Sui poteri separati e la magistratura. Riflessioni a latere del progetto di Riforma della Giustizia.
di Sergio Bevilacqua
Spesso i giuristi si arrampicano sopra loro stessi, e dimenticano che il diritto e la legge sono strumenti di regolazione dei comportamenti di una società umana (uno Stato, un popolo di persone fisiche e giuridiche, una Nazione), oggi integrata con altre società anche molto diverse e col mondo intero, per di più nel regime diluviano della Quadrivoluzione odierna (globalizzazione, antropocene, mediatizzazione estrema e ginecoforia). Operare quindi correttamente con la legge, sia in produzione che in applicazione, significa essere consapevoli della natura di sistema aperto della società umana, anche se i codici giuridici e le altre fonti del diritto operano più sul versante meccanico, sull’aspetto più chiuso del funzionamento societario: cioè sono destinate a rendere prevedibili i funzionamenti e a limitare le varianze soggettive, sia attraverso la prevenzione che attraverso la repressione.
Ma non c’è né legge senza magistrato, né magistrato senza legge e non c”è Repubblica democratica (art. 1 costituzione) senza separazione dei poteri. Il dibattito tra poteri separati è proprio della democrazia migliore ed è oggetto di continuo lavoro, anche se viene poi formalizzato a fasi alterne rispetto all’andamento della società, al suo hic et nunc. Cioè, a società 1 corrisponderà meglio l’equilibrio A nel momento X, e tutto ciò deve essere considerato dinamicamente.
In contemporanea democrazia repubblicana 1, A e X sono sempre dovuti alla condizione di Popolo, Nazione e Stato anche verso condizioni esterne, e questi assetti devono essere letti e monitorati da organismi di rappresentanza politica e di governo. Il lavoro continuo di adeguamento del tessuto giuridico alle condizioni reali delle società umane richieda un’attenzione particolare e concretamente continuativa. Ciò non avviene solo tramite buoni cervelli, preparati all’Amministrazione (indirizzo e controllo) dello Stato Repubblicano e democratico e alla prassi della formulazione giuridica, ma anche buone organizzazioni di partito, che mantengano stretto il rapporto tra Paese reale e Paese legale, quindi presenti sul territorio e pronti a convogliare l’esigenza popolare nei palazzi del potere (e anche, viceversa, il contenuto dei palazzi del potere al popolo sovrano sulla Repubblica).
Le leggi appropriate, risultato di questo processo organico di funzionamento politico, faranno poi funzionare la magistratura, che le applicherà alle fattispecie concrete. Queste ultime sono oggetti sistemici aperti, rispetto a testi di legge tendenzialmente di tipo chiuso. E, se le leggi devono essere così per non prestarsi e consentire troppe interpretazioni ambigue e salvaguardare il tipo di civiltà prescelta in ambiente repubblicano e democratico, ecco il dispositivo regolatore e pragmatico della professionalità del magistrato.
Ad esempio, sul vettore “Pubblico-Privato”, gli errori di Tangentopoli (alcuni anche gravi forse, su un fenomeno però di ben più grande gravità per il Paese) si spiegano con le carenze delle disposizioni di legge (in particolare, già allora, l’assenza di una legge articolata sul funzionamento dei Partiti). Ad esempio ancora, sul vettore “Privato-Pubblico” le manipolazioni del Diritto civile e Penale attuato tramite il Parlamento per coprire interessi privati nell’epoca dal 94 in poi.
Verrebbe da dire che almeno fino alla Prima Repubblica i poteri separati si rispettavano, pur nella scherma sbagliata: i partiti, il potere politico temevano la magistratura, anche se il ruolo del partito politico nella nostra democrazia è stato stranamente lasciato irrisolto giuridicamente, malgrado la sua configurazione, originalissima e vitale per la democrazia e la Repubblica, di ente pubblico-privato deputato alla connessione della società…
Il “professionista magistrato” detiene una professionalità rigorosamente organizzativa, e il fatto che s’incarni in una persona è perché nell’incarnato si sviluppano le flessibilità necessarie spesso alla Giustizia vera. Dunque, non va confuso, né da fuori né da dentro, nel nostro ordinamento e civiltà sociale e societaria, come un incarico personale (elezione diretta), ma ad-personam sì (concorso pubblico), con doveroso controllo morale (coerenza all’ispirazione istituzionale) e psicologico periodico.
Così, tutti i nostri politicanti, trovando rotta la cinghia di trasmissione tra Paese legale e Paese reale (e guardandosi bene dal ricostruirla…), praticano la condizione conseguente e viaggiano nelle istituzioni con la loro pila a mano anziché alla luce del sole del Paese reale. Divengono così ottimi interlocutori per poteri sovraordinati di tipo politico ed economico. Che pure esistono fisiologicamente e di per sé non sono cattivi o buoni, ma certo fanno gli affari loro, che non sono spesso quelli delle aggregazioni social-societarie di livello antropologico inferiore, di Paese, Nazione e Popolo.
Ancora una volta si intende mettere il carro davanti ai buoi: in una sana Repubblica e anche in qualsiasi democrazia, sono le conoscenze dell’organismo sociale e societario da regolare che costituiscono il contesto pratico della formulazione giuridica e, al suo interno, della organizzazione del sistema giudiziario, coi suoi processi e le sue norme.
Le formule sono espressioni spesso avulse di esercizio logico, dalla base solo filosofica e ideologica, mirata a comportamenti tipici di schieramento destro o sinistro, ridotti a ideologia, e non a forma organica di cura della società qui e ora. Illusioni di matematica societaria che non funzionano… Invece, funzionerebbe una politica ove i partiti fossero espressioni dell’humus socioeconomico di rappresentanza e, mantenendo doverosamente il colloquio con il popolo dei cittadini elettori e titolari della Repubblica, lavorassero nel concreto storico della società e non nel teorico della ideologia oppure seguendo interessi opportunistici.
Senza popolo coinvolto da buoni partiti non ci sono nè democrazia, né repubblica e nemmeno i fondamenti per una buona giustizia.
Sergio Bevilacqua