Il museo della Ceramica d’arte nel centro storico di Savona è uno dei più importanti d’Italia perché conserva ed espone una collezione di grande pregio, comprendente il vasellame ospedaliero dell’ex ospedale San Paolo della città, la raccolta del Principe Boncompagni Ludovisi, il patrimonio della famiglia Folco, il lascito di un Savonese residente a Genova che ha desiderato restare nell’anonimato, la collezione Bixio e le opere provenienti dalla Biennale della Ceramica Contemporanea.
di Gianfranco Barcella
Il visitatore può seguire un excursus della produzione ceramica locale che va dal rinascimento ai tempi moderni e contemporanei; testimonia l’evoluzione dell’arte dei figulinai e dei suoi stili decorativi. Il percorso si snoda per quattro piani ed è particolarmente accattivante. Sono disponibili anche pannelli esplicativi per illustrare l’accattivante storia della ceramica, unitamente a strumenti multimediali che accompagnano nel percorso tematico. Il museo dovrebbe assumere un ruolo primario per lo sviluppo culturale del territorio, favorendo anche l’integrazione didattica delle scolaresche e appagando l’amore per la conoscenza di tutti coloro che hanno a cuore le testimonianze artistiche a partire dalla Grecia antica che celebrava come tecne la capacità di raffigurare la bellezza.
Il gioiello appena descritto è connesso alla pinacoteca Civica che ha una storia più antica in seguito alla proposta del Ministero della Pubblica Istruzione di consegnare al Comune il materiale artistico delle corporazioni religiose, soppresse con la legge Siccardi del 7 Luglio 1866. Pochi giorni dopo la <Gazzetta di Savona> del 15 Aprile, nel dare notizia del provvedimento, commentava: “L’istituzione di una Pinacoteca in questa città è cosa di grave importanza, e non frivola come può sembrare a taluno. Ogni cosa deve avere un principio, e quante mai utili istituzioni da un principio angusto si ebbero in appresso un grande sviluppo?” Tuttavia l’apertura della Pinacoteca non dovette suscitare molto interesse nei Savonesi se il Bonfigli nella sua <Gazzetta> del 6 dicembre 1871, osserva con amara ironia, “A Savona c’è una Pinacoteca. Chi lo sa? Uno su cento che lo sanno, uno solo sa dire dove sta di casa. E su cento che lo sanno dire ove sono i Penati della Pinacoteca, potremmo sbagliarci, ma non c’è nessuno che l’abbia visitata, se si eccettuano i custodi dell’ospedale che vi hanno dovuto passare a caso, o il portiere, incaricato di togliere la polvere o i ragnateli.”
Si dice:< non vale la spesa: un’anticaglia di terraglia savonese, un quadro antico che si battezza del tale o tal altro autore, e poi nulla, assolutamente nulla>.
Caro lettore v’ingannate. Nella Pinacoteca ci sono oggetti d’arte. Non lo credete? Siete a due passi; andateci a vedere. I Liguri che sono gli Inglesi d’Italia, tuttodì occupati a fare conti correnti, o a spedire balle di mercanzie, perdono quel senso squisito dell’arte che è la caratteristica degli Italiani.
Il 30 giugno 1901, dopo alcune peripezie si inaugurò la nuova sede della Pinacoteca e Vittorio Poggi, coadiuvato dal pittore Domenico Biscaglia, aveva provveduto alla catalogazione scientifica delle opere esposte. Nel suo discorso, in occasione della cerimonia di apertura, opportunamente dichiarava <…. Verrà un tempo in cui i monumenti e gli oggetti d’arte d’una data regione si andranno ad ammirare e a studiare sui luoghi stessi nei quali e pei quali vengono eseguiti… In quel tempo, mi auguro che anche Savona possa esibire al visitatore, qui raccolti e ordinati, i materiali per la ricostruzione storica della vita savonese del buon tempo antico. Mi auguro che a Savona possano allora trovar gli eruditi di che studiarvi su buoni esemplari:le sue maioliche ornamentali e figurate, dipinte a rilievi senza essere costretti come adesso, a farne affannosa ricerca nelle collezioni pubbliche e private d’Italia e fuori….” Il 15 aprile dello stesso anno Vittorio Poggi licenziava alle stampe il primo catalogo della Pinacoteca Civica di Savona, compilato in modo che il <visitatore potesse con risparmio apprezzabile di tempo, formarsi un concetto abbastanza esatto dell’oggetto che gli stava dinanzi>. Già faceva bella mostra di sé una maiolica albisolese del sec. XVI .
Un secolo prima, proprio ad Albisola ha inizio la produzione ceramica. L’arte figulina è stata favorita dalla presenza di argilla rossa e di cave di terra bianca, presenti in vari punti della pianura e sui fianchi delle colline. I boschi che verdeggiavano nelle vallate limitrofe erano generosi di legna per alimentare le fornaci. La posizione lungo il mare facilitava l’imbarco dei prodotti finiti, offrendo inoltri vasti spazi da utilizzare per l’essiccazione degli oggetti appena foggiati. Sin dall’inizio, la produzione albisolese della ceramica si differenzia in due tipologie: le terrecotte e le maioliche. Le prime, ingobbiate e graffite, richiedono una lavorazione che si articola in due tempi: l’oggetto dapprima viene modellato, ricoperto ad ingobbio, ottenuto sciogliendo terra bianca in acqua, poi graffito con una punta sottile e quindi cotto.
Le seconde, dette maioliche, vengono cotte subito una prima volta, quindi sono immerse in un bagno di smalto, o maiolica, reso opaco dalla presenza di stagno. Su questo rivestimento si eseguono le decorazioni a pennello ed infine l’oggetto è cotto una seconda volta. All’inizio del Cinquecento comincia anche la produzione di loggioni o piastrelle da rivestimento per pavimenti e pareti, ricoperte di smalto a vivaci colori, secondo disegni in parte derivati dall’arte islamica. Ancora nel Cinquecento è tipica la produzione di maioliche ricoperte di smalto dal colore azzurro intenso e decorate in blu scuro. Sono piatti e scodelle di forme diverse e boccali di varia foggia. Un altro tipo molto diffuso è quello a smalto bianco con rade decorazioni azzurre o policrome, ad imitazione di quelle prodotte a Faenza. Le fornaci ceramiche risultanti nel catasto più antico, databile al 1569 sono quattordici: tredici in Albisola Marina ed una soltanto a Superiore .
Nel successivo catasto del 1612 compare anche una fornace nella frazione di Capo ed è registrato il primo mulino, adibito a macinare vernici e colori, insieme a tutti i materiali destinati alle fabbriche di ceramiche lungo il torrente Sansobbia, nella zona di Ellera. Nel 1640-41 si contano ben ventitré fornaci ad Albissola Marina che nel 1615 si è staccata da Superiore, formando un comune indipendente. Nel comprensorio si apprezzano già quattro mulini per macinare colore perché fiorisce la produzione della ceramica, decorata in monocromia azzurra.
Ciascuna famiglia, impegnata nell’arte figulina avevano un marchio di fabbrica: i Grosso vantavano una riproduzione della Lanterna di Genova, autorizzata dal senato della Repubblica nel 1641. I Pescio si caratterizzavano per un pesciolino ed in qualche caso, tre pesci distinti. I Conrado avevano adottato una corona. La produzione di maioliche con vari decori in monocromia azzurra continua ad Albisola sino alla metà del Settecento. E’ in piena decadenza all’inizio del nuovo secolo, quando ormai non si fabbricano più che modesti boccali e <bombilli> tutti bianchi o recanti il semplice decoro cosiddetto <a fioracci> in azzurro o in manganese. Tutta questa produzione comincia ad estinguersi intorno al terzo decennio del Settecento per lasciare il posto ad un nuovo tipo di terracotta a carattere popolare di grande successo della quale si ignora l’origine. E’ quella che si definisce terracotta a taches noires cioè con strisce o macchie quasi nere, tracciate liberamente con un pennello intriso di manganese; sopra viene apposta una vernice piombifera arricchita di <ferraccia> che dona al tutto un gradevole effetto.
Grazie al successo di questo nuovo prodotto le fornaci si moltiplicano specialmente nella frazione di Capo. Raggiungono il numero di quattordici e sono in gran parte acquistate o costruite dalle famiglie della nobiltà ligure: i Della Rovere e soprattutto i Balbi. La produzione raggiunse i venticinque milioni di pezzi l’anno. Si trattava di un prodotto veramente popolare, poco costoso e ben accolto dalla classi sociali più modeste;viene persino esportato in America ed in Canada. Sempre nei primi anni dell’ottocento si verifica un graduale aumento della produzione della cosiddetta terraglia nera cioè della terracotta verniciata in bruno di manganese che soppianta in breve tempo la terracotta decorata a taches noires. Si tratta di manufatti di sobria eleganza, spesso improntati al gusto neoclassico dominante, tipico anche delle contemporanee terraglie inglesi. Anche questa produzione di qualità, malgrado regolamenti e accordi tra i ceramisti, deve patire il momento della crisi verso la metà del secolo.
E i fabbricanti albisolesi seppero trovare nuove opportunità di futuro dedicandosi alla produzione di pentole da fuoco. Tale lavorazione, dopo un periodo di grande successo a cavallo tra i due secoli, decadrà soltanto negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso. Le fabbriche di pentole impiegarono molti salariati con pesanti orari di lavoro; si hanno così verso la fine del secolo i primi scioperi. E’ bello sottolineare un altro filone della produzione popolare: la manifattura delle figurine del presepe, prodotte in famiglia, la sera, con un po’ di terra, portata da chi lavorava in fabbrica, usando vecchi stampi.
La gran parte delle figurine era smerciata ogni 13 dicembre a Savona, in occasione della fiera di Santa Lucia. La produzione delle maioliche, interrotta all’inizio dell’Ottocento, riprende in Albisola nei primi tempi del Novecento, grazie ad alcune gabbriche. La ditta Poggi, aveva iniziato nel 1862 producendo piatti bianchi alla maniera di Mondovì in una nuova fornace a pianta rotonda. Con Nicolò Poggi che dal 1892 gestisce la sezione di terraglia e stoviglieria della fabbrica, comincia l’avventura delle ceramiche artistiche. Nel contempo si inserisce nel mercato Giuseppe Piccone e dopo un decennio, nel 1903 inizia la sua attività Giuseppe detto Bausin Mazzotti. La sua manifattura sarà destinata a diventare la bandiera della produzione ceramica albisolese.
Gli anni del Futurismo favorirono un grande sviluppo dell’arte figulina di Albisola, grazie a noti artisti che che vennero a lavorare sulle rive del Sansobbia. Come tributo alla patria della ceramica d’Arte approda anche Filippo Tommaso Marinetti che scrive il manifesto della ceramica futurista, celebrando il famoso <tattilismo>.In quel periodo un altro fatto importante è rappresentato dalla presenza, presso la fornace di Manlio Trucco, di Arturo Martini, lo scultore trevigiano tra i più celebrati del’ 900 che si stabilirà poi nella vicina Vado Ligure. Ancora nel secondo dopoguerra, Tullio d’Albisola assurge al ruolo di polo culturale attorno al quale gravitano negli Anni Cinquanta le più importanti personalità del panorama artistico nazionale ed internazionale. Albisola è riconosciuta, universalmente, capitale della ceramica d’arte. Si organizzano incontri internazionali di studio, unitamente a mostre e concorsi a premi di varia natura. Tra le opere più significative di questo tempo ci restano <La Maternità> e <La Nena> di Arturo Martini e due concetti spaziali di Lucio Fontana.
Il percorso culturale descritto per sommi capi si può ripercorrere con dovizia di particolari varcando la porta della Pinacoteca Civica di Savona e proseguendo poi per una scala metallica assai innovativa, raggiungendo i piani dedicati all’esposizione dei capolavori ceramici. La purezza delle linee si armonizza perfettamente con il decoro del palazzo antico, grazie ad una concezione museale assolutamente moderna che arricchisce le architetture medievali con un gioco di linee che ne amplificano la prospettiva. In un’alternanza tra acciaio e vetro, si stagliano le vetrine in tinta chiara I Savonesi non hanno molto tempo per immergersi in questa mirabile armonia di bellezza perché come una volta, sono impegnati a far di conto per far quadrare i bilanci mensili sempre più magri. Lasciamo questi incanti estetici, sospesi tra storia ed arte, almeno i croceristi….
Gianfranco Barcella