Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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IL SOLDO DEL DEPUTATO/ I tempi di Abbo parlamentare-contadino di Oneglia


L’ouverture di questa XVII legislatura è stata caratterizzata dalla rincorsa alla riduzione (evidentemente considerato malguadagnato dagli stessi che ne usufruiscono) del guiderdone corrisposto ai parlamentari: hanno cominciato la Presidente della Camera e il Presidente del Senato, poi, via, via gli stessi parlamentari “semplici” hanno sviluppato una serie di dichiarazioni rivolte nel senso di una compressione degli emolumenti, sotto la spinta – ovviamente- del tipo di campagna elettorale condotta del movimento 5 stelle e dal riscontro che ne è derivato, sul piano dell’aggregazione del consenso.

Alla fine di questa rincorsa all’indietro è possibile che si ritorni ai primi anni del ‘900 quando il deputato-contadino Pietro Abbo, un socialista di Oneglia (ma capitò anche ad altri suoi compagni di partito, compreso lo stesso Turati) non disponendo del denaro sufficiente per pernottare a Roma, usufruiva del cosiddetto “permanente” rilasciato dalle Ferrovie dello Stato per dormire sul treno Roma- Firenze andata e ritorno, rientrando quindi il mattino in tempo per l’apertura dei lavori della Camera.

E’ il caso, forse, di ricostruire la storia dell’indennità parlamentare: l’indennità parlamentare fa parte di quella serie di “benefici” e agevolazioni che via, via, con il procedere e lo sviluppo della democrazia sono stati istituiti allo scopo di rendere agibile a tutti, e non solo ad alcuni ceti privilegiati, l’esercizio dell’attività politica.

E’ il caso dell’immunità parlamentare (creata per consentire ai deputati di poter entrare nelle fabbriche in sciopero, evitando denunce penali da padroni che avevano proclamato la cosiddetta “serrata”) , dell’assenza di vincolo di mandato, dello stesso finanziamento pubblico ai partiti.

Il deteriorarsi della qualità dell’”agire politico”, la sparizione dei grandi partiti di massa provvisti di forte radicamento sociale, l’esplosione di intollerabili scandali (il più clamoroso di questi ultimi tempi riguarda, a mio giudizio, quello relativo al senatore del PD Lusi, già tesoriere della “Margherita) ben diversi da quelli delle usuali “tangenti” che avevano e stanno costellando la storia dell’Italia repubblicana, hanno fatto dimenticare le origini di questi istituti, ed è bene rammentarle proprio per non perdere ulteriormente la bussola, come è accaduta nell’occasione dell’introduzione del sistema elettorale maggioritario, nel processo di trasformazione dei partiti e, adesso, con l’introduzione surrettizia di una sorta di “costituzione materiale” fondata sul presidenzialismo, in luogo di quella formale, ancora in vigore e tuttora, quindi, incentrata sul ruolo del Parlamento.

Non è stato un caso, tornando alla storia, che l’indennità parlamentare sia stata istituita nel 1912 attraverso un apposito articolo della legge che prevedeva l’estensione del suffragio maschile portando il numero degli eventi diritto al voto da circa 2.000.000 a oltre 10.000.000.

Per non contrastare con l’articolo 50 dello Statuto Albertino che prevedeva come “l’esercizio delle funzioni di senatore o deputato non potevano dar luogo ad alcuna retribuzione o indennità”, la legge prevedeva, formalmente, l’indennità come “titolo di rimborso delle spese di corrispondenza”.

Qual era però lo scopo di fondo per il quale l’indennità era stata introdotta nell’ordinamento parlamentare?

A mio giudizio lo stesso sulla base del quale fu poi scritto l’articolo 69 della Costituzione Repubblicana: a tutela dell’indipendenza dei parlamentari, per consentire a tutti l’accesso al mandato parlamentare e permetterne l’esercizio senza condizionamenti economici.

Nell’immediato primo dopoguerra, con l’avvento del sistema elettorale proporzionale in precedenza all’avvento del fascismo, la legge sull’indennità fu mantenuta e, a dimostrazione di una vera e propria continuità al riguardo del già citato concetto di piena agibilità del mandato parlamentare, adottata anche in occasione dell’istituzione della Consulta Nazionale all’indomani della Liberazione che, per il proprio funzionamento, riprese le norme in vigore in precedenza al 28 Ottobre 1922.

Egualmente per l’Assemblea Costituente il punto di riferimento obbligato, per quel che riguardava le norme interne e lo “status” dei propri membri, fu rappresentato dalle regole in vigore per la Camera prefascista, esplicitamente richiamate dall’articolo 4 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 Marzo 1946, n.98 (decreto legislativo luogotenenziale meglio noto come “seconda costituzione provvisoria”).

Queste, quindi, le motivazioni e le origini dell’articolo 69 della Costituzione: il punto vero di critica, al riguardo, può risiedere nel fatto che l’ammontare delle indennità non è definito per legge, ma rinviato agli uffici di Presidenza delle due Camere e questo ha dato origine all’apertura di varchi attraverso i quali si sono infilati provvedimenti che hanno portato a quelle esagerazioni cui abbiamo assistito negli ultimi tempi .

Tra le due Camere fra l’altro è diversa la stessa formulazione al riguardo dell’obbligo di partecipazione ai lavori : mentre il Regolamento del Senato precisa che è fatto obbligo di partecipare anche ai lavori delle Commissioni, quello della Camera parla più genericamente di “partecipazione ai lavori”, senza distinguere – appunto – tra aula e commissione.

Insomma c’è motivo per riprendere in mano l’intera materia tenendo però presente un dato: abbiamo visto come determinate istituzioni parlamentari si siano via, via, evolute (fino ad assumere rango costituzionale) con l’allargarsi dei margini di democrazia: adesso non vorremmo che eventuali modifiche si accompagnassero a un procedimento inverso, di restringimento delle libertà democratiche che pure stanno segnando pericolosamente questa fase, dal sistema elettorale maggioritario al presidenzialismo.

 

Franco Astengo

 

 

LE PERCENTUALI DELL’EFFETTIVO CONSENSO

 

Un interessante articolo di Luca Ricolfi, apparso oggi sulle colonne de “La Stampa” (Non basta la legge elettorale) solleva, tra le altre, la questione del premio di maggioranza assegnato dalla legge elettorale in vigore alla coalizione che risulta più votata, ricordando che, in effetti, considerata l’astensione, il consenso raccolto dai partiti è comunque molto inferiore alle percentuali indicate sulla base dei soli voti validi.

Ho provato così a sviluppare un raffronto tra le elezioni politiche del 2008 e quelle del 2013, misurando le percentuali delle singole liste al totale degli aventi diritto: mi sono riferito alle elezioni per la Camera dei Deputati e al solo territorio nazionale (esclusa la Valle d’Aosta, che vota con un collegio uninominale).

Andando per ordine: gli aventi diritto nel 2008 assommavano a 47.041.814, scesi nel 2013 a 46.905.154 (meno 136.660). Il totale dei voti validi è stato nel 2008 di 37.874.569 e nel 2013 di 34.002.524 (meno 3.872.045). Di conseguenza, dal punto di vista delle cifre assolute, il “non voto” complessivo (incluse bianche e nulle) è salito di 3.735.394 unità (da considerarsi la cifra di aumento del mancato consenso per l’intero sistema).

Esaminiamo l’andamento dei singoli partiti, già presenti nel 2008: il PD è passato da 12.095.306 a 8.644. 523 ( meno 3.450,783). Il passaggio in percentuale, sul totale dei voti validi, è stato dal 33,18% al 25,42% (meno-7,76%) che, in realtà, sul totale degli aventi diritto è quantificato dal 25,71% al 18,42%, percentuale dell’effettivo consenso ottenuto.

Il PDL è passato dagli 13.629.464 voti del 2008 (37,38%) ai 7.332.072 del 2013 ( 21,56%, quindi meno 6.297.392 pari al 15,82%). In realtà la percentuale, sul “plenum”, passa dal 28,97% al 15,63%.

La Lega Nord ottenne nel 2008 3.024.543 (8,30%) a 1.390.014 (4,08%) con un decremento di 1.634.529 pari al 4,22%. In realtà la Lega Nord è passata dal 6,42% al 2,96%.

L’UDC raccolse, nel 2008, 2.050.229 voti (5,62%) e nel 2013 608.210 ( 1,78%) con un meno 1.442.019 ( -3,84%). Le percentuali effettive, però, sono passate dal 4,35% all’1,29%.

Le due formazioni che hanno dato vita a Rivoluzione Civile avevano ottenuto, nel 2008, rispettivamente: Arcobaleno 1.124.298 (3,08%) e IDV 1.594.024 (4,37%) per un totale di 2.718.322 voti ( 7,45%), calati con Rivoluzione Civile a 765.188 (una perdita complessiva di 1.953.134, con meno 5,20%). In realtà le percentuali effettive, in questo caso, sono passate dal 5,76% all’1,63% ( meno 4,13).

Quanto valgono allora le percentuali delle forze presentatesi per la prima volta in questa occasione, rapportate al totale degli iscritti nelle liste?

Gli 8.689.458 voti raccolti dal Movimento 5 Stelle che rappresentano il 25,55% sul totale dei voti validi, scendono al 18,52% (meno di un quinto quindi dell’intero elettorato).

La Lista Monti ha avuto 2.824.065 voti (8,32% sul totale dei voti validi) è calcolata in percentuale sul totale degli aventi diritto al 6,02%.

Molto basse le percentuali effettive degli altri soggetti: Sel al 2,32%, Centro Democratico 0,35%, La Destra 0,46%, FLI 0,33%, Fermare il declino 0,81%, PCL 0,19%.

Questa ridda di numeri, alla fine, soltanto per dimostrare un punto, a mio giudizio essenziale nel valutare la qualità della democrazia che questo sistema elettorale offre: la coalizione vincente ottiene alla fine il 21,09% del totale delle italiane e degli italiani aventi diritto al voto.

Con questo 21,09% alla Camera dei Deputati ha ottenuto il 54% dei seggi: un premio effettivo del 32,91%.

Un dato sul quale, mentre si parla di riforma della legge elettorale, sarebbe il caso di meditare.

Altro che “premio di minoranza”!

 

Franco Astengo


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F.Astengo

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