E’ difficile poter ipotizzare, senza il contributo e la presenza del dottor Eugenio Ghersi, quale avrebbe potuto essere il risultato delle due spedizioni di Tucci nel Tibet. Nelle spedizioni successive Tucci avvertì fortemente l’assenza di collaborazione di un compagno così duttile e prezioso. In un contesto di quella nuova esperienza. Ghersi si adattò rapidamente, giorno per giorno, a risolvere tutte le problematiche organizzative e logistiche e, come abbiamo visto, la scelta casuale della sua partecipazione alle spedizioni non poteva essere migliore.
di Flavio Serafini
A parte l’incontestato contributo storico scientifico, saldamente rappresentato dal Prof. Tucci, il Ghersi fu veramente l’anima della spedizione. Egli non fu solo il medico, l’alpinista, l’archeologo, il tombarolo, il diarista del viaggio, l’esecutore pratico delle direttive del Professore, il cartografo e regista, ma soprattutto il fotografo ed il cine operatore, doti queste ultime, che sono servite a documentare la storia ufficiale di una delle imprese di viaggio più qualificanti del Novecento.
Tutti gli effetti, si trattava della prima spedizione scientifica del Tibet occidentale a livello mondiale. In questo campo il suo lavoro si sdoppiava in due tempi: il percorso a piedi della carovana durante il giorno e la sera, quando non era notte, a sviluppare i rullini fotografici nonostante la stanchezza delle lunghe marce ed il sonno incombente. Le opere d’arte, i personaggi, i monumenti, lo scenario naturale con i paesaggi che facevano da cornice alla spedizione, dovevano tramutarsi in documenti reali che sarebbero poi serviti al rientro in Italia.
Ma Ghersi doveva lavorare in una tenda e non in una camera oscura predisposta ed organizzata! Nelle lunghe chiacchierate col sottoscritto e con Davide Bellatalla, più lunghe quelle con David, per la verità, egli riviveva senza enfasi quelle difficoltà che sempre rendevano problematico il suo lavoro spesso con l’uso dei sali di magnesio per poter avere una luce sufficiente a scattare una fotografia quando non si trovava all’aperto. L’ambiente chiuso di una grotta o di un tempio, finiva per riempirsi di fumo ed erano necessari vari minuti per poter procedere agli scatti successivi.
Egli spiegava come la luce diffusa del lampo di magnesio in piccoli ambienti, fosse decisamente migliore e preferibile di quella di una torcia elettrica, data l’omogeneità della diffusione, al contrario del fascio di luce potente, ma concentrato. Oscar Nalesini ha affrontato l’argomento spiegando che il compito di fotografo era tutt’altro che semplice nel procedimento di sviluppo serale delle pellicole all’interno di una tenda da campo appena sistemato.
Scrive il dott. Oscar Nalesini: “ Il Capitano aveva realizzato ( inventato, diremmo noi) un manicotto di tela nera che utilizzava quando le pellicole venivano estratte dalle macchine fotografiche e caricate nel tank per lo sviluppo.” L’ altitudine e le basse temperature della notte influivano sui bagni e sui tempi di sviluppo e di ciò occorreva tener conto. D’altronde non era possibile conservare le pellicole per mesi in attesa del rientro in Italia in condizioni proibitive per la loro conservazione.
La professionalità di Ghersi, che si coniugava allo spirito investigativo del Tucci, è ancora oggi oggetto di attenzione di studiosi e ricercatori. Sempre il dott. Oscar Nalesini, sulla notevole produzione scientifica del Tucci, così scrive: “ resta un fondo fotografico composto da circa 12.000 pezzi, in massima parte negativi in bianco e nero e stampe, che documenta i suoi viaggi sino al 1948. Tucci conservò a casa propria le fotografie sino al 1975, quando le versò nell’archivio dell’ Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO) depositato presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.
Nel frattempo il fondo aveva subito dei danni ed alcune perdite. In una certa misura ciò era dovuto alla scarsa attenzione prestata dal Tucci alle condizioni di conservazione delle fotografie. Ma il dato peggiore era senza dubbio lo smembramento delle pellicole che talvolta erano state tagliate posa per posa, presumibilmente per far fronte alle richieste degli editori. I frammenti si erano poi col tempo mescolati, con il risultato che si erano completamente perse le sequenze originarie. E questa condizione era aggravata dalla completa assenza di didascalie, note o quant’altro permettesse l’identificazione e la datazione delle immagini. Per questo motivo, nel 1953 l’IsMEO ed il Museo Nazionane di Arte Orientale intrapresero un progetto di riordino del fondo, durato diversi anni, grazie al quale è stato possibile ricostruire la quasi totalità delle pellicole in rullo delle spedizioni del 1933, 1935 e 1939, e identificare con sicurezza la maggior parte delle immagini.”
Considerando che durante le spedizioni di quegli anni il patrimonio artistico e monumentale era già in completa rovina ed abbandono, il merito di Tucci fu quindi quello di conservare la memoria del patrimonio culturale e storico tibetano con il solo mezzo che restava: la fotografia!
Ed ecco, entrare in scena Eugenio Ghersi visto che il Tucci, a suo dire, non era assolutamente all’altezza di svolgere l’attività di fotografo. Sempre sul Ghersi fotografo, la professoressa Deborah Salter Klimburg sottolinea: “ Nella mia ricerca tra i novemila negativi sui quali ho potuto lavorare, mi sono subito resa conto dello straordinario lavoro compiuto dal Capitano Ghersi nelle due spedizioni scientifiche; non un solo fotogramma poteva essere trascurato o scartato; ogni immagine aveva la sua precisa funzione di documentare a livello etnografico ed antropologico tutto ciò che i due esploratori avevano visto; non una immagine sfuocata o mossa, non un’inquadratura o un soggetto che non fossero pertinenti per una documentazione fotografica assolutamente esaustiva.” (1) Se si esclude il periodo tibetano, il Museo Navale Internazionale di Imperia conserva alcuni album fotografici di notevole interesse legati soltanto ai viaggi di Ghersi in India, Cina, Arabia Saudita e Sud America.
Esulando dall’attività cine-fotografica, il Capitano Ghersi fu anche il braccio destro del Tucci nella ricerca e recupero di preziose testimonianze della storia e dell’ arte tibetana. La sua attività di archeologo e talvolta, di tombarolo, trova riscontro non solo nei diari del capo spedizione , ma anche dai suoi racconti al tramonto della vita.
David Bellatalla cita in proposito: “ Spesso ho rischiato l’osso del collo arrampicandomi in luoghi dove solo le aquile ed i falchi possono edificare il loro nido. Tucci era terrorizzato dall’idea di spingersi lungo quei precipizi. Ti confesso che qualche volta ho pensato di lasciarci la pelle. Ogni tanto le mie arrampicate non portavano a nulla, ma altre volte la soddisfazione di trovare sepolta sotto la sabbia, oppure abbandonata nelle celle di un eremita, una statua, un manoscritto o un oggetto di culto, dava un senso a tutti quei rischi che avevo appena corso.”
La realtà era che il Ghersi, entrato in piena sintonia col Professore, aveva iniziato ad appassionarsi ed a condividere le finalità della ricerca che avrebbe poi approfondito nel corso degli anni.
Altro aspetto da non sottovalutare nel contributo di Ghersi al successo delle due spedizioni fu quello del controllo sistematico della consistenza delle scorte viveri portate con loro dall’Italia. Per la quasi totalità, si trattava di cibi in scatola: acciughe, sardine e carne, tipiche del Regio Esercito Italiano che ne farà largo uso nel corso del secondo conflitto mondiale; oltre a frutta sciroppata, pasta Buitoni, pelati Cirio, estratti concentrati, zuppe, cioccolato Perugina ed olio d’oliva. Ogni cassa doveva contenere viveri per quindici giorni per tutto il personale della carovana; quello tibetano non disdegnava lo scatolame che intercambiava con prodotti locali.
A volte sorgevano inconvenienti, del resto facilmente prevedibili, a causa dell’altitudine e delle continue variazioni termiche. Le scatole dei pomodori della Cirio e quelle del cioccolato della Perugina, come ricorda il “Doc”, erano soggette ad “esplosioni”: “ Il cioccolato della Perugina si era dapprima completamente sciolto e successivamente risolidificato prendendo la forma del fondo della cassa, incollandosi al legno della stessa. Moltissime scatole di pomodori e piselli erano scoppiate, costringendoci ad un lavoro paziente per recuperare il recuperabile e ridisporlo in alcune latte che fortunatamente avevamo conservato.”
Rileviamo dalle note di viaggio come durante le visite al campo, le donne tibetane fossero attratte dallo scatolame vuoto. Tra le aziende fornitrici, nella spedizione del 1935 si aggiunse anche la Ditta Isnardi di Imperia Oneglia, grazie all’interessamento di Ghersi, vecchio amico di scuola di Carlo Isnardi, proprietario della casa produttrice del famoso olio d’oliva.
Nella spedizione del 1948 subentrò anche una buona fornitura dell’ olio Berio, sempre di Oneglia “ per mantenere in piena efficienza le nostre cariche di vitamine” (2). Il Tucci ricambiava con immagini pubblicitarie sui prodotti la liberalità delle varie aziende del settore alimentare. L’ingegno del Ghersi, legato alla vicenda dello scatolame, in merito a due strani apri scatole, ci è stato rievocato dal Bellatalla: “ Il Capitano conservava in una delle vetrine del lungo corridoio della sua abitazione spezzina, i due apriscatole, modificati con particolari saldature e con l’aggiunta di altre parti metalliche che egli stesso aveva forgiato appositamente per le spedizioni in Tibet.” Una curiosità che attirava sempre l’interesse degli ospiti.
Ed infine, proviamo ad esaminare come Tucci e Ghersi abbiano affrontato il lungo viaggio a piedi con la dotazione di vestiario in uso allora, subendo talvolta nel corso della stessa giornata, una forte escursione termica. Oggi la loro impresa, senza l’equipaggiamento e le dotazioni di un abbigliamento moderno, sarebbe semplicemente impensabile! Le immagini giunte sino a noi li riprendono in pantaloncini corti e camicia a mezze maniche o pantaloni alla zuava e casco coloniale, tipo Regia Marina, abbigliamento che sarebbe additato con orrore anche per un semplice trekking attuale. Oggi decine di aziende specializzate offrono prodotti “ ad hoc” per qualsiasi impresa, a qualunque latitudine o altitudine, sia in alta montagna che sotto il mare.
Non esistevano per i nostri due esploratori giacche a vento impermeabili ed imbottite, né scaldini chimici portatili, né barrette energetiche o speciali scarponi e soprattutto erano completamente isolati dal mondo, in compagnia di cieli stellati o di una calura massacrante nel silenzio profondo di alte vette o nel baratro gelido di buie valli. Sempre con l’Accademico che faceva da battistrada sulle piste alla testa della lunga colonna ed il Medico che la chiudeva. Nelle gelide notti in tenda non erano protetti da sacchi a pelo, ma da semplici coperte in dotazione.
Nella durezza estrema dei percorsi tibetani emergono soprattutto le doti di alpinista del medico avvezzo ai percorsi di montagna che, da vero ligure, amava quanto il mare. Le sue doti nelle escursioni giovanili sulle Alpi Marittime erano note al Cai Imperiese. Imbastire una carovana nel Tibet non era una cosa agevole proprio per mancanza di strade, ma solo di piste o insidiosi sentieri di pietraie sull’orlo di precipizi. I ponti erano rari e quando esistevano si riducevano a cime traballanti che collegavano le sponde di fiumi impetuosi; molto spesso era necessario effettuare un guado col sistema a catena, liberando i cavalli dai pesi e restando fradici per tutta una giornata.
La resistenza fisica si misurava anche nel valicare passi e scalare montagne con una altezza media superiore i 4/5000 metri (rimarrà storica la loro impresa sul passo di Bogo-La ad oltre 6.000 metri) e con sbalzi di temperatura estremi che potevano toccare i quaranta gradi. Ghersi, a differenza di Tucci, affrontava la situazione con minor sofferenza e manteneva un costante controllo della carovana. Era davvero il compagno ideale per il responsabile della spedizione.
Flavio Serafini