Come era facile prevedere, il governo ha bisogno di soldi e, come trent’anni fa, pensa ad un nuovo piano di privatizzazioni. Eni e Poste sono tra i potenziali candidati, come anche il gruppo Fs. Si stima che dalla vendita di una quota minoritaria di azioni si potrebbero ricavare circa dieci miliardi di euro. Intanto da Genova a Nizza continueremo a viaggiare in auto, su un’autostrada sempre più intasata e con le difficoltà di trovare il parcheggio, in Riviera, una volta giunti a destinazione.
di Massimo Ferrari*
Anche se non è ben chiaro il motivo per cui eventuali investitori dovrebbero entrare in un’impresa le cui strategie continuerebbero (giustamente, a mio avviso) ad essere decise dallo Stato.
Ma non è il caso, in questa sede, di giudicare se una simile scelta possa avere successo e se, in caso affermativo, possa alleviare la posizione dei contribuenti italiani – perlomeno di quelli che le tasse le pagano – gravati da un debito pubblico che somiglia ad un macigno incombente sulle loro teste. Chiediamoci piuttosto se da una eventuale privatizzazione l’utente, ossia il fruitore dei servizi ferroviari, possa sperare in un miglioramento nella quantità e qualità dell’offerta.
Finora in Italia, come pure in altre nazioni europee, abbiamo assistito ad una parziale liberalizzazione, sulla spinta dell’Unione Europea, le cui politiche sono fortemente improntate alla fede nel libero mercato. Una scelta certamente comprensibile, visto il fallimento dell’economia pianificata nella seconda metà del Novecento. Ma che sarebbe un errore assumere a dogma indiscutibile, perché ciò sconfinerebbe nell’ideologia. Che, come altre ideologie già sperimentate in passato, fatalmente producono disastri. Perché le ricette economiche non sono sempre valide per ogni settore, ma andrebbero valutate caso per caso. Come ammoniva un economista brasiliano: “la carota è certamente un ottimo alimento, ma non insistete a propinarla al vostro gatto”.
Come il gatto domestico, anche le ferrovie – ed il trasporto pubblico – sono uno splendido animale, ma atipico, che si comporta in maniera differente dalle altre specie. Le privatizzazioni, in questo settore, sono quasi sempre fallite. La stessa Gran Bretagna, che, al tempo della signora Thatcher, aveva imboccato questa strada (soprattutto per ridurre lo strapotere sindacale), ha poi dovuto correggere il tiro. Altrove, dove si è andati avanti con le privatizzazioni, come nell’Argentina di Menem o nel Messico di Salinas de Gortari, i treni passeggeri sono quasi scomparsi. Forse con qualche beneficio per il contribuente, certo non per chi quei treni intendeva continuare ad usarli.
Il settore è atipico e non gradisce le privatizzazioni, che in altri ambiti hanno avuto successo (come il nostro gatto, che non è un coniglio e che in genere non ama le carote), perché nei trasporti il privato è già presente in maniera massiccia da almeno settant’anni e si chiama automobile. Se lo Stato, magari controvoglia, in tutto questo tempo ha continuato a tenere in piedi le ferrovie – e adesso vuole potenziarle – è perché intende perseguire altri obiettivi che al privato non interessano, come la tutela dell’occupazione (di cui in Italia si è anche troppo abusato), il presidio del territorio, il diritto alla mobilità per tutti e, più recentemente, la tutela dell’ambiente.
Naturalmente non bisogna confondere la privatizzazione con la liberalizzazione, anche se le due politiche spesso viaggiano appaiate. Come sappiamo, in Italia dopo la realizzazione dell’Alta Velocità tra Torino e Salerno, si è deciso di concedere ad Italo – ossia un concorrente privato di Trenitalia – la possibilità di operare in una fascia di mercato in cui il treno era tornato fortemente competitivo con l’auto ed anche con l’aereo. E ciò ha prodotto benefici, perlomeno agendo da calmiere sulle tariffe praticate. Lo stesso sta accadendo ora in Spagna ed anche in Francia.
Ma né in Italia, né in Spagna e neppure in Francia alcun imprenditore privato si sarebbe mai affacciato al settore ferroviario (salvo, forse, per qualche treno di lusso destinato ad una clientela nostalgica, tipo Orient Express) se lo Stato a Roma, a Madrid o a Parigi non avesse investito (molto) per realizzare infrastrutture su rotaia all’altezza dei tempi. E lo stesso rilancio del treno viaggiatori è avvenuto in quelle nazioni che hanno investito molto, con fondi pubblici, nel settore. Siano esse economie socialiste, come la Cina, o economie di mercato, come la Corea del Sud (che adesso può permettersi un operatore privato, in alternativa all’azienda statale, addirittura con una propria linea dedicata, tra Seul e Busan), o, più recentemente, il Messico con il Tren Maya.
Per restare in Italia, solo sulla rete ad Alta Velocità, ancora ben lungi dal coprire l’intero Paese, ci sono le precondizioni per liberalizzare i servizi ferroviari, se non proprio di privatizzarli. A tutto il resto, volente o nolente, deve ancora pensarci la mano pubblica. Vale per i servizi locali, contribuiti appunto dalle Regioni attraverso appositi contratti. E vale per il cosiddetto “servizio universale”, ossia Intercity, treni a lunga percorrenza e treni notturni che lo Stato deve sovvenzionare per non lasciare a terra gran parte delle città italiane. I governi adempiono a questo compito malvolentieri, lesinando sulle risorse, ma, almeno fino a quando l’Alta Velocità non arriverà dappertutto (campa cavallo!), dovranno continuare a sostenere questi servizi, pena violente accuse di abbandono del territorio – altro che autonomia differenziata! – e insensibilità ambientale.
Già adesso ci sono ambiti importanti che, in mancanza di sussidi pubblici (statali o regionali), hanno visto rarefarsi o sparire del tutto i treni passeggeri, pur in presenza di discrete infrastrutture. Ne sa qualcosa, ad esempio, chi volesse spostarsi da Alessandria a Piacenza o da Genova a Parma, relazioni a cavallo tra regioni diverse dove non mancherebbe la domanda che, anzi, un tempo era tutt’altro che trascurabile. Oppure in ambito internazionale, dove ogni impresa pensa esclusivamente alla clientela interna, con l’effetto paradossale di imporre sempre il cambio di treno (neppure in coincidenza) su itinerari potenzialmente molto richiesti, come quello da Milano e Genova a Nizza e Marsiglia o anche semplicemente da Sanremo a Monaco/Montecarlo.
Le imprese ferroviarie nazionali, infatti, hanno frainteso il senso di una sana liberalizzazione: si fanno concorrenza sugli assi forti, come Parigi-Lione (dove adesso opera anche una partecipata di Trenitalia) o tra Barcellona e Madrid (dove l’italiana Iryo e la francese Ouigo cercano di sottrarre clienti all’Alta Velocità spagnola), senza preoccuparsi di offrire un’alternativa all’aereo su relazioni importantissime come la Milano-Torino-Parigi che, interrotta nell’agosto scorso da una frana, sta aspettando i comodi dei francesi per essere ripristinata, visto che da lì ci passavano i nostri Frecciarossa. E senza che Trenitalia pensi ad una strategia alternativa, per esempio istituendo dei treni diretti per la capitale francese (che la prossima estate ospiterà le Olimpiadi), via Svizzera.
Già, ma questo presupporrebbe la cooperazione tra i diversi vettori ferroviari, come normalmente avveniva prima delle chimere liberalizzatrici, mentre adesso sembra più importante realizzare qualche (risicato) profitto ai danni delle consorelle estere, piuttosto che offrire una degna alternativa di viaggio ai propri cittadini ed anche agli stranieri che desiderano visitare l’Italia, non necessariamente in aereo o in auto. Il tutto nel silenzio assordante dell’Unione Europea che, se da un lato si svena per finanziare (giustamente), per ragioni politiche, importanti infrastrutture come la Rail Baltica (una linea ad alta velocità da Varsavia e Tallinn, che intende sottrarre i paesi baltici all’influenza di Mosca), dall’altra non si pone il problema di come quei servizi saranno poi gestiti. Senza prefigurare un accordo di cooperazione e non di concorrenza tra le imprese polacche, lituane, lettoni ed estoni. In nome, naturalmente, del feticcio del libero mercato.
Purtroppo la rigida adesione alle ideologie, senza considerare le eccezioni che contraddicono il mantra ufficiale (come nel caso del povero gatto costretto a mangiare carote) producono sempre disastri epocali. L’Unione Sovietica è collassata (anche) perché pretendeva di gestire con i piani quinquennali persino il commercio al minuto e la distribuzione dei prodotti agricoli. La Cina ha evitato di fare la stessa fine, quando ha applicato il pragmatico indirizzo di Deng Xiao Ping: “non importa che il gatto (tanto per cambiare!) sia bianco o nero, l’importante è che prenda i topi”.
Se le ferrovie europee non si dimostreranno altrettanto duttili, da Genova a Nizza continueremo a viaggiare in auto, su un’autostrada sempre più intasata e con le difficoltà di trovare il parcheggio una volta giunti a destinazione.
Massimo Ferrari – Presidente Utp/Assoutenti