Festività in Liguria. Il brodo di Cima va a nozze con i maccheroni di Natale. Ma resta un caso irrisolto: c’è amore o meno con i tortelli emiliani?
di Antonio Rossello, con la consulenza di Natalino Codatozza
Predisponetevi ad un giallo gastronomico, consumato cripticamente sulle tavole in questo momento imbandite di Liguria ed Emilia-Romagna, tra colpi di scena, umorismo e sapori strepitosi.
Secondo voci incontrollate, non è ben chiaro se ci sia amore o meno tra il brodo di Cima e i tortelli emiliani.
Brodo avanzato dopo che, in Emilia, qualcuno si è pappato la Cima ricevuta dalla Liguria, senza poi spedire in cambio i tortelli promessi?
Oppure è valida l’ipotesi investigativa formulata da un esperto in materia, Natalino Codatozza?
Onde superare le aporie cui inevitabilmente è destinata l’indagine nel momento in cui comincia l’analisi degli indizi e si accetta la sfida del lettore fin qui scettico, a questo punto è necessario un inquadramento del contesto.
Misurata nei condimenti e non aggressiva nei sapori, la cucina ligure viene definita “cucina povera” da chi ne fraintende la natura, perché la povertà è in realtà la sua ricchezza.
Essa rispecchia abbastanza il carattere dei Liguri, persone che, al primo approccio, possono risultare rudi e poco avvezze alle formalità. Persone riservate, che non te le mandano a dire. Tuttavia, gente seria, gente degna di stima, gente che non imbroglia e puntualmente mantiene i patti.
All’insegna della tradizione, in occasione di Natale, Pasqua e di ogni festività importante, fino a non molto tempo fa, veniva preparata in casa la Cima alla genovese, chiamata ”a cimma” in dialetto ligure. Tipico piatto di recupero (in quanto si utilizzavano i vari avanzi nella sua preparazione), sebbene, alla prova dei fatti, pietanza raffinata e di grande delicatezza.
Anche nella mia famiglia, si era soliti portarla in tavola come piatto della domenica, secondo la ricetta originale: realizzata con una fetta di petto di vitello aperta su un lato, motivo per cui viene anche detta tasca, e farcita con un composto a base di carne, prosciutto cotto, pinoli, mollica di pane, piselli, uova ed erbe aromatiche; il tutto viene poi lessato e può essere servito sia caldo che freddo.
Una delle massime raccomandazioni, cogliendovi pure un segno della nota parsimonia regionale, era quella di non buttare via il liquido di cottura, e piuttosto di congelarlo, poiché è una vera delizia, tanto che molti genovesi usano solo ed esclusivamente il brodo di Cima ripiena per la preparazione dei tipici maccheroni di Natale.
Così si apre una ulteriore importante parentesi culinaria: la minestra genovese coi cosiddetti maccheroni di Natale è infatti uno dei più antichi e tipici piatti della nostra regione, una delle nostre più ricche preparazioni per gusto e sostanza.
Di formato del tutto particolare, anche se un poco somigliante a quello degli ziti napoletani, questo tipo di maccheroni è fatto di pasta di semola di grano duro. Larghi, lunghi e tagliati di sbieco, sono altrimenti detti “natalini” e vengono spesso anche preparati asciutti, in forno e impiegati nei timballi.
Quantunque si usi prevalentemente il brodo della Cima, c’è chi preferisce utilizzare quello di cappone (in questo caso arricchito con la carne), come si fa nella preparazione degli agnolotti alla piemontese.
Almeno fino ad oggi, non è però dato di sapere se il brodo di Cima si accompagni bene o meno con i tortelli emiliani di produzione originale, casalinga o affine, salvo qualche timida prova fatta con quelli comprati al supermercato.
In questo modo si conclude questa vicenda, realizzatasi cripticamente per celia a livello locale ed interregionale, che, se non costituirà uno degli episodi salienti della storia d’Italia, sicuramente comporta un doveroso richiamo a mantenere la parola data, come premessa di ogni reciproco scambio.
Dovendo esporre in modo preciso e circostanziato gli aspetti fattuali, come afferma il summenzionato Codatozza, recentemente è avvenuto che, dall’area emiliano-romagnola, ci è stata propinata una supposta ricetta culinaria fatta risalire addirittura a Gengis Khan, ma purtroppo il piatto in questione era costituito unicamente da parole.
La buffa situazione ci ha portato a riflettere e a considerare come certi equivoci del passato, anche lontano, possano riverberarsi nel presente ad opera di menti smaniose di proporre fantasie per apparire notevoli (ossia cime oltre che sbafatori di Cima?).
Forse che la famigerata pietanza giunse in Emilia-Romagna quando l’orda d’oro, affacciandosi sull’adriatico con le proprie bandiere, diede origine alla ben nota leggenda del regno del prete Gianni?!?
Per la verità, a riprova dell’inconsistenza del tutto, l’evocazione del piatto non è stata accompagnata da alcun riferimento, neppure di fantasia, che stabilisse un nesso tra la classica ricetta emiliana ed il condottiero mongolo.
A pensarci bene, pare proprio metaforicamente trattarsi di: “tortelli del prete Gianni in brodo di Cima”.
E sebbene, entro il Natale, non sia ancora stato possibile per noi trovare un interlocutore capace di stabilire un confronto effettivo su brodo di Cima e tortelli, non ci deve venir meno la speranza.
Dalla Liguria, pertanto ulteriormente restiamo a disposizione per il Capodanno. Addirittura, con la possibilità di estendere il tiro a focaccia da un lato e gnocco fritto, anolini o cappellacci dall’altro.
Tutto ciò, in particolar modo, perché non possiamo permettere che le relazioni enogastronomiche interregionali giungano a un triste e inaspettato tramonto, sotto il peso di farloccate o impegni disattesi, e in seguito all’incalzare di nuove, e forse insane, concezioni alimentari del Globantropocene mediatizzato.
Antonio Rossello, con la consulenza di Natalino Codatozza
Buone feste a tutti!