Il cosiddetto Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa continentale intrapreso da intellettuali e benestanti europei a partire dal XVIII secolo, che aveva di solito come destinazione l’Italia. Il termine “turismo“, e più in generale il fenomeno dei viaggi turistici odierni come cultura di massa, ebbero origine proprio dal Grand Tour.
di Tiziano Franzi
Trattandosi di turisti provenienti dal centro o nord Europa la Liguria fu una delle loro mete preferite, soprattutto per il fascino che il mare e il paesaggio mediterraneo esercitavano su di loro. Molti di essi (quasi tutti per la verità) tennero un diario di questa esperienza; i loro appunti talvolta erano accompagnati da schizzi o disegni. Per le oggettive difficoltà di spostamento in quegli anni, durante il viaggio si potevano incontrare difficoltà, che potevano trasformare l’avventura dell’itinerario in una disavventura, per fortuna temporanea e risolvibile. Ma anche questo era (ed è) un elemento stimolante del viaggio stesso. Quando questo prevedeva un tragitto in mare, solitamente ci si serviva di piccole imbarcazioni per il cabotaggio sottocosta e per questo la feluca era l’imbarcazione più adatta allo scopo.
“La feluca è un’imbarcazione tipica del Mediterraneo, largamente diffusa soprattutto nel Settecento. La sua tipologia varia nel tempo e acquista caratteristiche locali; nell’alto Tirreno e sulla costa ligure si afferma un modello piuttosto uniforme: va a vela e a remi e per la forma e l’attrezzatura ha qualche affinità con la galera, di cui è però molto più piccola. Le feluche portano fino a dodici remi per lato e hanno comunemente due alberi: maestro e trinchetto, talora leggermente inclinati in avanti di circa tre gradi, con due vele triangolari o vele latine, fissate lungo il lato maggiore a un’antenna che supera di molto la lunghezza dell’albero; a prua sporge, solitamente fissato, un lungo palo tondo di legno detto flèche, il cui uso è quello di assicurare la vela di trinchetto, permettendo di manovrare il cordame anteriore. […] I rematori non vogano seduti sulle panche, come accade nella maggior parte delle imbarcazioni a remi, ma, tolti i pannelli dai boccaporti, si siedono direttamente sulle traversine dei boccaporti e poggiano i piedi sopra altri travetti sistemati, per questo scopo, di traverso a metà dell’altezza della stiva.[…]
Prima di partire, occorreva adempiere a due formalità: munirsi di un passaporto e di una fede di sanità, forniti dal comandante della piazza. Il prezzo del viaggio da Antibes a Genova ammontava da 8 a 12 zecchini, o quattro ghinee, o quattro luigi d’oro, a seconda delle valute; in franchi francesi lo stesso biglietto poteva variare dai novantaquattro ai centoquaranta franchi. Prezzi alti, che però prevedevano l’uso libero ed esclusivo della feluca; e in ogni caso per diminuire i costi restava sempre aperta la via della lunga e tenace contrattazione; il patron era costantemente a corto di denaro liquido e spesso si riuscivano a spuntare condizioni più favorevoli. […] Inoltre ogni passeggero doveva provvedere in proprio alle vettovaglie, che dovevano essere acquistate con larga abbondanza rispetto alla brevità del viaggio, dato che i rischi imprevedibili della navigazione potevano dilatare i tempi e, soprattutto, impedire gli scali intermedi.[…] Erano considerati indispensabili: essenza di caffè, zucchero, brandy, vino, molto pane, frutta secca se la stagione lo consente, altrimenti uova e formaggio. Inoltre presso le botteghe italiane e francesi ci si poteva rifornire di un eccellente pasticcio di carne piccante. Da aggiungere ancora: lingua affumicata, prosciutto, salsiccia, burro, pollami e carne vaccina. Questi cibi dovranno essere conservati con cura in ceste diverse e divise in compartimenti. Quanto al presidio igienico sanitario, il flagello più comune della navigazione era il mal di mare . [Chi consigliava] una fiala contenente una piccola quantità di etere vetriolico da assumersi in gocce con un bicchiere d’acqua; altri di appiattirsi sul fondo, restando aderenti alla barca, fermi con gli occhi chiusi. Anche l’alimentazione è importante: non piatti grassi né vino rosso, piuttosto limone e zucchero e come bevande, succhi d’arancia con qualche goccia di essenza di quisquiamo. […]
Ecco che cosa annotano del loro soggiorno in Liguria, soprattutto nella Riviera di Ponente, alcuni protagonisti del Grand Tour.
Giuseppe Baretti ( 1719-1789) critico letterario, traduttore, poeta, giornalista, drammaturgo, lessicografo e linguista. Di origine italiana, trascorse gran parte della vita a Londra. Nel 1760 decise di tornare in patria, intraprendendo un lungo viaggio attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia. Nelle pagine seguenti racconta il suo itinerario da Antibes a Genova.
Antibes, 12 novembre 1760- Il nostro bagaglio proprio adesso viene imbarcato su una feluca che abbiamo noleggiato fino a Genova. Il Governatore ci ha promesso i passaporti e la fede di sanità per domani. Dio voglia che il vento e la pioggia che da Cannes a qui non ci hanno mai lasciato possono cessare stanotte. Sono impaziente di essere in viaggio per Nizza per sentirmi sotto i piedi la terra italiana: il tragitto non è più di sei miglia e noi facilmente potremmo essere a destinazione domani sera. Ma invece può darsi che una violenta tempesta, che infuria da ventiquattro ore, ci tenga ancora fermi qui per giorni.
Nizza, 14 novembre 1760- Nei miei viaggi uno o due volte ho corso il rischio di perdere la vita; ma non avevo mai visto la morte così da vicino come ieri pomeriggio, quando lasciata Antibes eravamo sulla via di Nizza su una feluca con dodici rematori. […] Siamo usciti dalla rada verso mezzogiorno. Il vento aveva ancora molta della forza con cui aveva soffiato per tutta la notte. Avevamo appena fatto quattro miglia, quando un furioso libeccio, o vento del sud, c’è piombato addosso, spingendo verso la costa onde così grosse che i nostri marinai si fecero assai pensierosi, continuando a vogare nel più cupo silenzio. […] Sgobbando tre ore sui remi e cercando di non accostarci troppo a terra arrivammo al largo di Nizza. Grazie alla mia lunga vista vidi i due lati della rada pieni di gente che, come poi mi dissero, ci stava a guardare con grande stupore, convinta che non avremmo tardato a sbattere contro uno scoglio. Ma quello che rendeva disperata la nostra situazione era che quella gente, non potendo credere che ci fosse qualcuno così temerario da uscire da Antibes con un tempo simile, si era messa in testa che dovessimo far parte dell’equipaggio di qualche vascello pirata di Barberia e ci fossimo separati per qualche motivo della nostra nave. […] Ma il maltempo e il mare impedirono per un bel po’ che la gente dalla riva ci vedesse distintamente e perciò quelli se ne stettero a lungo senza fare il minimo gesto in nostro favore: e intanto noi eravamo sempre più vicini al luogo dove avremmo trovato la nostra inevitabile rovina. Alla fine, come Dio volle, riuscirono a scoprire che eravamo vestiti all’europea. Appena si convinsero che non eravamo africani, misero in mare una barca con venti rematori e ci vennero in soccorso; i nostri uomini, vedendoli, ripresero coraggio e si misero a remare con più forza per impedire alla feluca di avvicinarsi ulteriormente a quel maledetto scoglio. Ci gettarono una cima che per fortuna afferrammo al primo colpo e legammo subito all’albero: se l’avessimo mancata, un minuto più tardi saremmo stati perduti. Raggiunto il più vicino albergo su portantine, ci siamo fatti mettere subito a letto; oltre alla paura, eravamo del tutto sconvolti per il rollio della feluca che aveva procurato a tutti il mal di mare. Nonostante tutto, dopo un paio d’ore di riposo, eravamo perfettamente ristabiliti, al punto da poter mandar giù un brodo e poi ci siamo messi a dormire; ma il mio sonno non fu tranquillo: non riuscivo a togliermi davanti l’immagine dello scoglio schiumeggiante.”
Giacomo Casanova ( 1725-1798) dopo un breve soggiorno genovese, nell’aprile 1763 decise di partire per Marsiglia, dove lo attendeva la marchesa d’Ufré. Lo accompagnavano il fratello, l’amico Passano, alcune ragazze , di cui una sua nipote (?) e il servitore Clairmont.
“1763- Avevo fatto portare sulla feluca provviste per tre giorni. L’imbarcazione, abbastanza grande, aveva dodici rematori ed era armata di due cannoncini e ventiquattro fucili, per poterci eventualmente difendere contro i corsari. Clermont aveva sistemato i bagagli e tutto il resto, ivi compresa la mia carrozza, con tanta abilità che c’era rimasto il posto per cinque materassi: così avremmo potuto dormire comodamente ed anche spogliarci, come in una camera, tanto più che con noi avevamo grandi cuscini ed ampie coperte. Una lunga tenda di saia copriva tutta la barca e due lanterne erano sospese ai due capi del palo che sosteneva la tenda. Appena si fece buio accendemmo le lampade e Clermont ci servì la cena. Io comodamente seduto fra le mie due damigelle, servivo i miei convitati: mia nipote per prima poi Marcolina e quindi Passano. Era vietato annacquare il vino, e vuotammo una bottiglia di ottimo Borgogna ciascuno. Dopo cena il vento era molto debole, ma mettemmo ugualmente la vela per far riposare i rematori e ci preparammo per la notte. Quando tutto fu pronto, feci spegnere le lanterne e i miei due angeli si addormentarono abbracciati a me. Il chiarore dell’aurora mi svegliò alle cinque. Avevo sempre accanto le due belle, nella stessa posizione in cui si erano addormentate, ma non potevo coprire di baci nè l’una nè l’altra, perché la prima passava per mia nipote e l’altra era una ragazza che un sentimento di umanità mi impediva di trattare come un’amante in presenza di mio fratello, che l’adorava e non aveva ottenuto nulla da lei. Lui, peraltro, accasciato dal dolore dal mal di mare che gli rivoltava lo stomaco e gli faceva vomitare tutto quel che aveva dentro, se ne stava immobile al suo posto e cercava di controllare se sotto coperta succedeva qualcosa. Dovevo aver pietà di lui: preso dalla disperazione, avrebbe potuto anche gettarsi in mare ed annegare.[…] A mezzogiorno pranzammo e alle tre ci venne voglia di sbarcare a Sanremo. Tutto l’equipaggio fu contento della cosa e me ne fu grato. Entrammo in porto e dopo aver ordinato che nessuno lasciasse la feluca sbarcai con le due ragazze. Mia nipote non poteva trattenersi dal ridere in faccia a quel miserabile di mio fratello, che continuamente tirava fuori di tasca uno specchio e sospirava vedendosi così sciupato dal mal di mare. Una volta a terra, condussi le ragazze all’albergo e ordinai del caffè, […] poi ritornammo sulla feluca. Il vento era contrario e dovemmo andare a remi tutta la notte e siccome il mare si era fatto cattivo, alle otto del mattino decisi di fermarmi a Mentone. Le mie due giovani amiche stavano male e io ero l’unico a non avere disturbi. Feci chiudere il sacchetto di Marcolina nella mia valigia e scesi a terra con le ragazze dicendo a Passano che sarebbe potuto sbarcare anche lui con mio fratello. Scendemmo in un albergo e mia nipote e Marcolina si gettarono subito su un letto. Quanto a me, saputo dall’albergatore che il principe di Monaco era a Mentone con la principessa, decise di fargli una visita. ”
Thobias Smollett (1721-1771) scrittore, storico, traduttore e medico chirurgo scozzese. Nel 1766 pubblicò il libro Travels trought France and Italy, formato da quarantuno lettere, di cui otto riguardano l’Italia, che raccontano la sua esperienza di viaggio, con un contenuto spesso espresso in tono aspro e sprezzante.
” Nizza, 1 gennaio 1765- Presi a nolo una gondola per andare da Nizza a Genova. La gondola è più piccola di una feluca; l’equipaggio consiste di quattro rematori e del patron che sta al timone. Mi assicurarono che la barca era leggerissima e avrebbe percorso il tratto di mare a grande velocità; il patron mi fu raccomandato come uomo onesto e bravo marinaio. Ci imbarcammo al principio di settembre, accompagnati da un solo domestico. Mi ero premunito del necessario passaporto, firmato e bollato dal nostro console e di sue lettere di raccomandazione per i Consoli inglesi di Genova e Livorno, precauzione utilissima a tutti i viaggiatori nel caso di qualche accidente per via. Salii a bordo coi miei compagni alle dieci della mattina, mi fermai una mezz’oretta nella baia di Santo Ospizio, nel villino di un amico, e sul mezzogiorno entrai nel porto di Monaco dove il patron fu obbligato a pagare il passaggio. Il genovesato comincia a Ventimiglia, altra città costiera che dista venti miglia da Nizza; questa circostanza le dette il nome. Dopo aver passato le città di Monaco, Mentone, Ventimiglia e parecchi altri luoghi di minore importanza che si stendono lungo la riva, ci dirigemmo verso San Martino, con un venticello favorevole e avremmo potuto percorrere altre venti miglia prima del cadere della notte, se le donne non fossero state assalite dal mal di mare e dalla paura per agitarsi dei flutti. Il signor R. ne fu così sconvolto che in segreto chiese al patron di prendere terra Sanremo, col pretesto che in nessun altro luogo, fino a Noli, quaranta miglia lontana, avremmo potuto trovare un albergo decente. Sbarcammo dunque e fummo condotti alla Posta che, a quanto ci assicurava il nostro gondoliere, era il miglior albergo della Riviera. Per una scala stretta, buia e ripida si salì in una specie di bettola con una tavola lunga e dei banchi, così sudici e miserabili che sarebbe stata una vergogna anche nella peggior taverna d’Inghilterra. Neppure un’anima si presentò a riceverci; e questo è un complimento che non si deve attendere in Francia e molto meno in Italia. La nostra guida entrò in cucina per domandare a un servo se ci potevano alloggiare tutti. Quelli rispose che non lo sapeva perché il padrone era fuori. Quando poi gli fu chiesto dov’era il padrone, l’altro rispose E’ andato a passeggiare. Intanto fummo costretti a sederci in quella stanza fra i marinai e i mulattieri. Finalmente l’albergatore arrivò e ci fece capire che poteva accomodarci per l’alloggio. Nella stanza a me destinata vi era appena spazio per due letti, senza cortine e lettiere, una vecchia tavola tarlata, coperta di fichi secchi e una coppia di sedie sgangherate. I muri, una volta imbiancati a calce, erano ornati di ragnatele e picchiettate di sudiciume di ogni genere e credo che il pavimento non fosse stato spazzato da mezzo secolo almeno. Si cenò orrendamente in un’altra stanza, degna compagna, in ogni senso, della prima. I cibi erano malissimo cotti e serviti nel modo più trascurato. Non dovete aspettarvi né pulizia né comodità di nessuna specie in questo paese. Il giorno seguente il vento era tanto forte da rendere pericoloso il proseguire e perciò fummo costretti a passare altre ventiquattro ore in quelle piacevoli condizioni. […] La sera toccammo il capo Noli, ritenuto molto pericoloso quando tira vento. È un monte o rupe altissima perpendicolare sul mare che la bagna e corrode in molti punti, formando numerose caverne. Il promontorio si estende per circa due miglia, qua e là frastagliato in piccoli seni o baie, con una stretta striscia di spiaggia sabbiosa fra esso e il mare. Quando il vento è forte, nessuna feluca si azzarderebbe a doppiarlo: i flutti che si infrangono con impeto contro la roccia e le caverne, che risuonano cupamente, producono un frastuono tanto terribile e agitano le acque con tale violenza che non si può non rimanerne impressionati.[…] Vi farà meraviglia che non si scendesse a terra prima, se non altro per prendere qualche alimento, ma il fatto è che nella barca avevamo una buona provvista di prosciutto, lingue salate, polli arrosto, cacio, pane, vino e frutta. Avemmo anche la previdenza di fornirci di una generosa dose di acquavite, o cognac, per uso dei rematori, i quali si aspettano sempre di godere gli agi dei viaggiatori. Però quei pezzenti morirebbero di fame piuttosto che mettere in bocca il minimo boccone di carne in un giorno di magro. Spesso ne ho fatto l’esperimento, insistendo perché mangiassero qualcosa di grasso il venerdì o il sabato, ma essi hanno rifiutato sempre, dando manifesto segno di orrore, gridando: “Dio me ne liberi !” o altre parole simili. Di più, notai che neppure uno di quei poveri diavoli pronunciava mai una bestemmia o una parola indecente. Essi non avrebbero mai acconsentito a imbarcarsi una mattina senza aver prima ascoltata la messa; e quando il vento era contrario, essi partivano cantando un inno alla Vergine o a sant’Elmo, battendo il tempo coi remi mentre cantavano.”
James Edward Smith ( 1759-1828 ), inglese, naturalista e botanico. Nel 1786 intraprese il viaggio in Europa, con una lunga presenza in Italia.
“21 dicembre- Alzatosi un vento favorevole, partimmo da Monaco alle cinque, che l’alba non era ancora spuntata, e prima delle nove eravamo a Sanremo, distante otto miglia. Il rollio dell’imbarcazione era così forte che trassi ben poco giovamento dal rimedio di sdraiarmi sul fondo. Pur penzolante fuori dal bordo di poppa, anche allora pensai che le mie sofferenze fossero ampiamente compensate dalla visione della luminosità del mare a quell’ora: era la prima volta che avevo l’opportunità di fare un’esperienza del genere e superò davvero ogni mia aspettativa. L’intera massa d’acqua, laddove era meno agitata, sembrava fuoco liquido e una gran quantità di oggetti che fluttuavano in essa si potevano seguire con lo sguardo fino a una notevole profondità: purtroppo il sorgere del giorno mi privò di quel raro e curioso spettacolo. Nulla mi irritò quanto sentire i commenti dei marinai che attribuivano il mio malessere alla paura ; se uno soffriva di mal di mare, sapevano solo dire: “Il craint la mer “, “Ha paura del mare.” In realtà io non provavo alcuna sensazione di pericolo, mentre quelli che hanno veramente paura di solito il male non lo sentono neppure. E mi arrabbiavo ancora di più quando, con il pretesto del mio mal di mare, decisero di fare scalo a Sanremo, mentre io volevo assolutamente tirare diritto per Genova, impaziente di arrivare in quella città così famosa, dove avrei finalmente potuto chiacchierare con un vecchio amico e ricevere lettere da casa. A Sanremo, comunque, la nostra pazienza fu messa a dura prova, perché nel pomeriggio il mare divenne così agitato che il comandante non volle correre rischi. Prendemmo alloggio in una miserevole locanda sulla spiaggia, in mezzo a boschetti di cedri e limoni; ma io non ero nello stato d’animo giusto per apprezzarli. Tirava un vento forte e gelido. La stanza non aveva camino e il riscaldamento era affidato a uno scaldavivande dove bruciava carbone di legna. Le finestre, salvo che nella parte superiore, non avevano vetri ma solo imposte di legno e i letti non avevano cortine.”
Selina Martin, irlandese; nel 1819 si reca in Italia per raggiungere a Roma la famiglia della sorella; il lungo e travagliato viaggio durerà fino al 1822.
” 1819- Tornata a bordo, mi chiusi nella mia cabina , che- devo dirvelo- ha due porte, di cui una scorrevole dà sull’esterno e non ha serratura. Non andai neppure a letto, avendo da sbrigare qualche faccenda per la partenza fissata alle quattro del mattino. Tutto era tranquillo. Nessun suono giungeva alle mie orecchie, tranne il forte russare del capitano dalla cabina vicina. La notte era profonda, quando cominciai a sentire un rumore di passi che lievemente scricchiolavano sulla scala. Calmai la paura pensando che si trattasse di un marinaio venuto a rubare del rum o altre provviste del capitano, un’azione che avevo motivo di credere abituale. Stavo ancora in ascolto, quando all’improvviso la porta si aprì e apparve il volto di un marinaio con un’espressione tetra che avevo notato spesso. Per la prima volta da quando ero salita a bordo ero davvero terrorizzata. Chiamai il capitano e l’uomo si inginocchiò pregandomi, per amor del cielo, di non dir niente, perché lui aveva solo l’intenzione di accendere la candela: cosa del tutto improbabile, dato che non poteva certo immaginare che a quell’ora così tarda io fossi in piedi con un lume. Senza dubbio era venuto a sapere che quel giorno avevo ricevuto dei soldi e la sua vera intenzione era quella di derubarmi, ma io nascosi i sospetti e ne accennai solo vagamente al capitano che si era subito alzato. Subito dopo mi coricai, ma non presi sonno. Un paio d’ore più tardi sentii ancora i piedi sulla scala e la porta che si muoveva. Urlai di nuovo, il rumore cessò e non si ripete più. Alle tre e trenta il capitano mi chiamò per farmi salire sulla barca che mi doveva condurre alla feluca.”
James Holman ( 1786-1857) entrato giovanissimo nella marina britannica, si ammalò e perse la vista, anche se non completamente; per questa ragione si fece conoscere ai suoi lettori come il “viaggiatore cieco”. Dal 1819 al 1821 intraprese un lungo viaggio in Europa, con un soggiorno in Riviera. Nel racconto seguente è con una occasionale giovane compagna di viaggio.
” 1821. Viaggio a Genova.- Una volta a bordo, dopo un pasto come si deve, ci sdraiamo sui materassi come la notte precedente: io sulla panca, la signora sul pavimento, il capitano e l’equipaggio a prua. Il vento, forte e freddo per tutta la notte, sul mattino diminuì e spirò a favore; così alla prima luce, levate le ancore e usciti dal porto, bordeggiammo tutto il giorno lungo costa, facendo quello che i marinai chiamano “una gamba lunga e una corta ” o, per essere capiti meglio ” una virata lunga e una corta “, dato che il vento si manteneva tre gradi alla nostra destra. In serata rinforzò, accompagnato da una fitta pioggerella. Verso le otto il vento crebbe a tal punto che il capitano pensò bene di cercare un riparo per la notte, come d’abitudine; ma si era fatto così buio che mentre si affrettava verso un approdo conosciuto, la feluca toccò terra sottovento a ridosso di una piccola isola disabitata. Tutti i marinai e il capitano stesso levarono alte grida e ciascuno pensò che quell’errore sarebbe stato fatale. Tuttavia ce la cavammo, assicurando la barca alle rocce con un’ancora; e fu una vera fortuna, perché il vento crebbe ancora fino a diventare una tremenda burrasca con pioggia battente, che durò per tutta quella notte e il giorno dopo e anche la notte successiva . Io ebbi un gran da fare per calmare la mia compagna di viaggio che, come si può immaginare, era spaventata a morte; per questo motivo spostai il mio materasso dalla panca al pavimento e lo feci anche per necessità, dato che la precedente sistemazione era troppo esposta al vento freddo e alla pioggia. La nostra cabina non era una stanza chiusa, ma coperta con un telone come un carro, e alle due estremità protetta contro il maltempo da due tendoni di tela. Alla fine ebbi il piacere di essere riuscito nel mio tentativo di tranquillizzare la signora, la quale poi mi ricompensò largamente con i modi cordiali e con la sua piacevole conversazione. Il tempo passò come una lunga nottata: faceva freddo e per difenderci dal vento e dalla pioggia ci stringemmo l’un l’altra. Come capita ai nostri marinai nelle spedizioni del nord, durante questa specie di segregazione non c’era differenza tra pranzo e colazione, ed era facile offrire le mie provviste indifferentemente per l’una o l’altra occasione. Quanto al sonno, dormivo meglio di giorno, quando le paure della signora erano meno sul chi vive : di notte invece, quando il mare picchiava un po’ più forte, lei si metteva a gridare terrorizzata: ” Monsieur, monsieur, nous sommes contre les roches!”; e io avrei dovuto avere un cuore di pietra per non lasciarmi andare a ogni tipo di conversazione. E davvero ebbi la soddisfazione di pensare che le assicurazioni della mia lingua viva le giovasse non meno del conforto procuratore dalla mia lingua morta [cibo ], che senza dubbio contribuì molto efficacemente a ridarle forza e coraggio: infatti fin dall’inizio avevo capito dalla leggerezza della cesta che le sue provviste non sarebbero state sufficienti per un viaggio così prolungato ; e, secondo l’espressione dei marinai, la signora correrebbe il rischio di provare il vento del sud nella borsa della spesa.[…] Sabato, subito dopo l’alba, la signora sbirciando da un buco della tenda, vide l’alberatura della feluca scorrere davanti alle piante sulla riva e capì che ci stavamo muovendo. Immediatamente chiamò a gran voce il capitano. Noi sulle prime attribuimmo le sue grida alla paura, ma ben presto ci accorgemmo che la barca stava andando davvero alla deriva, trascinandosi dietro l’ancora e allontanandosi dal litorale. Chiamati tutti gli uomini, l’ancora fu recuperata. Nel frattempo per fortuna il vento, pur restando contrario, si era un po’ calmato, tanto da permetterci di alzare le vele. Nel corso della giornata si fece ancora più favorevole, e verso le sedici doppiammo capo Noli, pur costretti a qualche virata per riuscire nell’impresa. Udendo il mare che si infrangeva contro le rocce e ruggiva nell’incavo delle grotte, potevo pensare di essere a un passo dal naufragio; ma fintanto che i marinai non manifestavano paura io ero tranquillo: loro potevano usare gli occhi; è certo avrebbero evitato ogni rischio. Il carattere del marinaio italiano è assai diverso da quello inglese: il primo per paura perde la testa e nella confusione crea altra confusione; l’altro, fin tanto che la barca resiste, mantiene la presenza di spirito e si preoccupa solo di utilizzare le proprie energie per ottenere il risultato migliore . ”
Francesco Salino fu un viaggiatore appassionato soprattutto di grotte. In questa sua relazione del 1887 racconta un viaggio per mare all’isola di Bergeggi, dandone una descrizione molto precisa, che non trascura neppure alcuni dati scientifici.
“1887- Io ho una predilezione per le isole, le grotte e i monti, eppure, benché siano nove mesi che mi trovi in una casa che guarda il golfo di Vado, di dove alla distanza di 10 km in linea retta scorgo l’isoletta di Bergeggi , e poco più vicino l’apertura della grotta in riva al mare, eppure fino ad uno degli scorsi giorni non mi recai a visitare quello scoglio attorniato dal mare per il giro di 1 km e la bella grotta cantata dal Bondi e da egli chiamata di Vado.
Il modo migliore di recarsi all’isola da Savona per chi non teme il mare si è di noleggiare una barca, e ve ne sono molte comode e fatte appositamente per gite di piacere; se il vento è propizio in una velata di un’ora si può arrivare, altrimenti con quattro robusti rematori il tragitto si fa in due ore. Io lo combinai diversamente. In compagnia di diverse persone di mia famiglia partimmo con un omnibus, che ci portò alla stazione ferroviaria di Bergeggi, percorrendo una stretta via nazionale, parte incassata fra i muri che chiudono i giardini laterali e parte scoperta, ma sempre polverosa.
Quanto sarebbe desiderabile una via aperta ed ombrosa in riva al mare, che da Savona conducesse a Vado! […] Fecimo deporre le provviste per una refezione sull’isola e, scesi tutti nella barca, i rematori dettero vigorosamente dei remi ed essa dolcemente scivolò sulle onde marine allontanandosi dalla riva. Il tratto di mare che separa il punto di partenza dall’isola è di soli 1600 metri e dalla grotta 1000. Dalla spiaggia il villaggio di Bergeggi non comparisce, ma pochi metri sul mare si vede adagiato sul pendio di Monte sant’Elena (metri 339 sul mare) tra olivi, fichi, gelsi e viti a foggia di gradinata, col primo gruppo di case a metri 59 d’altitudine, col terrazzo di Villa Marconi a metri 103 e la chiesa parrocchiale di San Martino a metri 131 sul livello del mare.
Nel mentre la barchetta vogava, domandai se si avessero notizie o tradizioni popolari sulla grotta di mare e sull’isola, ma nessuno seppe soddisfarmi, tranne l’ex sindaco, chi mi raccontò come anticamente l’isola fosse abitata dai monaci ed ora non esisteva altro che le rovine di un’antica chiesa e di un’antica torre ed un pozzo molto profondo nel quale, soggiunse uno dei barcaioli, v’era un trabocchetto dove facevano perdere gli uomini…
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Possibile!- esclamai io
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Sissignore- rispose tosto il barcaiolo e tutti gli altri affermarono; soggiunse poscia: e una prova di ciò l’ebbimo per una scoperta fatta non è molto tempo, nel piantare una piccola vigna, essendosi trovate ossa umane con una gamba attaccata e un cerchio di ferro fisso al muro.
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Forse son cose dei tempi dell’Inquisizione – sentenziò un altro.
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Potrà darsi, dissi, ma che il pozzo fosse un trabocchetto non lo posso credere perché in un isolotto come questo, se volevano spacciare una persona non avevano bisogno di far uso di un tale tranello. Ma vedremo, conchiusi, quando saremo sul luogo. […]
Uscendo dalla grotta per girare il promontorio la navicella passa fra diversi scogli che si prolungano in mare, e che da Savona pare si trovino nella direzione dell’isola; ma da tale promontorio alla medesima corre ancora uno spazio verso sud-ovest di 600 metri circa.Oltrepassati li stessi scogli il promontorio ergesi a picco per una altezza da 20 a 30 metri ove passa lo stradone, rimanendo la roccia scoperta, per cui permette osservare essere composta di un calcare bigio a grosse stratificazioni inclinate verso il mare e che prospettano l’isola. […]
Dopo visitate tali curiosità dirigemmo la prora all’isola di dove il canale che la separa dal promontorio non misura più di un centinaio di metri. L’isola si presenta scabra e composta di stratificazioni che s’inclinano verso il promontorio. […] La barca approda contro di una roccia ove presentasi di prospetto un incavo a guisa di piccola spelonca, ove si vedono alcuni avanzi di muraglioni che lo chiudevano e formavano il ricovero delle barche quando l’isola era abitata.
Quivi noi fecimo allegramente la nostra refezione nel mentre si osservava l’altro seno di Spotorno, il capo Noli a sinistra e il conico Monte Mao (metri 449 sul mare ) di prospetto, liscio, nudo e brullo all’infuori di un po’ di verdura alla sua base per un’elevazione di una cinquantina di metri sul livello del mare. […]
Finita la refezione, per un sentieruolo incominciante con gradinata diruta e che fiancheggia il lato di Levante, salimmo sulla sommità dell’isola. Erano le 11:00, il termometro centigrado segnava più 31 ° e l’aneroide a livello del mare millimetri 76,68. A 18 m sopra il mare si trova a fianco del sentiero lo orificio del pozzo famoso scavato nella viva roccia, a forma circolare, del diametro di metri 1,65, ma che trovasi in fondo ripieno di pietrame, il quale il volgo, come più sopra accennai, crede servisse di trabocchetto per far perdere le persone. Però vedremo in seguito che la storia accenna diversamente. Giunti alla cima si vede da prima nel centro dell’isoletta una specie di torre fatta a guisa di alcuni nurachi o nuraghos della Sardegna, con un sentiero o gradinata esterna a spira per salirvi sopra.
Questa torre è massiccia senza vano alcuno. Alla sommità di questa torre, poco elevata dal suolo, osservai i miei strumenti e trovai il termometro più 33 ° e l’aneroide millimetri 761,0, il che ci dà metri 68,30 di elevazione dal livello del mare; punto più elevato dell’isola.
Oltrepassata questa torre, dal lato di mezzogiorno e ponente si vedono le rovine di una chiesa con tre altari, e lì dietro della medesima, ove ora hanno piantato una piccola vigna, nel quale luogo rinvennero l’osso col cerchio di ferro che lo serrava, si vedono ancora le fondamenta di un fabbricato che era certamente il convento dei monaci. Di prospetto alla chiesa si vede ancora la cisterna sana, poiché era ancora piena d’acqua, e più in basso le rovine di un antico fabbricato.
In quella vicinanza fu costrutto un casotto di un solo vano al pianterreno per deporvi gli scarsi raccolti dell’arida isoletta che fu dapprima comprata dal demanio dal fu Brassier de Saint Simon, ambasciatore di Prussia, il quale avendo una villa sul promontorio di prospetto, dicesi volesse unirlo all’isola col mezzo di un ponte di ferro; caso questo fuori di tutte le probabilità per l’enorme spesa che avrebbe costato un tale inutile lavoro.
Morto Brassier l’isola fu venduta al signor Gastaldi, il quale acquistò pure l’isola Gallinara, presso Albenga, da me visitata nel 1866 quando era ancora deserta, e descritta nella Rivista delle Alpi di quell’anno.”
Tiziano Franzi