La difficoltà più grande che si è incontrata nel cercare di produrre un progetto politico di alternativa anticapitalistica all’interno della vicenda politica italiana, nel corso dei decenni che ci troviamo immediatamente alle spalle a partire almeno dagli anni’80 del XX secolo, ha riguardato l’impossibilità di rintracciare quella che era la “contraddizione di fondo”: il cosiddetto “oggetto del contendere”, quello vero.
Si trattava e si tratta della “questione democratica”, o meglio ancora della “questione della qualità della democrazia”, posta attorno al nodo dell’attuazione o dell’arretramento dei principi contenuti nel nesso implicito che lega la prima e la seconda parte della Costituzione repubblicana.
Un tema al quale il Centro di Riforma dello Stato, presieduto da Pietro Ingrao, produsse materiali di riflessione molto importanti, fino a elaborare un progetto sufficientemente compiuto di riforma dell’architettura dello Stato che non divenne però mai oggetto di confronto politico concreto, restando il PCI fermo a una rigida suddivisione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura e delegando l’agire sul terreno della politica sempre e comunque, all’impronta della “doppiezza” togliattiana (almeno sino all’intervista di Berlinguer sulla “questione morale”, del resto poi rimasta inascoltata e disattesa si era rimasti fermi all’autonomia del politico e alla tattica, appunto, dettata ancora dall’imprinting dettato dal “Migliore” totus politicus”).
Per questo filone è derivata la linea dettata, a suo tempo, da Massimo D’Alema “del paese normale”, ennesimo tentativo di legittimazione “nazionale” del partito nato nel 1921 che, pure, aveva cambiato nome, simbolo, pelle: una data di nascita che Bersani, ieri, avrebbe dovuto orgogliosamente rivendicare non tanto per l’identità comunista (se questa mai ci fosse stata) ma proprio per quel dato di “nazionalismo radicale” che rappresentò la cifra vera sulla base della quale gran parte della società italiana (fino al 34,4% dei voti) accettò il PCI, che pure per la parte avversa parlava ancora la “langue russe”.
Un’analisi sviluppata in ritardo, quella del “paese normale”, perché nel frattempo, ed è questo il punto che intendevo toccare, sorgeva un’altra opzione – ben più importante e pericolosa da quella dell’interclassismo nazional-popolare della DC (nella quale albergavano, comunque, spunti autoritari da Tambroni al “gaullismo” di Fanfani).
Un’opzione, insieme destrutturante e autoritaria, che prendeva le mosse, sul piano teorico dal dispositivo destrutturante al riguardo della consistenza giuridica dello Stato di origine nietzschiana (come nota oggi, sulle colonne del Manifesto, Toni Negri recensendo “Sinistra” di Carlo Galli) incrociandolo con l’ipotesi assolutistica di Carl Schimtt.
Scomporre e ricomporre in una sintesi più avanzata, di vera e propria “rottura” nel rapporto tra società e politica: questo il senso del Documento sulla “Rinascita Nazionale” redatto da Licio Gelli per conto della Loggia P2 nel 1975, raccogliendo quegli spunti teorici cui ho appena fatto cenno.
Quel documento, sulla “Rinascita Nazionale” apparentemente ricolmo d’indicazioni pragmatiche (molte delle quali, via, via, attuatesi con grande precisione) rimane, a mio giudizio, la pietra miliare al riguardo del progettarsi e dell’attuarsi dell’avventura di destra in Italia.
Un’avventura, appunto, in corso da molti anni, prima attraverso il tentativo craxiano della “Grande Riforma”, che pose le basi per il futuro – pensiamo ai meccanismi dell’informazione o a quelli del rapporto tra Governo e Parlamento – e poi portato avanti con grande determinazione e intuito dalla particolare destra populista uscita dalla crisi del regime degli anni’90 e raccoltasi attorno alla figura di Silvio Berlusconi, interpreta della indispensabile maschera dell’esasperazione del personalismo: personalismo giunto al punto in cui, ogni elezione si sia svolta dal 1994 a oggi, sempre la posta in palio è stata rappresentata dal giudizio sulla “persona” (una lezione malamente raccolta a sinistra come in questo caso, ad esempio, da Vendola e Ingroia, a dimensione ridottissima quasi a ridicolizzare il concetto).
Il PCI aveva, inizialmente, intuito la portata del pericolo che veniva dal raccogliersi attorno alle istanze della P2 dell’insieme della destra e del “perbenismo italiota”: il convegno di Arezzo, organizzato appunto dal CRS, nel 1982 con le relazioni di Stefano Rodotà e Giuseppe D’Alema (padre) riuscirono a porre la questione in termini dai quali si sarebbe potuti partire per porre il tema dell’alternativa sul giusto terreno della “qualità della democrazia”.
La scelta finale, però, fu diversa: quell’idea proprio del “paese normale”, della necessità di superare la doppiezza e di porsi nell’ottica di una “fertile accettazione” dell’egemonia capitalistica (sostanzialmente la linea portata avanti da Prodi con l’Ulivo): non vi fu contrasto, a questo proposito, non emersero proposte alternative e Rifondazione Comunista provò due volte a porsi sul terreno del governo, nella prima occasione in maggioranza e la seconda direttamente al Ministero, non avendo altra arma in mano che un curioso intreccio tra massimalismo psiuppino e movimentismo lottacontinuista.
Intanto il progetto della destra andava avanti e scavava nel profondo, destrutturando – appunto – il sistema politico, quello informativo e riducendo ai propri disegni la stessa struttura industriale del Paese ed egemonizzando quella finanziaria, ridotta a scorribande per “raider” come troppi episodi ci hanno dimostrato.
PDS, DS, PD, nel frattempo sono rimasti fermi all’idea della “governabilità”, di un acritico europeismo che non ha visto e non vede l’enorme deficit democratico di cui soffre l’Unione, allo scimmiottamento pedissequo della “spettacolarizzazione” di una politica sempre più priva di contenuti, fino a concedere spazio ad altri soggetti che, come nel caso del Movimento 5 Stelle, esasperano e sfruttano il concetto di “democrazia diretta” fino portarsi sul terreno di Le Bon del dialogo diretto tra il Capo e le Masse.
Nascono da questo tipo di analisi errori che , in apparenza, abbiamo giudicato clamorosi, come quelli riguardanti la mancata legge sul conflitto d’interessi o il varo della Bicamerale ma, soprattutto, l’idea del “bipolarismo temperato”, e in questo, della vocazione maggioritaria: errori che non erano tali, se sono riuscito a inquadrare bene il tema, ma un effettivo fondamento teorico al quale il PD oggi appare ancora abbarbicato.
Nel frattempo la crisi finanziaria internazionale divideva la destra italiana in due tronconi: quella populista e quella tecnocratica, uscita dalle costole di Trilateral e Billdeberg. Entrambe però, interne, a quella logica decostruttivista-autoritaria che, come abbiamo visto. Ispirava l’ancora cogente documento della Loggia P2.
Nascono così quei pericoli per la democrazia italiana che, da qualche parte si cominciano a intuire, e sui quali mi piacerebbe avere la forza per lanciare un serio allarme.
Probabilmente l’accordo di governo tra la destra tecnocratica e il pallido perbenismo di questo PD senz’anima e identità rappresenterà, nell’immediato, la classica soluzione “meno peggio”: durerà poco e mi sento di condividere quanti, da diversi punti di vista, pronosticano una legislatura “breve”.
Questo perché l’aggressività del progetto autoritario (neo-salazarista, continuo a definirlo) finirà con il prevalere e, in quel momento, forse ci troveremo di fronte ad un vero e proprio disvelamento: la legislatura appena finita ha verificato il mutarsi di ruolo del Presidente della Repubblica, del Governo e del Parlamento proprio nel senso di un accentramento del potere e in svillaneggiamento della funzione costituzionale delle assemblee elettive (questo avviene, in dimensioni drammatiche, anche e soprattutto nel sistema delle autonomie locali) e ci sarà chi, fra qualche mese, vorrà completare l’opera.
Alfredo Reichlin auspicava, nel giorni scorsi, un pieno successo del PD simile a quello della DC nel 48 e si tratterebbe di un “bene per tutti”: non sarà così, anche nell’eventualità del successo.
Il PD è privo di basi teoriche adeguate alla società dell’oggi, di cui dispongono, invece, i suoi avversari.
A sinistra, proprio nel momento in cui la crisi sospinge verso un recupero di strumenti che sarebbero fondamentali in particolare attraverso l’intreccio tra il recupero della centralità della contraddizione di classe e la Costituzione Repubblicana, in particolare, laddove vi si disegna l’architettura istituzionale, scena muta: o meglio si litiga sui pettegolezzi che correvano, negli anni’80, alle cene tra magistrati.
Forse sarebbe il caso di aprire un qualche canale serio di riflessione.
Franco Astengo