L’11 novembre anniversario della fine della Grande Guerra, guerra di trincea, di mare e dell’aria, combattuta da eserciti di tante nazioni in maggioranza europee; guerra non voluta da una grande parte degli italiani.
Anton Verschoot, nato a Ypres nel 1924, in Belgio, suona ogni sera la sua tromba davanti al memoriale. Tutte le sere è lì. Altri due trombettieri ruotano ma lui è sempre presente, salvo le assenze per qualche acciacco o perché in tournèe con la banda dei pompieri dove è entrato su richiesta del suocero. Le note echeggiano tra le pareti che grondano nomi britannici, irlandesi, americani, australiani, neozelandesi, sudafricani, tutti ragazzi spazzati via dal fuoco tedesco in una delle più crudeli battaglie della Prima Guerra mondiale dove per la prima volta i tedeschi usarono il letale gas chimico, chiamato appunto “iprite”.
Nel periodo ’16-’18 nelle retrovie c’era un grande via vai di corvée, corvée erroneamente dette, che partendo dalle retrovie permettevano il ricambio di truppe, il vettovogliamento per il fronte, il trasferimento degli uomini feriti verso i centri ospedalieri, ect….La casa dove abitavano i miei nonni era stata adibita dalle autorità militari a centro di sussistenza, in altre parole a ristorante per i graduati, aperta a tutte le ore, giorno e notte. Ciò in virtù del fatto che il nonno aveva prestato in gioventù, con il grado di tenente, servizio militare fisso per quattro anni a Livorno. Fuori dall’uscio di casa, appeso al muro, veniva esposto, giornalmente, il bollettino di guerra che, il nonno, leggeva e spiegava agli analfabeti locali. Dai suoi racconti emergeva una vita piena di stenti sui volti di quelle famiglie che abbandonate le zone di guerra, erano alla ricerca di un posto migliore; transitavano con carri a due ruote carichi più di bimbi che di masserizie trainati il più delle volte da poveri asini che la biada l’avevano vista poche volte. Ma in quei volti c’era anche la speranza di una vita migliore, la speranza di trovare un “pezzo” di terra da coltivare, la speranza di essere in grado di “tirare su” tutta la famiglia, in modo particolare i figli, farli studiare e dargli un lavoro dignitoso, un lavoro che non “spacchi loro la schiena”.
Tra i libri di casa, c’era anche un volume, che ho ancora, il terzo di una collana dedicata alla Grande Guerra, il cui contenuto consisteva di lettere spedite dal fronte, di solito, alle famiglie; lettere dirette al fronte da parte delle “Madrine di guerra”; articoli descrittivi di vita militare sulle montagne del Carso, della Paganella e anche descrizioni degli ospedali da campo, nelle immediate retrovie. Molte delle “Madrine di guerra” sono quelle signore, o signorine, che avendo avuto l’indirizzo di un soldato povero o senza famiglia, lo adottano come figlioccio, gli scrivono spesso, gli mandano di tanto in tanto a seconda dei loro mezzi finanziari qualche pacco con ciò che più gli occorre e che più desidera, oggetti di lana, sigarette, ecc. Ma la missione delle Madrine di guerra deve essere anzitutto di tenere sereno ed elevato il morale del loro figlioccio, mostrandogli interessamento ed affetto.
Assistenza morale e patriottica. Era questa la missione. Le prime furono le signorine della buona società che si trovarono a confortare, con lettere, cartoline e pacchi, i soldati e gli ufficiali al fronte. Spesso senza conoscerli, messi in contatto epistolare nei modi più disparati. Al ritorno alcuni si sposarono, altri restarono amici, altri non si incontrarono mai. Giovani ragazze delle scuole elementari e superiori, che ebbero il compito di tenere alto il morale delle truppe, per fare sentire meno soli i tanti giovani che si trovarono a combattere una guerra non voluta e non sentita. «In verità, o signori, la posta è il più gran dono che la patria possa fare ai combattenti». Così l’accademico e padre costituente Piero Calamandrei raccontava l’importanza delle lettere e delle cartoline che portavano la voce dei soldati della Grande Guerra alle famiglie lontane.
C’era un altro modo, per le donne di essere parte del combattimento e fare volontariato. Al fronte le crocerossine, operative nel 1917 durante la battaglia dell’Isonzo e sugli Altopiani del Carso e di Asiago, resistettero fino all’ultimo al fianco dei pazienti nella ritirata di Caporetto. Per la prima volta, non si limitarono più a essere pacifiste, ma dimostrarono un certo entusiasmo nei confronti di questa impresa. A casa, madri, mogli e figlie, spesso impiegate nelle fabbriche, fronteggiando nemici diversi ma subdoli: la fame, la miseria, lo sfruttamento.
«Nel 1918 le donne costituivano il 25 per cento della manodopera negli stabilimenti ausiliari di Torino, il 31 per cento in quelli di Milano, l’11 per cento in quelli di Genova, e rispettivamente il 16, il 22 e il 20 per cento in quelli non ausiliari delle stesse città – scrive Antonio Gibelli in La grande guerra degli italiani 1915-1918 –. In complesso negli stabilimenti ausiliari le donne occupate erano circa 80 mila alla fine del 1916, salirono a 140 mila nel 1917, per toccare il massimo di quasi 200 mila alla fine della guerra».
Dalle cronache di un tempo di Pier Giuseppe Accornero – 12 novembre 2018: Cento anni fa, il 15 giugno 1918 inizia la «battaglia del solstizio», grande offensiva con bombardamento di artiglierie: gli austro-ungarici occupano alcune quote sull’Altopiano di Asiago e sul Grappa e creano tre teste di ponte sulla sponda destra del Piave. Ma l’avanzata è contenuta dall’artiglieria italiana e il 21 giugno gli austriaci sono respinti. Sul versante italiano ci sono 8.000 morti, 29.000 feriti e 45.000 prigionieri; gli austriaci contano 11.600 morti, 81.000 feriti e 25.000 prigionieri. A fine giugno-inizio luglio l’esercito italiano riconquista alcune posizioni sugli Altipiani e sul Grappa. È la vigilia della vittoria.
Quattro mesi dopo, il 24 ottobre 1918 l’ultima battaglia dell’Italia contro l’Austria: attacco sul Grappa e a sera le truppe iniziano a passare il Piave, ma per la difficoltà del terreno solo una parte della VIII armata raggiunge la sponda sinistra. Il 29 gli austriaci chiedono l’armistizio all’Italia e le avanguardie raggiungono Vittorio Veneto, avanzano nella pianura, penetrano in Cadore, procedono verso la Livenza. Il 30 il Consiglio nazionale italiano proclama l’unione di Fiume all’Italia, decisione posta «sotto la protezione dell’America, madre della libertà e della democrazia universale».
La popolazione è in maggioranza italiana, ma fin dal Settecento fa parte del regno di Ungheria. La città non è stata rivendicata dall’Italia nel «patto di Londra»: dovrebbe restare all’Ungheria o passare alla Croazia. Il 3 novembre le truppe italiane entrano a Trento e un reparto di Bersaglieri sbarca a Trieste. Lo stesso giorno a Villa Giusti (Padova) firmano l’armistizio il generale Pietro Badoglio per l’Italia e il generale Victor Weber von Webenau per l’Austria: le ostilità cessano alle 15 del 4 novembre 1918. Le condizioni dell’armistizio – decise dal Consiglio interalleato di Parigi al quale partecipano il primo ministro Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino – prevedono che l’Italia occupi tutti i territori austriaci assegnati dal «patto di Londra».
L’11 novembre l’armistizio con la Germania pone termine alla Grande Guerra. Il 17 le truppe italiane entrano a Fiume, precedute da truppe serbe e seguite da altre truppe alleate. Lo stesso giorno il prete siciliano don Luigi Sturzo in un discorso a Milano espone il progetto di un partito cattolico, democratico e aconfessionale che fonderà nel 1919.
“Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio; Liguri delle due riviere e d’oltregiogo […] oggi dice la fede d’ Italia: “Qui si rinasce e si fa un’ Italia più grande“. Con queste parole, il 5 maggio di cento anni fa, Gabriele D’Annunzio incendiava la folla accorsa allo scoglio di Quarto, per l’inaugurazione del monumento dedicato alla spedizione garibaldina dei Mille. Pochi giorni dopo, il 24 maggio, il Regio Esercito italiano iniziava le operazioni militari contro l’Impero Austro-Ungarico, facendo seguito alla dichiarazione di guerra proclamata il giorno precedente. Si apriva così il fronte italiano della Grande Guerra, che da un anno stava insanguinando l’Europa, e che presto sarebbe diventata il primo conflitto su scala mondiale.
Con lo scoppio del primo conflitto mondiale la difesa costiera ligure fu privata di molti pezzi d’artiglieria inviati a Taranto e a Brindisi città più minacciate dalla flotta austriaca, che a causa del blocco del Canale d’Otranto si era trovata a operare nella limitata area del Mare Adriatico. In compenso cominciano a crescere le incursioni dei sommergibili degli Imperi centrali nei porti e ai danni del naviglio italiano. Per combattere questa piaga, nascono i “punti di rifugio” (P.R.), ossia tratti di costa difesi dalle batterie terrestri in cui le navi amiche potevano transitare o sostare. La Liguria in questo senso rappresentava una linea praticamente ininterrotta, a difesa del traffico navale e delle linee ferroviarie costiere, che dopo Caporetto furono indispensabili per il transito dei rinforzi anglo-francesi verso il fronte. Genova fu nodo vitale di questa linea di difesa, e la sua piazza fu una delle più armate anche se con pezzi spesso obsoleti e di medio calibro, comunque utili in alcuni casi, a costringere sottomarini assalitori a ritirarsi. Nonostante le precauzioni a largo del breve tratto di litorale antistante Genova, furono affondati in poco tempo due piroscafi da trasporto, tra cui l’americano Washington, di ottomila tonnellate di stazza, carico di locomotive, vagoni ferroviari e materie prime destinate all’industria bellica italiana, affondato il 3 maggio 1917 a largo di Camogli.
Naufragi bellici nel mar Ligure, 1916-18, Affondamenti di piroscafi e velieri nel mar Ligure durante la prima guerra mondiale, (Edizioni del Delfino Moro, Albenga 2017) è un libro di Giorgio Casanova, socio della Società savonese di Storia Patria Il volume tratta un argomento poco esplorato della Prima Guerra Mondiale: gli attacchi dei sommergibili tedeschi nel mar Mediterraneo, e in particolare nel Mar Ligure, contro i convogli navali utilizzati per il rifornimento di materiale bellico, risorse energetiche (carbone) e soldati provenienti soprattutto dalla Gran Bretagna e, in un secondo momento, dagli Stati Uniti. Per interrompere tale traffico, i convogli che seguivano la rotta Gibilterra – Genova e viceversa erano ripetutamente attaccati da U-Boot tedeschi che, a tutti gli effetti, furono tra gli ultimi corsari. Testimonianza di questa guerra sul mare senza quartiere sono le oltre cinquanta navi, tra cui alcuni degli ultimi velieri, affondate dai sommergibili nel mar Ligure tra il 1916 e il 1918. Il più noto è il Transylvania, al largo di Bergeggi.
In tutti i 234 Comuni liguri, per ricordare nomi e cognomi di quanti parteciparono alla Grande Guerra e non fecero ritorno, sono presenti le “memorie di pietra” che raccontano di oltre 118 mila liguri arruolati nel regio esercito: il numero complessivo delle vittime raggiunge quasi 13 mila unità.
Il carattere “di massa” assunto dalla grande guerra permise come non mai prima lo sfruttamento della propaganda come strumento bellico per indebolire il morale nemico e cementare gli ideali e la coesione dei soldati e della popolazione. I giornali vennero mobilitati per sostenere lo sforzo bellico, mentre la stampa di manifesti e volantini venne largamente impiegata per la pubblicità dei prestiti di stato. I manifesti, comprensibili anche dagli analfabeti, recavano immagini che si appellavano ai temi emozionali ed identitari di ciascun popolo; nel caso degli Italiani: la difesa della famiglia lontana, la lotta contro il Tedesco, secolare nemico, e dopo Caporetto, terra ai contadini come premio per la vittoria.
Per colpire l’immaginazione vennere utilizzate figure carismativhe od eroiche di combattenti, come in Germania il barone Manfred Von Richtoren, o in italia il poeta Gabriele D’Annunzio, che ideò azioni volte ad impressionare l’opinione pubblica internazionale come il “volo su Vienna”o “la beffa di Buccari”. Parte della propaganda era rivolta alle truppe nemiche con frequenti inviti a disertare. Bisogna ricordare poi la nascita in questo periodo della Lega delle seminatrici di coraggio, l’attività principale delle ‹‹seminatrici›› era quella di diffondere cartoline a scopo propagandistico e questo permetteva alle donne di essere d’aiuto senza doversi spostare da casa. O ancora, quella di insegnare a donne analfabete la scrittura o confezionare indumenti di lana da mandare ai soldati.
Non solo l’Italia, anche il resto d’Europa devono essere ricordati [sembra che all’attuale governo giallo verde, “la cosa” non interessi affatto]; tanti uomini che hanno sacrificato la loro vita per gli ideali di libertà e democrazia. Ed è per questo che citiamo un flasch tratto dal saggio La Grande Guerra sul fronte occidentale scritto come un reportage da Pier Paolo Cervone, studioso e giornalista, che racconta e analizza le battaglie più cruente e importanti combattute sul suolo francese nel corso della Prima Guerra Mondiale.
“Un viaggio tra i campi di battaglia e le località del fronte occidentale della Grande Guerra. Marna, Verdun, Somme, Chemin Des Dames.
“Sono tutte battaglie dal diverso significato che in comune hanno però il fatto che intere generazioni si sono immolate in difesa degli ideali di libertà e di democrazia”, dice Cervone. “E per non dimenticarli, per ringraziarli del loro sacrificio, i Paesi di appartenenza hanno costruito tra Francia e Belgio imponenti memoriali, musei e monumenti che, a volte, sono vere opere d’arte”.
A Ypres, piccola cittadina belga che gli abitanti fiamminghi chiamano Ieper, ogni sera, si svolge ancora oggi una toccante cerimonia: “Dal 1918 si ripete lo stesso rito che è stato sospeso soltanto durante l’occupazione nazista”, testimonia Cervone: “Ogni sera, alle otto in punto, sotto le volte della Porta di Menin, il possente sacrario dei 55 mila senza tomba, va in scena l’omaggio sonoro ai caduti della Grande Guerra, e riecheggia il suono delle cornamuse scozzesi e di tre trombettieri che eseguono ‘The Last Post’, il motivo che chiudeva la giornata negli accampamenti degli inglesi”.
Alesben B.