Dunque, abbiamo un nuovo presidente di questa Repubblica. Si chiama Sergio Mattarella, proprio come il precedente. Quanto durerà non è dato saperlo, ma certo fino alle elezioni politiche del 2023, al fine di completare “un disegno”. Che non sarà, posso anticipare, quello di una perestroika italiana: la rielezione è agli antipodi di un presidente rivoluzionario per una vera seconda repubblica democratica.
di Sergio Bevilacqua
L’occasione di questa elezione presidenziale avrebbe dovuto essere anche quella di riflettere sull’adeguatezza al giorno d’oggi dell’impianto cripto-monarchico della Costituzione italiana (il Presidente della Repubblica come “Re eletto dal Parlamento”) e della maturità del Popolo italiano ad affrontare un salto di democrazia con l’elezione diretta dei rappresentanti dei tre poteri pubblici: il potere esecutivo, con l’elezione diretta del Capo del Governo (anche responsabile ultimo della Repubblica); del potere legislativo, il Parlamento, tramite partiti rinnovati; del potere giudiziario, tramite elezione diretta dei Presidenti dei tribunali e dei Procuratori capo di tutti i Fori. Infatti, se si cambia il ruolo del Presidente della Repubblica, occorre rivedere infatti anche l’impianto del terzo potere, quello giudiziario, che ha un vertice in “quel” Presidente. La giustizia come garanzia di libertà, qualità e istanza correttiva, e non semplicemente punitiva, non è in discussione qui, il garantismo potrà essere rivisto, ma è secondo, benché urgente. E così l’allargamento della mediazione nel civile e anche magari nel penale.
L’abolizione di questa veste della Presidenza della Repubblica va a coincidere con un fortissimo incremento del presidio democratico sulle istituzioni. A cascata però, il Parlamento deve essere molto più efficace nel suo ruolo di controllo, e questo significa partiti efficienti, davvero rappresentanti dei cittadini, a seconda della loro visione e interessi, e spoil-system nelle Amministrazioni Pubbliche. Saranno due leggi fondamentali di coerenza del quadro: quella sui partiti, che rinnovi il loro ruolo pubblico e scandisca bene anche quello privato del loro naturale e doveroso bifrontismo civile, e quella della riforma chirurgica della Pubblica Amministrazione con la veicolazione dei vertici burocratici al seguito degli eletti.
Per attuare la profonda riforma della Costituzione per la via dell’iniziativa presidenziale, ci vuole di certo coraggio, intelligenza e forza. Sarebbe una perestroika, un’autorivoluzione come fece Gorbačëv in Unione Sovietica. Il Presidente della Repubblica (eletto con la vecchia formula) dovrebbe incaricare il nuovo (o concorde…) Capo del Governo di perseguire la riforma, coinvolgendo il Parlamento. Oramai, niente di tutto questo. Mattarella è intelligente, ma adesso ha il problema delle elezioni 2023 e di come andare avanti con Draghi.
Ma è davvero possibile un progetto di riforma così profondo? Ed è nelle facoltà di un Presidente della Repubblica promuovere la correzione di ciò di cui è garante? In pura logica sì. Oltretutto, il Parlamento è oggi particolarmente imbelle e squalificato. Una lucida intelligenza istituzionale e una grande volontà potrebbero riuscire, da quel vertice, a far fare a Governo e Parlamento il passo verso la vera “Seconda Repubblica” quella di una nuova, profonda riforma della Costituzione.
E inutile nascondersi: se si sente ormai il bisogno di provarci, qualche motivo c’è… Ed è la fragilità politica reale, lo svuotamento di questo impianto istituzionale che ha sacrificato i partiti sull’ara del populismo inconcludente, alimentando teatralmente dal mito della democrazia diretta. Quel variegato populismo ha prima volgarizzato il funzionamento normale dei partiti e poi leso l’operatività e gli equilibri istituzionali generali, confondendo le idee a moltissimi italiani.
Invece, questo patto repubblicano, questa Costituzione, non regge senza partiti efficienti. E la deriva è non-democratica, la vediamo, pseudo-democratica. Lo dimostrano le forze della destra, che non sono più partiti, ma agenzie di promozione elettorale, lasche aggregazioni leaderiste, grassi capponi parlamentari pronti per il brodo.
Se fossero veri partiti, ci sarebbero sollevazione degli elettori con queste giravolte repentine e questa superficialità, invece Salvini fa il trasformista velocista, la Meloni il pesce in barile. E Berlusconi, vecchio e provato da una vita in trincea, è sempre l’unico dei 3 ad avere una visione politica e una minima solidità tecnico-organizzativa alle spalle, con l’intelligenza sempre al centro. Ha fatto tanto gli affari suoi, diciamolo, e io lo so benissimo: potete chiedere a lui e ai suoi della prim’ora, Galliani ad esempio, chi è stata “Telos management consulting” per Fininvest: i tre consulenti di top management tra il 1982 e il 1985 hanno fatto il riorientamento strategico e la riorganizzazione dell’intera divisione televisione di Fininvest, allora chiamata Reteitalia (Trianda, 50 anni, Gaeta, 40 anni e Bevilacqua, 27 anni) …
La sinistra, poi, sta virando pericolosamente verso forme egemoniche (PD) e ha abbandonato la riflessione istituzionale per il prevalere degli interessi di bottega. Calenda è molto pensieroso, ma sono peraltro sicuro che presto capirà e forse anche cavalcherà la riforma delle istituzioni. Forse anche Renzi, di cui però ci si può fidare fino a domattina, ma è tutt’altro che ebete.
C’è bisogno di risanamento istituzionale e anche di estirpare vecchiume organizzativo come questa figura cripto-monarchica del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento, oggi fonte di ritardo, infiltrazione e blocco. Maggior democrazia, con l’elezione diretta del Capo del Governo e responsabile della Repubblica, insieme al potere legislativo del Parlamento tramite rinnovati organismi di partito e vertici del potere giudiziario. Non facendo questa perestroika italiana il Parlamento marcirà e gli italiani si troveranno travolti dal fallimento del loro Stato: si troveranno senza Repubblica.
Ciò detto, ho fatto capire quanto gradirei una vera, seconda Repubblica, con una profonda riforma costituzionale che sciolga l’attuale architettura di vertice dello Stato Italiano. Detto organo di vertice ha dimostrato efficienza nel salvare le istituzioni, ma non abbastanza nel salvare la sostanza della Repubblica e della Democrazia: ha prodotto una serie di situazioni in cui le regole classiche di ogni casa, e anche di quella democratica, sono state invertite e anziché dal popolo, dalle fondamenta, quella stessa casa gli equilibri li ha presi dal tetto, appunto il presidente critpo-monarca elettivo previsto dalla Costituzione, con una sensazione d’instabilità sostanziale.
Credo che i tempi siano maturi per una maggiore democrazia, per tornare a lavorare dal basso verso l’alto, a dare al popolo il controllo sui vertici, non ai vertici il controllo sul popolo. Poi, i vertici dovranno fare il loro mestiere, e così il popolo; ma senza la cinghia di trasmissione tra Paese reale e paese legale, popolo repubblicano e Stato, e cioè senza sani organismi di partito, ovunque funzionanti nel mondo democratico evoluto, non ci sarà pace tra gli ulivi. E l’Italia è piena di ulivi.
Un paio di passioncelle io le avevo, e sarebbero state utili, e molti lo sanno, perché in questi mesi di lotteria, iniziati quasi un anno fa con il Governo Draghi, veicolato dal cripto-monarca Mattarella, non le ho nascoste. Non vedendosi all’orizzonte nessun “Gorbačëv” che avvii una perestroika italiana, allora almeno uno che ne capisca, e che abbia mostrato una vita di dedizione vera alla Repubblica, ancor prima che allo Stato (che ne deve essere l’espressione e non il gendarme cannibale).
Mattarella poteva fare meglio (ha dribblato meglio di Sivori le possibili elezioni quando ce n’era motivo) ma si è salvato in extremis con l’avallo degli endorsement europeo-occidentali alla nomina di Draghi, esterni alla Repubblica; il governo Draghi, in effetti, ha dato all’Italia qualche tensione prevedibilissima ma anche un poco di serenità e respiro. Perfezione è altro, ma scartato l’andare “a monte”, è stato il minore dei mali. Mattarella, grazie e bentornato comunque.
Le passioncelle, allora. La prima era Sabino Cassese (86 anni, ahimè…). È bravo, serio, un ottimo istituzionalista; capirebbe, se adeguatamente incoraggiato, il progetto di ri-democratizzazione delle istituzioni italiane con la votazione diretta dei vertici suddetti. Mi ha voluto come suo consulente personale ai tempi (veloci, poco più di un anno, 1993-1994), in cui è stato Ministro per la Funzione Pubblica (l’organizzazione dello Stato, in prima sostanza) del Governo Ciampi. L’ho rivisto un paio di anni fa e continua a piacermi, anche se sono passati la bellezza di 30 anni: ho notato un certo irrigidimento ma rimane brillante, serissimo e molto presente su tutta la materia del funzionamento dello Stato. Pur sempre 86 anni…
La seconda è di un profilo molto diverso, anche se figlio della stessa principale temperie, quella del grande tentativo di risanamento degli anni ’90: attenzione, non mi riferisco tanto a Mani Pulite, che ha fatto anche troppo la sua parte, ma soprattutto al clamoroso ciclo della riforma della Pubblica Amministrazione, che partì dalla L. 142 del 1989 e sfociò nell’ultimo tassello dei Decreti Bassanini (Bassanini precedette Cassese alla Funzione pubblica nel governo Amato I) del 2000, ma passando attraverso la grande, favolosa spallata della Legge Delega 421 del 1993 con cui il Governo Amato I appunto, cambiò il volto al nostro Stato sul piano operativo grazie a riforme centrali di Diritto amministrativo. Avete capito. Sì. È Giuliano Amato. Un politico, ma di quelli coi fiocchi. Quanto interessa a me della sua biografia (oltre all’età, 83 anni, non pochi…) è soprattutto il suo percorso accademico, che è venuto da un parallelo percorso politico nel socialismo riformista anche estremo, ma è sempre stato avveduto di lucido pragmatismo e di profonda consapevolezza istituzionale (non “de noantri”, per intenderci).
È stato infatti professore di diritto costituzionale comparato (significa che conosce i vari modelli possibili di Stato democratico…) alla Sapienza dal 1975 al 1997. Ha insegnato anche all’Università di Modena e Reggio Emilia, di Perugia, di Firenze, alla New York University School of Law, all’Istituto Universitario Europeo e, ancora, a Firenze. Attualmente è professore della School of Government presso l’Università LUISS di Roma. Dal 2016 è presidente del comitato scientifico del Cortile dei Gentili, dipartimento del Pontificio Consiglio della Cultura.
Tutto molto, molto rilevante. E abbastanza chiaro… Per i più giovani, un paio di pennellate in più: in un’epoca, gli ’80 e anche i ’90, in cui i politici erano più profondi di quelli del terzo millennio, pur coi loro detestabili vizietti di rubare e non solo, Amato era soprannominato “Il Dottor Sottile” per la sua intelligenza istituzionale ed era sempre stato considerato un’anima pura, infatti lo è. È stato lì lì per salvare Craxi, si è saggiamente tenuto a debita distanza da Berlusconi, senza schifarlo, è montato in groppa (dopo il suo primo eroico governo 1992-1993) ancora una volta nel 2000, per completare il lavoro della Riforma con le leggi Bassanini e il celeberrimo Testo Unico che tutti conoscono e che è rimasto il vangelo organizzativo delle Pubbliche Amministrazioni, locali in particolare. Pure sempre 83 anni…
Il nuovo Mattarella non è nemmeno lui un ragazzo, 81 anni oggi; e ha un piano da completare, non un disperato cambiamento da attuare. Vedremo, allora…
Sergio Bevilacqua