Il letto del Torrente Merula era un colorato giardino di oleandri ed ogni chiesa era l’umile reggia d’un Parroco, a Stellanello, ancora negli anni Quaranta, gli anni della Seconda Guerra mondiale e del primo dopoguerra. La gente viveva serena e dignitosa in ristrettezze che oggi definiremmo miseria e frequentava le funzioni religiose anche se non comprendeva il Latino.
Sono tanti i campanili nell’alta Val Merula: San Lorenzo, San Damiano, Santa Maria, San Vincenzo, San Gregorio, San Bernardino di Villarelli, San Francesco dei Rossi e gli altri minori delle cappelle e degli oratori. Alle ore canoniche le voci delle loro campane risuonavano animando l’atmosfera della valle. Ma se il campanile e le campane erano – come ancora sono oggi – componenti del paesaggio, i Parroci erano l’anima della comunità. Al presente, purtroppo, quest’ anima è quasi scomparsa definitivamente.
Perciò giova ricordare ed onorare i nomi, le figure e l’operato di coloro che dagli altari, dai sagrati, dalle canoniche solitarie diffusero il Vangelo con la parola e con l’esempio di vita da veri pastori d’anime.
Non li conobbi personalmente tutti ed ero un bambino, quindi il mio ricordo può sembrare avvicinarsi alla fiaba. Ma fiaba non è, per fortuna: tutti allora – non solo i fanciulli – vedevamo la realtà con occhi diversi. Eravamo più umani.
A San Lorenzo, la mia parrocchia, officiava Don Enrico un giovanotto non ancora trentenne che il destino crudele volle immolato al demone della guerra: forse per una spiata malevola fu prelevato dalla canonica durante un rastrellamento, torturato e, condotto poi lontano per i monti con la turba d’altri dolenti ostaggi, fu messo al muro e fucilato a Molino del Fico, in Valle di Cervo.
L’Arciprete Don Enrico – come tutti i parroci d’allora – celebrava le funzioni in Latino animando con la sua incerta voce tenorile le messe cantate tra i due cori contrapposti: quello un po’ stridulo delle donne sui banchi della navata e quello baritonale, rombante degli uomini seduti nell’abside, nascosti dall’altare. Come tanti suoi colleghi era un figlio del popolo, mandato in seminario, anche senza suo esplicito consenso, dai genitori che vedevano nella missione sacerdotale una promozione sociale per la propria famiglia.
La vocazione sarebbe maturata cammin facendo ed avrebbe portato mirabili frutti di apostolato agreste. All’età di Don Enrico molti giovani d’oggi vivono ancora in famiglia e si sottraggono alle responsabilità differendo nel futuro le scelte di vita fondamentali.
Egli, invece, costruiva con ardore, zelo e costanza la sua esperienza pastorale. Nel cosiddetto tempo libero i suoi diletti erano la caccia, che praticava sporadicamente con una vecchia doppietta a cani esterni, e l’apicultura. Come Prevosto la grande occasione in cui manifestava al meglio le Sue doti era la sagra del Patrono, San Lorenzo. Allora riuniva intorno alla tavola imbandita in canonica ed intorno all’altare tanti sacerdoti, concelebranti ognuno con la propria voce – a volte dissonante – ed i propri paramenti.
Ricordo come figure di spicco i vari predicatori cui spettava l’onore e l’onere di pronunciare il panegirico durante la funzione del pomeriggio, subito prima o dopo la processione: erano gli ammirati solisti dalle cui labbra letteralmente pendeva tutto il pio uditorio.
A parte il prevosto di Santa Maria, Don Dulbecco – dalla infelice figura fisica… andreottiana, ma con un naso più adunco e gli occhiali da miope – che scendeva e saliva spesso pedalando faticosamente su una bicicletta da donna lungo la strada polverosa, gli altri sacerdoti comparivano sulla scena di San Lorenzo solo per la sagra.
C’era il venerando Mons. Pietro Laureri – prevosto di San Damiano e Vicario Foraneo del Vescovo d’Albenga – stimato non solo per la Sua pietà, ma anche per l’intelletto vivido di predicatore e di rimatore a braccio. C’era il rubicondo Don Francesco Laureri stimato predicatore proveniente non so da quale parrocchia e destinato a tornare interinalmente a San Lorenzo negli anni tormentati della vecchiaia dopo avere retto per lungo tempo la ben più importante comunità ecclesiale di San Matteo in Laigueglia.
C’era Padre Raffaele, parroco di San Giovanni in Andora, sacerdote regolare d’origine alsaziana, dall’espressione mite e sorridente. C’era Don Dagnino di San Bartolomeo d’Andora, oggi forse l’unico ad essere ricordato pubblicamente, grazie allo sferisterio che volle e realizzò e che tutt’oggi è agone di gara. C’era l’imponente Don Acquarone di San Vincenzo… Stando alla “vox populi” quasi tutti erano considerati in odore di santità e non solo per questo io li immagino volentieri nella luce della gloria, non molto lontani dal loro più illustre collega Santo Curato d’Ars.
Lascio ad altri l’onore e l’onere di ricordare sacerdoti di tempi meno lontani, che io pure ricordo meglio, con la speranza che molti – anziani e giovani – riescano a vedere nell’immagine dei loro pastori il simbolo dell’affratellamento comunitario oggi compromesso dall’afflusso massiccio di forestieri occupanti saltuari – salvo rare e lodevoli eccezioni – di ambiti nei quali non sanno o non vogliono integrarsi.
Silvio Laureri