Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Che bella Noli! Ponti e ponticelli pedonali.
E le forme choc di decoro urbano


Sul torrente Noli, quasi al termine del tratto interessato ai lavori di ripristino del torrente che vanno dall’arco delle mura nord [via Cavaglieri di Malta ang. Via Fiumara] fino al vecchio ponte ferroviario, è comparso, quasi per incanto un ponticello, di quelli che normalmente vengono posti in essere, nei parchi urbani, per scavalcare “bialere” di ridotte dimensioni, al fine di non “bagnarsi i piedi”.

La locuzione “bagnarsi i piedi” ci fa tornare in mente la saga  di Giovannino Guareschi nell’episodio di San Lucio in “Don Camillo monsignore…ma non troppo”:

La “vecchia e decrepita” chiesetta di San Lucio che si trovava “a 3 km dal paese in riva al grande fiume” e che si poteva raggiungere solamente “dal fiume o attraverso il grande bosco di pioppi oltre l’argine maestro” in realtà non si trova in riva al grande fiume, ma nell’entroterra dove è situata. che essa fu costruita apposta sulla riva del Po confidando così che San Lucio, “per non bagnarsi i piedi”, avrebbe protetto il paese dalle alluvioni.

La posizione di tale “ponticello” è tale da “congiungere”, si fa per dire,  una scaletta, con gradini in cemento, con funzione di scorciatoia ed il piazzale a fianco dell’oratorio di Sant’Anna, la quale non protegge il paese dalle alluvioni; per tale evenienza ci si serve della paratia mobile, precedentemente installata.

L’accesso di tale ponticello non è rasente alla scaletta ed al piazzale, ma avviene su quelle aree che in termini idraulici si definiscono “golene”, e mancando il “rigagnolo” di “argini di froldo” necessita che se si alza la “superficie bagnata” occorra che tale “arredo” debba essere spostato, come una barca da pesca, in un’area sicura.

Se tanto si tenesse ad avere questa ”scorciatoia”, il Comune avrebbe potuto optare per un, se pure anomalo, piccolo ponte di barche, anche se, in caso di piena, non avrebbe supplito allo scopo, ma almeno si sarebbe potuto risparmiare l’intervento e la fatica di due operai ed il loro badge.

Il regolamento alle esternalità del Comune di Noli, aggiornato al 2015, nella premessa, dice:

“Il presente regolamento ha come obbiettivo la valorizzazione di Noli come luogo di abitazione e di vita, mediante il miglioramento della qualità del tessuto edilizio dell’ambiente circostante e delle strutture utilizzate per il commercio e per i servizi, con particolare attenzione agli aspetti legati al turismo. 

Ciò avviene tramite:

          la salvaguardia e la valorizzazione del territorio con particolare attenzione al Centro  storico.

         l’esclusione degli interventi gravemente incompatibili e la progressiva eliminazione degli elementi deturpanti e di disturbo.

●          la protezione e la valorizzazione degli elementi culturali, artistici e naturali di pregio che    insistono sul territorio nolese

         la promozione del commercio e dei servizi nonché dell’insieme delle relazioni che legano queste attività, a partire dal riconoscimento del valore collettivo legato alla presenza di una realtà     economica viva ed in crescita.

 

Con la stesura del presente progetto si è inteso raccogliere in un unico testo l’insieme delle indicazioni e dei criteri tecnici e formali riguardanti una serie di oggetti installati su spazi pubblici o visibili dalla pubblica via.

Tali elementi concorrono ad articolare lo spazio della città e, spesso, si connotano come l’espressione più immediata ed appariscente dell’immagine di un luogo urbano.

Pertanto l’esposizione di oggetti  a corredo delle attività deve concorrere a qualificare e caratterizzare l’ambiente urbano, cercando di evitare situazione di disordine visivo o interferenza prospettica con gli elementi architettonici caratterizzanti le facciate degli edifici.”

I ponti a Noli sono tre, due per il traffico veicolare, fuori la cerchia muraria: il ponte costiero di proprietà dell’A.N.A.S. [S.S. N° 1 Aurelia] ed il ponte delle “Montagne Russe” [ex ponte ferroviario], ed uno pedonale, entro le mura, con costrutto romano.

Il ponte romano la cui struttura, a una sola arcata ribassata, è composta da conci radiali e poggia su piccoli basamenti composti di roccia conglomerato [¹] con elementi tondeggiati uniti da abbondante cemento siliceo [puddinga]. Rimaneggiato in epoche successive, esso rappresenta un’ importante testimonianza della municipalità romana, infatti il lungo periodo romano può considerarsi uno dei momenti più floridi del comune, paragonabile soltanto al XIII sec. anno della fondazione della Diocesi nolese.

Esso costituiva un attraversamento della via Julia Augusta che “fu l’ultimo asse stradale di grande organizzazione romana”.

Qualcuno scrive che,  nel 48 aC.  la strada fu percorsa da Giulio Cesare diretto a Roma di ritorno dopo aver distrutto Marsiglia, alcuni facendolo risalire da Savona via Acqui e quindi eliminando Genova; altri facendolo sostare a Genova e concedere vantaggi ai suoi alleati (tipo esenzione di certe tasse ed una indipendenza amministrativa abbastanza ampia). 

Ma avendo la strada il titolo ‘Augusta’, è probabilmente più giusto che sia stata riattivata da Gaio Giulio Cesare Ottaviano (63 a.C. – 14 d.C.), nipote di Cesare e primo augusto imperatore. Questi dopo aver connesso la Gallia Narbonense  alle terre medio mediterranee tra il 13 ed il 12 a.C. (Praga scrive 19 d.C. –  altri 14 a.C.) dovendo transitare nella Liguria occidentale con andamento costiero, fece:

a) erigere (7 -6 a.C) sul colle della Turbia sopra Monaco, un imponente monumento tipo trofeo mirato a commemorare la vittoria romana su tutte le genti alpine ed oltre;

b) riattare la strada da Ventimiglia (Albintimilium), passando per Albenga (Albigaunum) fino a Savona (Vada Sabatia). Qui arrivato  scelse di salire a Dertona-Piacenza passando per Acqui (Aquæ Statiellæ). Questo collegamento tra Roma e Spagna era da sempre agognato da Roma stessa e fu realizzato solo in queste date.

Questa strada fu migliorata anche con l’apposizione di pietre miliari, e rimangono di esse numerose tracce ancor oggi repertate (strade basolate, ponti, pietre miliari, un mansio – forse quello di Lucus Bormani, a s.Bartolomeo a Mare – ed altro a La Turbie – detto mansio Alpe Summa -. Però essa determinò un calo del traffico e tendenza all’ isolamento dell’emporio genovese che si salvò infine causa  il sostanziale migliore e sicuro approdo,  per la ricettività di un alto numero di navi all’attracco e, fondamentale, una migliore organizzazione (magazzini, trasporti, dazi, ecc.). Proveniente da Arles, fu misurata con pietre miliari, rafforzata con basi militari, migliorata con ponti ed allungata. La viabilità della strada fu consolidata in modo così efficiente che, si narra,  da Cadice (via Augusta, ed in Italia via Aurelia) a Roma si viaggiava senza mai bagnarsi i piedi in un guado. Sotto lui, la Liguria era la IX (su 14) provincia romana).

Ma fu interessamento da parte dell’imperatore anche la città di Genova, non ancora ripresasi come funzionalità, dopo la distruzione cartaginese: allo scopo trasferì l’incarico al suo tribuno nonché ammiraglio-architetto di potenziare la base navale romana nonché la riparazione della via Aurelia di ponente dovendo andare a sedare residui di guerriglia dei Liguri locali”.

I ruscelli si potevano superare con un semplice assito, ma per un fiume era necessario costruire un ponte. Gli architetti romani erano maestri in quest’arte, e i progettisti di ponti erano i più stimati nella loro categoria. I ponti venivano costruiti in legno o in pietra, a seconda delle necessità e delle possibilità di approvvigionamento o economiche. I ponti in legno poggiavano su piloni infissi nel letto del fiume, oppure su basamenti in pietra. Il ponte interamente in pietra però richiedeva la costruzione ad arcate, una tecnica che i romani avevano mutuato dagli Etruschi. I ponti romani erano così ben costruiti che molti di essi non solo sono sopravvissuti, ma vengono usati tuttora.

La tecnica costruttiva è quella definita:

opus “caementicium o coementicium” [o cementizia, o a sacco]. Nucleo composto di spezzoni lapidei (lat. Caementa, coagmenta) impastati con malta (materies) di calce e sabbia (preferibilmente pozzolana)

e racchiuso fra due cortine di tuffelli, mattoni o marmo. Questa tecnica, sviluppata verso la fine del sec. III a.C. nel Lazio e in Campania e subito diffusa in tutto il mondo romano per la facile ed economica applicazione e la possibilità di ottenere coperture voltate di proporzioni inattuabili con la tecnica lapidea, è la più usata e d’importanza fondamentale nell’edilizia romana (prima privata poi pubblica.)

Nei terreni paludosi si costruivano strade rialzate. Innanzitutto si segnava il percorso con dei piloni, poi si riempiva lo spazio fra di essi con grandi quantità di pietre, innalzando il livello stradale fino a 2 metri sopra la palude. Questo avveniva principalmente in Italia, mentre nelle province si costruivano i pontes longi, cioè lunghi ponti fatti con tronchi d’albero.

L’altro ponticello, posto per non  “bagnarsi i piedi”, di recente inserimento, concorre a dequalificare un ambiente urbano, che, nonostante la vetustà, ha saputo mantenere intatta l’antica struttura urbana all’interno delle mura di cinta ma anche per l’importanza storica ed economica che ha ricoperto durante tutto il Medioevo nel Ponente Ligure.

Tale manufatto potrebbe avere un senso se si pensasse a realizzare un giardino urbano ma non sull’asse di un torrente per di più di rapina.

Questo è e deve rimanere tale dalla sorgente alla foce. Torrente si e non “pezzo di torrente”; torrente si e non una strada; torrente si e non un accesso a proprietà private; torrente si e non……………………etc.

Pertanto l’esposizione di oggetti deve concorrere a qualificare e caratterizzare l’ambiente urbano, cercando di evitare situazione di disordine visivo e l’interferenza prospettica con gli elementi architettonici caratterizzanti il contesto dove sono inseriti, nel nostro caso adiacente alle mura medioevali.

 Soprassediamo alla tipologia dei ponti veicolari in quanto è storia recente [sec. XIX e XX] aggiungendo che le infrastrutture eseguite dallo Stato ponevano, in primis, la necessità dell’opera, ed in seconda, la fattibilità della medesima.

Solo oggi giorno, e non sempre, c’è la richiesta di uno studio di fattibilità dell’opera, prima di porre “mano” all’esecuzione della medesima.

Cerchiamo di uscire dall’epigramma: “quod non fecerunt Barbari, Barberini fecerunt”.

Alesben B.

 

 

 


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