Nel 2018 i muri a secco sono stati eletti “Patrimonio dell’Umanità”, ed inseriti nella lista degli elementi “immateriali” perché rappresentano “una relazione armoniosa fra l’uomo e la natura”.
di Giuseppe Testa
La definizione di elementi immateriali è stata necessaria perché, essendo impossibile tutelare ogni singolo pezzo di muro (sono centinaia di migliaia di Km), le tutela è concessa non sul monumento fisico, ma su quello che rappresenta, o ha rappresentato, per la Storia dell’Uomo. L’Italia aveva presentato la candidatura insieme a Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia, Spagna e Svizzera.
Una tradizione che riguarda quindi non solo la nostra Liguria, ma tutta la Penisola e parte dell’Europa. I muri a secco stanno però scomparendo, e ciò è conseguenza dell’abbandono delle campagne e delle attività agricole in genere. L’entroterra si è spopolato: laddove una volta operavano famiglie numerose e laboriose oggi resiste qualche anziano. Molte cascine, vere “guardiane” del territorio, sono già ruderi. Si perdono sentieri, scompare la toponomastica, i rii non vengono più controllati e puliti, i boschi non vengono più coltivati, ecc.
La macchia si è impossessata di tutto, qualche muro ha già ceduto, senza nessuno che lo rialzerà. Questo infatti non è fatto per sempre: magari fosse così! Spesso frana, cede, si smonta, e periodicamente ha bisogno di ripristino. Risulta così un’opera quasi “viva”, alla quale concorrono tutte le generazioni, a partire dal primo uomo che l’ha creata. Spesso oggi manca la manodopera con la capacità tecnica per il duraturo ripristino, per cui sono rifatti “non a secco”.
Infine a volte è l’agricoltura meccanizzata che li vede come un ostacolo, e li sacrifica. La perdita dei muretti a secco non significa quindi soltanto la cancellazione di una testimonianza della nostra storia. La scomparsa o la rarefazione di queste costruzioni incide negativamente sul paesaggio e sull’ambiente.
La Liguria è sprovvista di pianure, salvo quelle alluvionali, formate dai torrenti nei secoli, generalmente piccole, limitate ai fondovalle e soggette agli straripamenti. I muri a secco sono parte integrante delle tecniche agricole: i terrazzamenti servono a ricavare spazi coltivabili, favorire e proteggere le colture necessariamente sui pendii, a volte eccessivamente ripidi.
In altre zone il muro a secco, specie sui litorali marini, serve a difesa dei venti freddi, dalle esondazioni e dagli agenti atmosferici. Non ci sono le grandi cattedrali gotiche, in Liguria, quelle che hanno reso celebre quello stile costruttivo: le pietre di queste si ergevano verso il cielo come preghiera ma erano la sfida dell’Uomo alla gravità.
In Liguria le enormi quantità di pietre e massi sono state sviluppate, con la modestia tipica della gente che lavora la terra, non verso l’alto ma in senso orizzontale. Il Finalese, al pari della Liguria tutta, vanta (o vantava?) questa grande e particolare ricchezza, la quale da alcuni decenni sta agonizzando. Presenti in tutto il suo territorio, già da pochi metri alle spalle del mare, a volte ancora visibili, altre no, vi sono le lunghissime sequenze di muri a secco. Sono questi muri, se sommati, di una lunghezza incalcolabile (si stima una lunghezza complessiva di 220.000 km). Si trovano sia al livello del mare che alle altezze di 700/800 metri.
Queste opere hanno rimodellato per secoli il paesaggio, cercando un compromesso tra i pendii e la necessità dell’uomo di procacciarsi i prodotti necessari al suo sostentamento. Opera ardita e presuntuosa? Certo, ma opera viva, nel senso che di generazione in generazione l’Uomo ha costantemente dovuto rimetterci mano, per rimediare alle piogge e alle frane con cui la Natura si ribellava. Sono frutto di una fatica impensabile, una condanna all’ergastolo, che veniva ereditata di generazione in generazione. Una passeggiata autunnale sulla sommità di Orco, esattamente in Valle Nava, mi ha stimolato alcune riflessioni. Questa zona risultava il perfetto paradigma che, come un microcosmo, rappresenta il resto del macrocosmo Finalese, Ligure e Italiano. Quello che per me risultava il paesaggio agricolo normale, familiare agli occhi da non essere più notato, non lo era stato per mio padre, i miei nonni ed avi.
L’immagine di muri a secco abbandonati, riconquistati dalla natura, mi è sempre stata così familiare per cui mi sono abituato ad essa, come parte integrante del territorio. Mentre camminavo sulla mulattiera, ho cercato di immaginare quel territorio come fosse solo mezzo secolo fa: ho abbandonato il sentiero e sono penetrato in quel che sembrava già un bosco, continuando ad incontrare dappertutto fasce e muri a secco, senza una fine apparente, invasi dalla vegetazione. Mi tornò in mente ciò che scriveva a tal proposito il poeta Biamonti: “Ce n’é voluta di pazienza, pazienza nell’azzurro, per innalzare tutti questi muri”. “Generazioni dei miei vi si sono consumate le braccia”. “Vi sono due Ligurie – pensava – una costiera con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine”.
Anche un altro scrittore/ poeta, Boine, parlava della fatica e della necessità di erigere questi muri: I muri a secco sono la vera cattedrale dei Liguri, attribuzione di significato ad una vita aspra, interamente compresa in un lavoro senza soste, ad una quotidiana fatica fondata su di un’etica del sacrificio che per quegli uomini assumeva quasi carattere di preghiera: “Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza…”.
La vecchia mulattiera della Val Nava la attraversava longitudinalmente un po’ in alto, per meglio sfruttare i piani coltivabili della “conca”, rigidamente intervallati da muretti a secco leggermente arcuati al centro. Oggi è percorribile dall’alto per poche centinaia di metri, poi si perde tra la macchia mediterranea e la si “ritrova” quasi in fondo alla valletta, dove questa “sfocia” in valle Sciusa. Come in genere in tutto l’entroterra agricolo, anche ad Orco sono state abbandonate, dimenticate e perse molte strade antiche. Le nuove asfaltate, l’uso di trattori e mezzi agricoli a motore, hanno reso inutili e inservibili le vecchie mulattiere, che esistono ancora, dove hanno senso, a scopo turistico-escursionistico, ma altrimenti sono dimenticate. Questo è accaduto anche alla Val Nava. Zona a suo tempo fortemente antropizzata, ora risulta abbandonata totalmente. Rimane coltivata solo nella parte alta, più comoda in quanto più vicina alle abitazioni. Anche qui, prima di mollare, si è fatto un ultimo tentativo, che generalmente prolunga i tempi di uso, ma alla lunga non arresta l’abbandono. Si è cercato di dare una nuova accessibilità alla zona. Alcuni proprietari della parte bassa hanno provato a dotarsi di una comoda pista sterrata che potesse facilitare l’accesso ai siti. Questo perché la vecchia mulattiera risultava stretta, scavata e ricavata nella roccia, e non dava accesso ai mezzi a motore. Questa strada è stata tracciata, forse perché non era possibile fare altrimenti, in mezzo alla valletta: ciò ha comportato la necessità di aprire una breccia in tutti i muri a secco. Questo tentativo ha allungato il periodo di uso dei siti, ma poco dopo è arrivato l’abbandono generale.
Purtroppo i tempi sono cambiati, le famiglie si sono trasferite, la campagna è stata abbandonata alla ricerca di lavori più remunerativi e meno faticosi. Il problema non è solo di Orco, ma di tutta l’Italia. Non si può certo biasimare chi è costretto ad arrendersi, ed interrompere il secolare rapporto uomo-terra una volta necessario e direi quasi sacro. Per molti è un abbandono doloroso, quasi un tradimento al passato, ma inevitabile.
Rimane il rimpianto, qui a Nava, cosi come in altri luoghi, sia dell’abbandono totale della zona, e conseguente rovina dei muri, sia del fatto che l’Uomo abbia contribuito agli abbattimenti, in questo caso inutilmente. Una sensazione di malinconia coglie il visitatore, nel vedere l’opera di intere generazioni abbandonata a se stessa. La necessità moderna della comodità, dei trattori, dei mezzi a motore, ha spazzato via molte delle nostre “cattedrali” di muri a secco. Questa non è una colpa, ma una constatazione. L’Uomo non riesce più a vivere, o solo sopravvivere, e deve abbandonare. Allo stesso tempo sono rimaste, e sono ammirabili non senza stupore, le fasce spettacolari poste sotto il Castrum di Orco, a poca distanza, un vero monumento all’opera dell’Uomo, ed un grande elogio va alle generazioni che li hanno fatti e mantenuti. La loro vista ci fa immaginare come potesse essere una volta il paesaggio agricolo.
Fino a quando sarà così? Speriamo che le tenaci famiglie che ancora resistono non ci mollino, e che sia così anche per figli e nipoti. Lo stesso vale per tutti quelli che riescono a conciliare la vita moderna con queste attività e questi monumenti del passato. Che fare, oppure a cosa serve questa riflessione, o altre, che di fatto non cambiano niente? Sicuramente a stimolare la Politica, quella con la P maiuscola. Perchè è la Politica che deve dare delle risposte, ma soprattutto fare delle proposte che possano agevolare la possibilità a chi abbia voglia di sostenere una vita sana ma impegnativa, di potere condurre una vita dignitosa, senza le troppe comodità che offre la vita in centri urbani. E la Politica viene stimolata se esiste una presa di coscienza, una volontà di agire e lavorare in tal senso, con tutte quelle “pressioni” che la democrazia riconosce ai cittadini.
Cosa richiedere agli Enti, dallo Stato, alla Provincia fino al Comune? Proponendo l’attuazione di aiuti, stimoli, incentivi, sgravi e facilitazioni, anche burocratiche. La necessità di un contro-esodo verso la campagna è percepita ancora di più oggi in tempo post-pandemia, dove la vita sana e decontaminata degli spazi aperti si contrappone a quella delle città, frenetiche e affollate, prigioniere del codice rosso e disumanizzate da rigide, e necessarie, regole di isolamento sociale. Il ritorno alla campagna sarà sempre più consigliabile, auspicabile e necessario. I vecchi muretti a secco, quasi tutti, ci aspettano per ricominciare…
Giuseppe Testa