Viviamo una fase di “criminale gestione capitalistica della crisi” e i diritti conquistati nel corso di decenni di lotte durissime e spesso sanguinose dal movimento operaio stanno paurosamente arretrando, con il rischio di essere del tutto cancellati, per tornare a condizioni di sfruttamento simili a quelle della prima rivoluzione industriale.
Tener viva la memoria proprio per collegarsi direttamente alla qualità dello scontro sociale in atto è un compito che non può essere disatteso o considerato semplicemente un momento di mero esercizio di natura culturale.
Ricordare, allora, come il 20 Maggio 1970 il Parlamento approvasse, su proposta del ministro Carlo Donat- Cattin (l’ispiratore dello Statuto deve però essere considerato il suo predecessore, il socialista Giacomo Brodolini scomparso nel 1969), lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori appare un atto quasi doveroso, almeno dal nostro punto di vista di chi intende continuare ostinatamente a collocarsi “da una certa parte della barricata”: quella giusta.
Lo Statuto dei Lavoratori divenne legge con il voto della maggioranza di centrosinistra (DC, PSI, PSDI, PRI) e l’astensione del PCI e dello PSIUP.
Giancarlo Pajetta nel dibattito alla Camera motivò così il voto di astensione dei comunisti: “ il fatto è che dal momento in cui si è cominciato a elaborare questo disegno di legge fino ad oggi, i tempi sono cambiati. Di questo occorre tener conto. Quando noi diciamo che la questione è aperta, lo diciamo pensando non soltanto a un futuro più o meno ipotizzabile, ma a un presente che è già diverso dalla situazione che il disegno di legge dovrebbe recepire”.
Il presente di allora, infatti, era segnato dall’autunno caldo del 1969 e Pajetta poneva il problema del potere in fabbrica, inteso come potere politico.
In realtà lo Statuto rispondeva, al contrario, a un’idea di democrazia più industriale che classista, dove il sindacato aveva un ruolo più sociale che politico, sulla base di un impianto strettamente privatistico.
I riferimenti originali dello Statuto dei Lavoratori si trovano, infatti, all’interno della Legislazione del New Deal americano.
Questi principi s’innestavano in un sistema di relazioni industriali quale il nostro, che storicamente si rifaceva piuttosto ai modelli sindacali dell’Europa continentale, ispirati a criteri di contrattazione confederale e categoriale, con una duplice struttura organizzativa del Sindaco, territoriale e di categoria.
Il Sindacato poteva così concepire la propria azione contrattuale con un rilievo che poteva formularsi anche in termini di rilievo “pubblico”, concezione che nel dibattito costituente si era espressa nella formulazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Per il Sindacato il varo Statuto dei Lavoratori apriva così una fase dialettica nel complesso dell’azione rivolta al mondo del lavoro e dell’intera società italiana, che definirei senz’altro feconda: sicuramente per buona parte degli anni’70, la miglior stagione del sindacato italiano nella sua storia.
La categoria rimase il perno del sistema e gli aspetti merceologici, nonché la forma orizzontale e verticale dell’organizzazione definivano rigidamente i diversi ambiti contrattuali.
Dopo il 1969 e l’autunno caldo il principio classista s’impose così da unificare idealmente le componenti del mondo del lavoro: nacque da quel punto il tentativo di avviare un processo di unità organica del sindacato che ebbe, tuttavia, una breve storia per molteplici motivi, a partire dalla diversa impostazione ideologica e politica delle tre maggiori Confederazioni.
Il carattere centralistico del sistema fu così saldamente unito dall’impianto rivendicativo caratterizzato da un forte egualitarismo, che riguardava sia il salario, sia l’inquadramento professionale, e pur con le differenze di applicazione nelle diverse realtà categoriali, quello fu il riferimento che dominò trasversalmente tutta la struttura del Sindacato, in quel periodo.
Uno schema rafforzato dalla forma assunta dalla rappresentanza sui luoghi di lavoro, che lo Statuto contemplava senza averla definita: il consiglio dei delegati, inteso come una forma di intreccio tra la democrazia delegata e quella diretta, che si esplicitava attraverso la scheda aperta a tutte le candidature (di iscritti e non iscritti al sindacato) e nella revocabilità dei delegati.
Un punto questo della “democrazia consiliare” da richiamare con grande forza, proprio nel momento in cui, proprio attraverso un accordo tra Sindacato confederale e Confindustria, si mette in discussione radicalmente la rappresentanza democratica del mondo del lavoro e la possibilità di esprimere, in fabbrica e fuori dalla fabbrica, il proprio legittimo dissenso.
L’uso sindacale dello Statuto, in quegli anni, coincise con l’accettazione della legge come un’utile normativa.
Non solo perché lo Statuto appariva come espressione di una legislazione del Sindacato dei Lavoratori, ponendoli nella condizione di esplicare i diritti costituzionali, ma perché, come rilevava poco tempo dopo l’entrata in vigore della legge la rivista della CGIL, lo Statuto si era rivelato un supporto puntuale alle lotte di quell’avvio di anni’70.
Ho pensato di descrivere molto sommariamente lo “stato dell’arte” del dibattito all’epoca dell’entrata in vigore della legge 300 proprio per stimolare una comparazione con ciò che è accaduto e sta accadendo in questi ultimi tempi: in sostanza ergere un monito verso quanto stiamo perdendo sul piano della condizione materiale di vita e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori.
Quella dignità nel lavoro che Marx ed Engels giudicano elemento fondamentale e imprescindibile nella composizione stessa della lotta di classe, ben al di là di qualsivoglia pretesa impostazione economicista.
E’ stato attraverso il testo dello Statuto che si è riusciti a far prendere sul serio l’articolo 1 del nostro dettato costituzionale, allorquando in quella sede si pone il lavoro come fondamento della nostra Repubblica e quindi del nostro vivere sociale.
Dobbiamo rilanciare la lotta e la proposta proprio su questo terreno: per la tutela contro il licenziamento ingiustificato, perché si reprimano i comportamenti antisindacali, per la tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori.
Si tratta di norme di civiltà che dobbiamo cercare di far capire a tutti vanno a beneficio dell’intera società: la recessione globale che stiamo attraversando mostra, infatti, come non ci siano diritti acquisiti per sempre e crescita economica stabile e duratura senza un’equa distribuzione della ricchezza prodotta e condizioni di lavoro stabili e dignitose.
Franco Astengo
SISTEMA ELETTORALE E CONSULTA:
LA LEGGE ACERBO ERA PIU’ DEMOCRATICA
“Repubblica” pubblica la notizia: da indiscrezioni molto attendibili la Cassazione ha deciso di rinviare alla Corte Costituzionale la legge elettorale del 21 dicembre 2005, con la quale si è votata per le elezioni politiche del 2006, 2008 e 2013.
Un risultato di grande importanza ottenuto da 27 avvocati, rappresentati dall’avv. Aldo Bozzi di Milano, nipote di quell’esponente liberale che presiedette nel 1995 la prima “Bicamerale per le Riforme”, che avevano presentato un esposto denunciando l’incostituzionalità della legge : incostituzionalità evidenziata soprattutto attraverso l’attribuzione di un premio di maggioranza abnorme, che non prevede il raggiungimento di alcuna soglia e che presenta “anomalie delle anomalie” il voto indiretto proprio perché “non consente quello diretto ai singoli candidati concorrenti”.
Espressa soddisfazione per questo esito, tutt’altro che scontato e ribadito che, a mio giudizio, molti dei guai che ha incontrato negli ultimi 20 anni la democrazia italiana siano stati dovuti al davvero improvvido esito referendario del 18 aprile 1993, che consentì il passaggio dal sistema elettorale maggioritario a quello misto maggioritario (75%) e proporzionale (25%) fino all’aberrazione attuale, vale la pena di rimarcare come l’attenzione non debba essere puntata esclusivamente sul premio di maggioranza e sulle liste bloccate, ma come vi siano altri aspetti da sottoporre al mirino della critica più serrata.
E’ il caso della difformità delle soglie di sbarramento, con l’assurdità della differenza di percentuale da raggiungere per chi sta in coalizione o chi si presenta in conto proprio (addirittura nella coalizione è previsto il recupero del miglior perdente com’è accaduto, nel 2013, alla Lista Tabacci che con lo 0,6% ha ottenuto sette seggi): se davvero una soglia di sbarramento deve esistere.
Non sta scritto da nessuna parte che la soglia di sbarramento sia necessaria: sistemi per evitare un eccesso di frammentazione ne esistono di vario tipo, senza ricorrere alla soglia. Del resto nel Parlamento italiano eletto con il sistema proporzionale adoperato tra il 1948 e il 1992, almeno fino al 1987 allorquando il rapporto tra politica e società ha cominciato vistosamente a sfrangiarsi e hanno cominciato ad andare in crisi i partiti di massa, agivano – più o meno – non più di 8 partiti: successivamente, con il cosiddetto “Mattarellum” di cui molti invocano il ritorno, è stato impossibile contarli sulle dita delle due mani.
Senza scandalizzare nessuno credo si possa affermare che era più “democratica” la legge elettorale promulgata con Regio Decreto n.2694 del 13 Dicembre 1923: la legge tristemente nota come “Legge Acerbo” attraverso la quale il fascismo pervenne “legalmente” (si fa per dire..) al potere.
All’articolo 28 la Legge Acerbo infatti prevedeva il raggiungimento di una soglia del 25% (almeno quella! Nella legge attuale non vi è traccia.. I fascisti poi raggiunsero il 67% a forza di manganellate e olio di ricino, ma almeno quei voti avrebbero dovuto prenderli in ogni caso..). Inoltre il quoziente di minoranza non prevedeva il raggiungimento di alcuna soglia di sbarramento, come invece accade adesso.
Si trattava, comunque, di un premio di “minoranza”, mentre la legge con premio di maggioranza del 1953, la famosa “legge truffa” contro la quale le sinistre scagliarono un’opposizione formidabile in Parlamento e nel Paese prevedeva, alla fin fine, un vero e proprio “premio di maggioranza” da assegnare ai partiti “apparentati” (non si parlava, allora, di coalizioni) che superassero il 50% + 1 dei voti validi (il blocco di centro DC-PSDI-PRI-PLI si fermò al 49,8%, 40.000 voti al di sotto della meta).
La “legge truffa” non passò perché la DC alzò eccessivamente la quota di maggioranza dei seggi fino al 65%, con l’intento di realizzare all’interno di questa percentuale la maggioranza assoluta da sola, provocando scissioni dal PRI , dal PSDI e dal PLI di piccoli gruppi che, alla fine, presentatisi autonomamente, pur non realizzando il “quorum” necessario per avere rappresentanti in Parlamento sottrassero voti probabilmente decisivi (per la verità storica occorre, comunque, ricordare che rispetto al 1948 la DC perse suffragi soprattutto a destra e al Sud verso monarchici e neo-fascisti, mentre i socialdemocratici non ripetettero l’exploit di cinque anni prima (7,1%) essendo il partito socialista presentatosi distinto da quello comunista, come invece non era avvenuto il 18 Aprile 1948 con la lista del Fronte Democratico Popolare.
In ogni caso attendiamo tutti l’esito del dibattito alla Corte Costituzionale: ci vorranno 6-7 mesi per vederlo pronunciato. Nel frattempo è probabile che in Parlamento si cerchi di rimediare una qualche contromisura, ma, almeno dal mio punto di vista, l’occasione sarebbe buona per porre, a sinistra, due temi: quello del rapporto tra rappresentanza e governabilità e quello del sistema elettorale proporzionale.
Franco Astengo