligizaky e Nikolaidis, 2006). Le fioriture bentoniche appaiono macroscopicamente, in molti casi, sotto forma di strati mucillaginosi o biofilm, di colore bruno-rossastro, a ricoprire diffusamente fondi e substrati duri. È possibile osservare anche lo sviluppo di schiume di colore beige-marrone-rossastre, più frequentemente in superficie, nonché opalescenza diffusa con conseguente riduzione della trasparenza e presenza di fiocchi sospesi nella colonna d’acqua.
LE FIORITURE BETONICHE – In Italia, fioriture bentoniche estive e ricorrenti di Ostreopsis ovata, spesso in associazione ad altri dinoflagellati potenzialmente tossici come Amphidinium cfr. carterae, Coolia monotis e Prorocentrum lima, si sono verificate in sistemi ad alto e basso idrodinamismo, su substrati di varia natura, in numerose località del mar Ligure, del Tirreno, dello Ionio e dell’Adriatico, con effetti tossici sull’uomo e su organismi bentonici (molluschi ed echinodermi), associati alla produzione di tossine appartenenti al gruppo delle palitossine (palitossina e ovatossina). Sulla base degli studi genetici effettuati finora è stata accertata l’esistenza di un genotipo di O. ovata italiano e mediterraneo con bassa variabilità genetica, ben distinto da quello asiatico, ma uniforme rispetto al genotipo presente nell’Atlantico. Inoltre, si è riscontrata la presenza di Ostreopsis cfr. siamensis nel Mediterraneo e in Italia. A oggi l’Ostreopsis ovata è stata segnalata in tutte le regioni costiere italiane, a eccezione di Emilia-Romagna, Molise e Veneto, dato confermato anche dai risultati del monitoraggio 2010 che ha evidenziato, inoltre, l’assenza della macroalga anche in Abruzzo
AERSOL MARINO – La Ostreopsis ovata, è generalmente conosciuta come alga tossica, con caratteristiche in qualche modo simili alla palitossina tossina marina ben conosciuta e molto potente. Proprio a causa della tossicità vengono periodicamente monitorate le concentrazioni di questa alga assieme alle specie Prorocentrum lima e Coolia monotis. Aassieme alle specie Prorocentrum lima e Coolia monotis. Ostreopsis ovata produce una tossina ancora senza nome, che può danneggiare l’organismo umano in due modi. Il più comune è l’inalazione di aerosol marino [microscopiche goccioline di acque di mare], che può avvenire anche a una certa distanza dalle acque in caso di mareggiate e forti venti. In queste condizioni la fioritura dell’alga può causare un’intossicazione i cui sintomi indirizzano verso un meccanismo irritativo aspecifico sulle mucose respiratorie e congiuntivali, con conseguente irritazione congiuntivale, rinorrea [raffreddore], difficoltà respiratorie [tosse, respiro sibilante, broncospasmo con moderata dispnea] e febbre. Durante le mareggiate, che favoriscono la formazione di aerosol marino capace di diffonderla nell’aria, la concentrazione di tossine è elevato ed il rischio per i bagnanti può aumentare.
MOLLUSCHI CONTAMINATI – La seconda via in cui l’alga può colpire gli esseri umani è attraverso ingestione di molluschi contaminati. Per questi organismi infatti la tossina non risulta dannosa di per sé, gli animali marini sono danneggiati dalla mancanza di ossigeno in caso di fioriture dell’alga tossica, ma tende comunque ad accumularsi all’interno del loro organismo. E se li si consuma, anche cotti, provoca un’intossicazione alimentare [o ciguatera] con sintomi classici, come nausea e diarrea. La ciguatera è una intossicazione alimentare causata dall’ingestione di alimenti di origine marina contaminati da una tossina, di origine non batterica, nota come ciguatossina, presente in molti microrganismi (in particolare il dinoflagellato Gambierdiscus toxicus). La sindrome è associata al consumo di pesci provenienti da mari tropicali o subtropicali. Nella maggioranza dei casi i pesci nocivi all’uomo sono grandi predatori all’apice della catena trofica, dove la tossina si può concentrare per un fenomeno di biomagnificazione, come barracuda, cernie e lutianidi. Seppur rari si sono riscontrati casi di questa intossicazione anche in seguito al consumo di pesci provenienti dal mar Mediterraneo.
I tratti di costa alta, le spiagge aperte, quelle sabbiose, i tratti interessati da correnti non costituiscono l’habitat dell’Ostreopsis. L’Adriatico nord-occidentale rappresenta un caso unico in tutto il bacino del Mediterraneo a causa delle imponenti fioriture algali che si possono verificare in quest’area. L’intensità di queste fioriture e i valori di concentrazione di clorofilla e di biomassa fitoplanctonica, che vengono rilevati in alcuni periodi e in alcune situazioni ambientali, non hanno eguali in nessuna altra parte del Mediterraneo . Circa il fenomeno delle fioriture tossiche e nello specifico per ciò che concerne l’O. ovata sembra che, analogamente ad altri dinoflagellati, nei periodi in cui non è rilevata nelle acque (inverno-inizio primavera) possa sopravvivere nei sedimenti sotto forma di cisti (stadi non mobili). Dalle indagini di campo effettuate, è stato possibile verificare che le fioriture bentoniche di Ostreopsis ovata si manifestano quasi esclusivamente durante la stagione estiva e autunnale (inizio di ottobre); in particolare, lungo il litorale tirrenico le abbondanze massime si registrano in piena estate, mentre lungo le coste del medio Adriatico nei mesi di settembre e ottobre, lasciando supporre una diversa risposta ecofisiologica delle popolazioni coinvolte.
IL MEDITERRANEO INVASO – Condizioni che sembrano favorire l’instaurarsi e il mantenimento delle fioriture sono: bassa profondità dell’acqua, presenza di substrati rocciosi e/o macroalghe, scarso idrodinamismo dovuto alla morfologia naturale della costa o alla presenza di pennelli e barriere artificiali per il contenimento dell’erosione costiera, condizioni meteo-marine di grande stabilità, temperature delle acque superiori a 25°C nel mar Ligure e Tirreno e tra i 20 e i 23°C nel mar Adriatico, assenza di termoclino. Le specie non indigene o alloctone, ovvero gli animali e i vegetali che penetrano o vengono introdotti volontariamente o accidentalmente dall’uomo in areali diversi da quelli di origine, rappresentano oggi una delle principali minacce per la biodiversità marina. Il Mediterraneo rappresenta il mare più invaso del mondo, con una media, dal 2000 a oggi, di una nuova specie segnalata al mese, sebbene sembra che ci sia discordanza nel mondo scientifico circa il numero reale di specie non indigene attualmente presenti.
IL CANALE DI SUEZ – La presenza di specie alloctone nel Mediterraneo non è una novità, ma l’evento che ha sicuramente amplificato l’introduzione di nuove specie è rappresentato dall’apertura del canale di Suez, avvenuta nel 1869 e con il raddoppio del medesimo di recente. Il fenomeno è stato poi accresciuto da nuovi canali di introduzione, come le acque di zavorra delle navi (ballast water); le chiglie degli scafi sulle quali si insediano organismi sessili (fouling); l’acquacoltura; l’acquariologia; l’importazione di esche vive. All’affermazione delle specie alloctone nel Mediterraneo ha di certo contribuito la recettività che le comunità di organismi mediterranei mostrano verso nuove specie: l’età relativamente giovane del bacino mediterraneo (circa 5 milioni di anni) non ha infatti consentito l’instaurarsi di popolamenti stabili e ben strutturati, in grado di contrastare l’arrivo di specie altamente competitive, quali quelle indopacifiche e atlantiche. L’insediamento di nuove specie è stato inoltre facilitato da condizioni ambientali non integre per via delle forti pressioni antropiche (inquinamento o sovra sfruttamento per attività di pesca), che hanno reso ancora più fragili le popolazioni autoctone. I cambiamenti climatici, da ultimo, hanno probabilmente favorito il successo nell’introduzione delle specie non indigene, grazie a un aumento della temperatura superficiale e a modifiche delle correnti principali che ne hanno condizionato la diffusione nel Mediterraneo, dopo Suez (1869), e di nuovi canali di introduzione (acque di zavorra, acquacoltura, importazione, ecc.). Attualmente nei mari italiani sono state segnalate 48 specie ittiche aliene, molte delle quali reperite da una a poche volte. Di queste specie, 28 sono presumibilmente penetrate dallo Stretto di Gibilterra, 9 attraverso migrazione lessepsiana, 8 mediante trasporto marittimo o rilascio da acquari e 3 sono di dubbia provenienza. I casi più noti di colonizzazione da parte di specie atlantiche riguardano il pesce palla Sphoeroides pachygaster [] e le ricciole Seriola fasciate. La popolazione del pesce palla è esplosa nelle ultime tre decadi e oggi la specie viene catturata prevalentemente nei mari meridionali dalla pesca a strascico. Le carni contengono minime quantità di tetrodotossina e il loro consumo potrebbe risultare tossico, ma non letale, per l’uomo. La ricciola atlantica è entrata nei mari italiani all’inizio degli anni ’90, e da allora viene frequentemente catturata allo stadio giovanile come by-catch della pesca alla lampuga che si esercita da settembre a gennaio.
La conservazione dell’ambiente e delle specie marine in Italia si basa su provvedimenti nazionali derivanti dalle convenzioni internazionali e da specifici regolamenti e direttive comunitarie. Durante l’ultimo decennio alcune convenzioni internazionali e direttive europee, in particolare la Convenzione sulla Diversità Biologica, la Convenzione di Barcellona, la Direttiva 92/43/CEE, la Direttiva 79/409/CEE, recepite dall’Italia hanno delineato un quadro legislativo che conferisce lo status di “specie protetta/minacciata” o di “specie meritevole di tutela” a un numero di specie marine mediterranee molto più consistente che quello proposto da strumenti legislativi precedenti (Relini, 1999). Le specie marine presenti nei mari italiani e riconosciute come specie minacciate/in pericolo e meritevoli di massima protezione nell’insieme degli strumenti internazionali e comunitari sono 86.
Generalmente il regime di protezione previsto da tali strumenti normativi comporta misure atte a contrastare la repentina riduzione 305 numerica degli esemplari appartenenti alle specie meritevoli di protezione, mediante l’introduzione di divieti quali: detenzione, prelievo intenzionale di qualsiasi sorta, commercio ed esposizione, disturbo durante particolari fasi del ciclo biologico (ad esempio durante le fasi di riproduzione, migrazione, svernamento, muta, nel caso di specie faunistiche), sradicamento e prelievo di parti (nel caso delle specie floristiche). In alcuni casi la normativa prevede anche una garanzia di protezione di natura spaziale, mediata dall’istituzione di aree speciali di conservazione, garantendo cosi la possibilità di mitigare alcuni impatti di origine antropica attraverso la gestione di specifiche attività in zone selezionate (Direttiva Habitat). La protezione di alcune specie minacciate e di particolari habitat bentonici non è tuttavia perseguibile solo mediante l’applicazione del divieto di prelievo intenzionale, o mediante la protezione di zone importanti per specifiche fasi del ciclo biologico di una determinata specie. Infatti, la vulnerabilità di alcune specie e habitat può essere imputata, in alcuni casi, alle interazioni (protratte nel tempo o nello spazio) 53 con particolari attrezzi da pesca. Conseguentemente, la loro mitigazione può richiedere specifiche misure di gestione dell’attività di pesca, le quali dovranno essere definite solo a seguito di un’esaustiva valutazione. Ad esempio, il Regolamento 1967/2006 prevede il divieto di pesca con attrezzi trainati su alcuni popolamenti che costituiscono habitat marini particolarmente vulnerabili, quali: le praterie di fanerogame, il coralligeno e i letti a Mäerl.
Il fenomeno dell’invasione delle specie aliene ha determinato la produzione di numerose diposizioni nazionali e internazionali per la salvaguardia della biodiversità marina. Oggi le specie aliene rappresentano uno dei descrittori dello stato dell’ambiente marino nell’ambito della Direttiva Quadro sulla Strategia per l’ambiente marino. In particolare, individua nell’introduzione di specie alloctone una delle principali minacce alla biodiversità in Europa e impone, in maniera specifica, agli Stati membri di considerare le specie invasive nella descrizione del buono stato ecologico. In tale ambito è stata realizzata una banca dati per le specie aliene presenti nel Mediterraneo appartenenti a otto taxa (cnidari, tunicati, crostacei decapodi, pesci, molluschi, vegetali marini, briozoi e policheti). Inoltre è stato creato un atlante tassonomico per l’identificazione e la distribuzione di suddette specie. I risultati di questo progetto rappresentano una base di partenza per affrontare il fenomeno delle specie aliene che, essendo in continua evoluzione, necessita di un costante monitoraggio.
ALGA TROPICALE – La più famosa è sicuramente lei, la Caulerpa taxipholia. L’alga di origine tropicale, colore verde chiaro e alto potere infestante, è stata per anni il simbolo dell’invasione «aliena» del mar Mediterraneo, colpevole di averne colonizzato i fondali rubando spazio alle specie autoctone. Ma oggi le file degli inquilini stranieri provenienti da mari esotici e lontani (specie «aliene» o «alloctone») si sono ingrossate. È un’avanzata irresistibile quella della Caulerpa Taxifolia, alga tropicale che sta colonizzando il Mediterraneo: dalla Costa Azzurra all’arcipelago toscano, dallo stretto di Messina alla Croazia, dalla Tunisia alle Baleari. Soltanto la Sardegna, per ora, è sfuggita agli attacchi dell’alga-killer che ha conquistato più di 13mila ettari di fondali, contro i 4600 del ’98. La Caulerpa rappresenta ormai una grave minaccia per la biodiversità del Mediterraneo. Essa infatti entra in competizione, soppiantandole, con le altre alghe autoctone. Le comunità animali ospitate vengono inesorabilmente eliminate. A farne le spese è in particolare la prateria di Posidonia, importantissima «nursery» di diverse forme di vita marina. Risale al 1984 la prima apparizione della pianta esotica nelle acque del Mediterraneo, sotto le finestre del museo oceanografico di Monaco. Pare che alcuni esemplari di Caulerpa, usati negli acquari come alga decorativa, siano stati buttati in mare. E, purtroppo per la flora indigena, l’ospite tropicale ha dimostrato di adattarsi bene alle acque del Mediterraneo.
La Caulerpa ha infatti una grande capacità riproduttiva, può arrivare a 3 metri di lunghezza e aumentare ogni anno fino a 10 volte. A favorirne la diffusione è soprattutto l’uomo: la pianta infatti conquista nuove aree perché vi viene trasportata attraverso le ancore delle imbarcazioni e le reti dei pescatori. Per contrastare il fenomeno, in Francia è stato proibito ai pescherecci di buttare l’ancora e di fare pesca a strascico dove è presente l’alga. In Italia la Caulerpa Taxifolia è ormai padrona di estese superfici marine in Liguria, in Toscana, in Sicilia e in Calabria. In Adriatico l’alga è stata rilevata in Croazia. Diversi i metodi messi in campo dagli studiosi per frenare l’avanzata della Caulerpa ma finora senza alcun esito: si è provato a eradicarla dai fondali, a ricoprirla con teloni per soffocarla, a introdurre un mollusco tropicale (Elysia Subornata) che si ciba solo dell’alga. Ma il problema di questo antagonista naturale è che non resiste alle acque fredde e quindi può espletare le sue funzioni di «ripulitore dei fondali» solo nei mesi estivi: quando il clima diventa più rigido muore e quindi andrebbe reintrodotto ogni anno.
Elysia subornata cresce fino a una lunghezza di circa 5 centimetri (2,0 pollici). È di colore variabile, trovandosi nei toni del verde, verde oliva e beige, a volte con una sfumatura rossastra. Ha un’ampia parapodia (sporgenze carnose ai lati) con spessi margini bianchi a volte bordati di marrone o nero. La parapodia è coperta da piccole papille (protuberanze carnose) e anche i rinofori (organi sensoriali sulla testa) sono papillosi. È stato proposto che l’ Elysia subornata potesse essere usata come agente di controllo biologico contro un ceppo invasivo dell’alga Caulerpa taxifolia nel Mar Mediterraneo nord- occidentale . Gli alti livelli di tossicità di quell’alga scoraggiano la maggior parte della fauna erbivora autoctona dal consumarla. Elysia subornata, tuttavia, si nutre preferibilmente di Caulerpa taxifolia, usando il metabolita secondario, Caulerpenyne, per propria difesa. Non sopravvive alla fresca temperatura delle acque invernali del Mediterraneo e dovrebbe quindi essere sollevato su larga scala per avere effetti significativi. O quello; oppure un ibrido dovrebbe essere geneticamente modificato usando il DNA di E timida e/o E. viridis.
LE TRIGLIE – Le triglie del Mar Rosso: Upeneus pori – La specie è originaria del mar Rosso e del golfo di Oman. Attraverso il canale di Suez si è introdotta nel mar Mediterraneo tramite la migrazione lessepsiana e Upeneus moluccensis – Questa specie, originaria dell’oceano Pacifico, del mar Rosso e dell’oceano Indiano, si è diffusa anche nel mar Mediterraneo, dove è stata trovata per la prima volta nel 1947 in Israele, giunta in quell’area tramite il canale di Suez. Si trova anche in Giappone e Nuova Caledonia. Predilige le zone con fondali fangosi o sabbiosi, fino a 120 m di profondità. Vive nelle barriere coralline ed è una specie tipica delle acque costiere che si può spingere anche in acqua salmastra; il granchio Percnon gibbesi – Percnon gibbesi, è un granchio della famiglia Plagusiidae, originariamente diffuso nelle zone costiere di Atlantico e Pacifico, ma da alcuni anni segnalato anche nel mar Mediterraneo. Percnon gibbesi è una specie diffusa lungo le coste dell’oceano Atlantico (dalla Florida al Brasile e dall’isola di Madera al Golfo di Guinea) e del Pacifico (dalla Bassa California al Cile settentrionale). Nel 1999 è stato segnalato per la prima volta anche nel mar Mediterraneo, nell’isola di Linosa. Dopo questa prima segnalazione è stato trovato anche nelle isole Baleari, a Pantelleria, a Malta, in Sardegna, nelle isole di Ischia e di Ponza ed in altre località del mar Tirreno, nella costa ionica della Calabria, in Grecia, in Turchia ed in Libia.
Popola gli anfratti rocciosi del piano infralitorale. non ama vivere in posti dov’è presente la Caulerpa prolifera. Presenta un carapace discoidale appiattito, che negli adulti raggiunge i 3-4 cm di diametro, di colore rosso-brunastro con venature azzurrastre. Le zampe, il cui margine anteriore è dotato di una fila di spine, presentano anelli giallastri in corrispondenza delle articolazioni. I massillipedi presentano anch’essi dei piccoli processi spinosi. È una specie esclusivamente erbivora, o per meglio dire algivora, caratteristica che lo differenzia dalla maggior parte dei granchi del piano infralitorale del mar Mediterraneo e che almeno in parte ne spiega la facilità di propagazione in quest’area. Nonostante le differenti abitudini alimentari è un potenziale competitore per alcune specie autoctone mediterranee quali Pachygrapsus marmoratus ed Eriphia verrucosa, con le quali condivide l’habitat.
LA MEDUSA – La medusa Rhopilema nomadica – Si chiama Rhopilema nomadica, meglio nota come medusa nomade, ed è una specie che è arrivata nel Mediterraneo dal canale di Suez, con i rischi conseguenti. Spiega il biologo marino romano Luciano Bernardo, che l’ha fotografata nel mare di Favignana: “Si tratta di una specie tropicale entrata nel Mediterraneo attraversando il canale di Suez. E’ una medusa molto pericolosa e invasiva che lungo le coste israeliane”. Qui “ha fatto la sua prima comparsa nel 1976, ha prodotto grossi danni alla pesca e al turismo. In seguito, ha raggiunto anche le coste turche e greche fino all’isola di Malta”. Nelle acque italiane “è arrivata nel 2015, quando è stata segnalata a Pantelleria e Cagliari, e l’anno seguente a Levanzo []”.
Le parole di Luciano Bernardo, che ha scritto due libri sulla fauna marina, sono riportate dal ‘Sole 24 Ore’: “Stavo costeggiando la parete sinistra di Cala Rotonda, una bella insenatura sul lato occidentale dell’isola di Favignana quando è apparsa questa grossa medusa”. Si trattava di una specie “simile al nostro comune e innocuo ‘polmone di mare’ (Rhizostoma pulmo)”. Però aveva “braccia filamentose e priva del caratteristico bordino viola sull’ombrella”.
INVASIONE BIOLOGICA – In tutto, quasi 1.000 tra pesci, crostacei e alghe, dicono i dati di un recente studio del Joint Research Center della Commissione Europea, pubblicato sulla rivista «Frontiers in Marine Science». Un’invasione biologica senza precedenti che mette a rischio la biodiversità: ogni giorno pesci e invertebrati nativi del Mare Nostrum, già stressati da pesca eccessiva e inquinamento, infatti, devono competere duramente con gli «intrusi» per preservare il proprio habitat. E la vittoria non è sempre scontata. Più di 400 specie di pesci e invertebrati sono giunte dal Canale di Suez [specie lessepsiane]; poco più di 300 attraverso l’acqua di zavorra delle navi o attaccate alle carene. Circa 60 specie, soprattutto alghe, sono state introdotte accidentalmente attraverso l’acquacoltura. Colpevole anche il riscaldamento globale: le acque tra Turchia meridionale, Siria, Libano, Israele, Gaza, Cipro ed Egitto sono diventate notevolmente più calde negli ultimi 20 anni, quindi ideali per la sopravvivenza delle specie provenienti da Mar Rosso, Mar Arabico e Oceano Indiano. In questa regione del Mediterraneo, dice lo studio, fino al 40% della fauna marina è di origine «aliena».
A preoccupare maggiormente sono gli impatti ecologici ed economici di queste invasioni. Basti pensare ai pesci Siganus luridus e Siganus rivulatus («pesce coniglio»), insediatisi nel Mediterraneo orientale dall’Oceano Indiano, che stanno devastando le foreste di alghe brune a scapito delle specie che popolavano l’ecosistema. Altrove le comunità native di alghe, coralli e invertebrati muoiono per la mancanza di risorse causata dalla rapida crescita dell’alga Caulerpa cylindracea
ALAGA VERDE – 1873 è un’alga verde della famiglia Caulerpaceae. È originaria del mar Rosso, ma è una specie alloctona del mar Mediterraneo, in cui è penetrata attraverso il Canale di Suez fin dal 1926. In Mediterraneo, insieme con la Caulerpa taxifolia, sta minacciando le praterie di Posidonia oceanica, della quale è una forte competitrice, che può formare tappeti di 15 centimetri di spessore e che colpisce molte località nel nostro paese. «In Italia le aree più colpite – precisa Katsanevakis – sono la costa orientale della Sicilia, il Mar Ligure e le coste adriatiche settentrionali nei pressi della laguna di Venezia. Le prime due aree sono interessate dalle specie trasportate dalle navi, mentre la laguna è colonizzata da quelle di acquacoltura».
200 SPECIE NELLE ACQUE ITALIANE – Sono 200 le specie che hanno raggiunto le acque italiane, di cui 15 sono pesci, secondo la Banca dati delle specie non indigene nei mari italiani realizzata dall’Ispra. Per ora senza provocare conseguenze sul sistema pesca. «A differenza del Libano e della Siria, dove la cattura di questi esemplari supera quella delle specie mediterranee, i pesci alieni non hanno avuto un impatto sulla nostra pesca», spiega Franco Andaloro, dirigente di ricerca dell’Ispra.
PESCE CONIGLIO – Solamente due infatti hanno raggiunto quantità catturabili: il pesce coniglio (S. luridus) – una specie di pesce che si trova nelle scogliere e nelle lagune del Pacifico occidentale tropicale. Appartiene alla famiglia dei pesci coniglio (Siganidae) e talvolta è ancora inserito nel genere obsoleto. Altri nomi comuni sono foxface o foxface lo , ma questi riferimento correttamente su qualsiasi specie rabbitfish volta separati in Lo, ad esempio strettamente legato foxface bicolore ( S. USPI ). È spesso visto nel commercio di acquari marini . Il foxface macchiato ( S. unimaculatus ) differisce da S. vulpinus per il possesso di una grande macchia nera sotto la pinna dorsale di poppa . È simpatico e non filogeneticamente distinto, e sebbene queste due potrebbero essere specie recentemente evolute, è più probabile che si tratti solo di morph di colore e dovrebbero essere unite sotto il nome scientifico di S. vulpinus e il pesce flauto (Fistularia commersoni) – È diffuso nella fascia tropicale dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico compreso il mar Rosso; da qui è penetrato, attraverso il canale di Suez, nel mar Mediterraneo dove è stato segnalato per la prima volta nel 2000 in Israele; negli anni successivi si è rapidamente espanso raggiungendo la Turchia, l’isola di Rodi,Creta, le coste dell’Italia meridionale, la Sicilia, la Sardegna e le coste tirreniche e adriatiche, spingendosi sino alle coste della penisola iberica.
PESCE PALLA – Vive in acque costiere nei pressi delle scogliere, più di rado su fondi mobili o su praterie di Posidonia oceanica., entrambi commestibili ma non ancora accettati dal mercato. Pesce palla maculato (Lagocephalus sceleratus)- E’ stato pescato a Molfetta, a nord di Bari, un altro esemplare di pesce palla maculato, “specie altamente tossica al consumo”. A riconoscerlo, spiega l’Ispra nel darne notizia, un cittadino che ha immediatamente provveduto ad informare il pescatore della sua pericolosità, evitandone così l’immissione nel mercato, e a comunicarlo ai ricercatori.
Questo recente ritrovamento “impone di mantenere alta l’attenzione dei cittadini sulla pericolosità di una specie tossica al consumo”, avverte l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ricordando che la legge italiana vieta la commercializzazione di tutti i pesci palla. “E’ importante sapere – precisano gli esperti dell’Ispra – che la tossicità del pesce palla maculato permane anche dopo la cottura; una volta catturato, bisogna stare attenti a maneggiarlo per evitarne il potente morso, ma toccarlo non comporta altri rischi e il semplice contatto non mette a rischio contaminazione il pescato”., catturato per la prima volta nel novembre scorso a Lampedusa che ha fatto scattare il nostro sistema di prima allerta, informando tutti i pescatori e la Guardia Costiera e consentendoci di trovarne altri 10. Ma non c’è pericolo per i consumatori in quanto ne è vietata la vendita», conclude Andaloro dell’ISPRA.
È probabile che la sua espansione non sia dovuta soltanto alle migrazioni, ma anche ad esemplari fuggiti da allevamenti; questa specie è infatti diffusa nell’acquacoltura. Nuota fino a 90 m di profondità, di solito in zone con fondali molli e fangosi.
LA VONGOLA – La vongola filippina (Venerupis philippinarum) fuggita dagli allevamenti di acquacoltura, è originaria dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico, nel Mar Mediterraneo (soprattutto nell’Adriatico) è stata introdotta per motivi commerciali e sta soppiantando la vongola verace Tapes decussatus. È frequente su fondi fangosi a piccola o piccolissima profondità, viene comunemente venduta nei mercati ittici ed ha un notevole interesse commerciale: in Italia la normativa vigente consente l’appellativo Vongola Verace anche per questo tipo di mollusco, sebbene l’unica “vongola verace” autoctona del Mediterraneo sia la Venerupis decussata. Le due specie si distinguono per i sifoni, che sono uniti in R. philippinarum ma separati in V. decussata e per minime differenze nella superficie esterna delle valve, inoltre le R. philippinarum hanno il guscio più pesante e variopinto. Dal punto di vista gastronomico l’autoctona è considerata più pregiata, sia per il guscio sottile, sia per la qualità della parte edibile: più tenera e delicata
Per arginare il fenomeno ed evitare nuove introduzioni, l’Organizzazione Marittima Internazionale ha adottato la «Ballast Water Management Convention», che obbliga le navi al trattamento delle acque di zavorra per eliminare i microrganismi estranei presenti. La convenzione però non è ancora entrata in vigore perché non ratificata da un numero sufficiente di Stati.
Alesben B.