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A Finalpia uno tra i più antichi registri dei nati. Figli di altri tempi. In Italia la curiosa origine di nomi e cognomi. E ai nostri giorni ‘ruota degli esposti’


Figli di altri tempi, nomi e cognomi. I nostri nomi parlano un po’ di noi e della nostra famiglia. I bambini “esposti”: un problema sociale da sempre presente. L’abbandono dei nascituri a Pia e zone limitrofe.

di Giuseppe Testa

La ‘ruota degli esposti’

A Finalpia si trova uno dei più antichi registri dei nati. E’ grazie a questi documenti che possiamo conoscere alcune cose sui fatti di allora. La prassi dell’abbandono dei bambini nati indesiderati era consueta anche nel Finalese, anche se con numeri limitati vista la non eccessiva densità di popolazione del tempo.

I bambini venivano abbandonati non a caso, ma laddove vi era la certezza che vi fossero anime pie che ne avrebbero preso cura. Alla luce delle attuali conoscenze non vi era una vera e propria “ruota degli esposti”, ma si sceglievano comunque luoghi particolari dove la presenza degli esserini sarebbe stata notata in breve tempo. I documenti ci rivelano che le strutture conventuali davano buone garanzie di un abbandono con buone probabilità di sopravvivenza, ma chiese e cappelle non erano da meno. Poste queste su vie trafficate, garantivano il fatto che qualcuno si accorgesse in breve tempo del nascituro, senza fare esporre la madre “peccatrice”. Tutti questi luoghi erano comunque consacrati ed il bimbo veniva quindi affidato alla misericordia divina. Di questi bimbi non si accettava la nascita (erano figli del peccato o di famiglie molto povere), ma si cercava comunque in tutti i modi di salvaguardarne l’esistenza.

Per evitare che i bimbi finissero nel “limbo”, in caso di morte precoce, era urgente officiare al più presto il rito battesimale, in quanto spesso i neonati abbandonati senza eccessive cure non sempre riuscivano a sopravvivere. Si era poi certi che le strutture conventuali avrebbero avuto la possibilità di nutrirli e avrebbero avuto cura di una loro sistemazione futura. I padrini erano di volta in volta gente che era li per caso, o rintracciata in fretta nei paraggi.

Il libro dei battesimi di Finalpia, tra i più antichi in Italia riporta, il 24 febbraio 1484 che: “Jacometo qui fuit misso in cimiterio Sancte Marie de Pia, patrem eius nescio nec mater, amore Dei baptizavi eum, patrini ...”. Questa annotazione è il primo battesimo registrato nel suddetto registro: il piccolo venne rinvenuto davanti ad un cancello del cimitero del monastero (zona sotto il campanile, lato mare: oggi vi passa una strada).

Ancora il 21 agosto 1487 si legge che “Ego fra Laurentius Baldrachi baptizavi unam bastardam quae fuit posita in cimiterio in die Sancti Bemardi et posui nomen ei Bemardinam, patrini fuerunt Gilardus Casatroia et Dominicus Gallus, madrina fuit soror Baptestina de Ecclexia de ordine Sancti Dominici, ipso die migravit ad Dominum”.

Questi due esempi riportano la modalità tipica di abbandono del bambino. Il cimitero di Pia sembrava il luogo migliore per l’abbandono, in quanto terra già consacrata a Dio, al quale si affidava la piccola anima. Inoltre il luogo dava facilità di anonimato alla mamma, che poteva con discrezione lasciare il piccolo fardello senza dare troppo nell’occhio.
E’ curioso verificare la definizione “bastarda” nel secondo caso, che ci fa capire come la piccola sia una creatura abbandonata, ma che della sua storia nulla altro sappiamo.

Nel 1494, il quinto atto riporta: “quae fuit proiecta ante forem ecclexiae, cui nomen imposui Margarita, et hoc sub anno 1494 de mense decembris, patrinus fuit Laurentius Bagnascus murato”. In questo caso, per evitare troppo freddo al corpicino, questo venne lasciato davanti alla chiesa, forse per anticipare il più possibile il ritrovamento.

Così anche il primo atto del 1500 riporta: “Ego fra Benedictus baptizavi Mariolam quae proiecta fuit extra ecclesiam hanc de nocte et ideo ignoravi cui sit, patrinus fuit Damianus Saxus famulus noster”; altre annotazioni di bimbi esposti sono riportate nel 1503 e nel 1504.
Per i frati il ritrovamento del nascituro creava una serie di impegni: nutrire e curare subito il piccolo, ovviamente battezzarlo, cercare una balia che potesse nutrirlo al seno e una famiglia (dietro un piccolo pagamento) che potesse farlo crescere. Il problema era dunque la temporanea cura ma anche il susseguente interesse verso la sorte del piccolo.

Il 3 novembre del 1521Una filia ignotorum parentum quae ixposita in quamdam capilam S. Sebastiani in viam quae ducit Saonam, baptizata fuit hodie a fra Angilo de Janua …”. In questo caso la creaturina fu lasciata davanti alla cappella di San Sebastiano, poco prima della Selva, sulla strada che univa Finale a Savona. Altro documento del 1537:Ego qui supra (tale fra Cristoforo da Genova) baptizavi Benedictum inventum in capelleta Sancti Antonii, cuius pater et mater ignoratur …”. Vi sono, poi, altri esempi nel 1552uno putino trovato nella capella de Sancto Antonio dicto Monte et imposui nomen Venturino …”; in questo caso il bambino morì poco dopo; nel 1554 “… ho baptizato Esterina figia trovata su la porta di la giexia, … e fu mandata a lo hospitale a nutricare”.

Nel 1555: “… ho ogi baptizato Judit trovata da la porta de la chiesa de Sancto Antogno del Monte”. Per quello che riguarda i nomi scelti per questi trovatelli si ricorreva alla fantasia dei frati ed alle Sacre Scritture: venivano scelti nomi di personaggi biblici, oppure nomi che si riferivano al Santo del giorno, o ci si ispirava al brano del Vangelo o delle scritture letto in quel giorno. Analizzando i dati estratti da questi riferimenti si nota come le bambine sono il doppio i bambini, segno di quei tempi. A parità di impegno nel mantenimento, la femmina era un fardello da maritare (in futuro) e fornire di dote, il maschio, nel caso fosse riuscito a diventare adulto, era forza lavoro nella dura lotta della sopravvivenza quotidiana.

Altra ‘ruota degli esposti’

Le stesse procedure di abbandono si ripetevano a Marina ed in Borgo, ma sono più difficilmente documentabili per l’assenza del libro dei battesimi, che sarà imposto dai Canoni della Controriforma. In alcuni documenti viene però segnalata, come luogo preferito di abbandono per il Borgo, la scalinata del Collegio Aycardi, allora convento.

I figli “Bastardi”- La parola bastardo (termine indicante il figlio naturale, nato fuori del vincolo matrimoniale o di padre illegittimo o sconosciuto) è oggi considerata un insulto ma in passato aveva un’altra accezione, assolutamente non offensiva. Poteva essere un nome proprio, ed a Finale nel ‘600 esistono ancora, come appare nei documenti, persone che portano il nome proprio “Bastardo” che addirittura diventò un patronimico e quindi un cognome che rimase alla famiglia. L’appellativo va inteso collocandolo e interpretato nel contesto del tempo in cui vi erano bastardi “privilegiati” ed altri reietti. Se il figlio illegittimo nasceva in una famiglia povera o era il figlio di persona religiosa, veniva considerato come un frutto del peccato che pesava molto in una società ossessivamente religiosa e praticante. Egli veniva definito “spurio” (dal lat. spurius, parola di origine etrusca: non legittimo, nato da una relazione adulterina: prole s.; figli spurî) e trattato quasi come un animale.

Un figlio del peccato poteva essere venduto, dato in orfanotrofio o come una sorta di schiavo a qualche famiglia benestante che potesse sfamarlo. Tutt’altra cosa accadeva se il padre era un nobile il quale, spesso obbligato a matrimoni “politici” con lo scopo di procreare eredi, poteva vivere storie d’amore e di piacere in libertà con donne di suo gradimento. Egli spesso accettava con gioia il figlio illegittimo che godeva il privilegio di avere sangue nobile: quest’ultimo riceveva incarichi di fiducia, poteva sostenere mansioni di prestigio, veniva piazzato in luoghi strategici. Il padre sapeva che era una persona di cui fidarsi, che riceveva molto e ricambiava in gratitudine, nel contesto delle lotte familiari o extra-familiari poteva essere un appoggio importante.

La situazione giuridica dell’illegittimo, comunque complicata, subì lente trasformazioni fino verso la fine del medioevo, epoca in cui a questi figli naturali, debitamente riconosciuti, vennero concessi sempre più privilegi fino ad arrivare alla quasi alla parità di diritti con i figli nati nel matrimonio. I figli bastardi potevano ricevere un’eredità e anche se mancava loro la nobiltà pura, emergere nella società dell’epoca come figure privilegiate; essi non potevano ereditare il nome “nobile” paterno ma, come emerge in svariati casi, dopo due o tre generazioni questo poteva essere assunto. In ogni caso ne prendevano le “insegne”, modificandole di quel poco che serviva a fare identificare una persona “vicina” a coloro che possedevano l’emblema originale.

Dopo i “bastardi”, facciamo qualche accenno ai cognomi degli orfani, dei trovatelli, dei figli abbandonati.

Non me ne voglia se qualcuno si troverà citato… Questi sono retaggi del passato: oggi esiste la privacy, e rigide norme di adozione: il piccolo assume il cognome dei genitori adottivi. Ma una volta…Queste creature abbandonate erano definite figli di “N.N.” (Nomen Nescio) o di “M. Ignota”. Secondo una interpretazione l’origine del vocabolo “mignotta” risalirebbe ad una lettura sintetica dell’annotazione matris ignotae apposta sui registri anagrafici nei riguardi di neonati abbandonati: la nota era anche frequentemente abbreviata in m. ignotae il che, letto in un’unica parola, portò ad indicare un certo tipo di donna disonorevole. Ai piccoli veniva posto al braccio un braccialetto di stoffa con la dicitura filius m. ignotae che letto di seguito risultava filius mignotae, da cui deriverebbe il termine romanesco fijo de mignotta (appunto, figlio di madre ignota), poi reso nella lingua italiana con figlio di mignotta. Col tempo, il popolino romano affibbiò la definizione a quelle signore che esercitano la professione più vecchia del mondo. Secondo una altra teoria invece pare fossero chiamate mignotte le prosperose portoghesi della regione del Minho, che le famiglie benestanti chiamavano a Roma per esercitare il mestiere di bàlie. Le malelingue asserivano che dette bàlie si rendevano talora disponibili in altro modo, per arrotondare i compensi.

Il figlio abbandonato tranquillizzava le coscienze dei genitori, che rispettavano la piccola vita senza commettere peccato mortale. Anche in molte fiabe (es. di Pollicino o Tredicino) i figli sono abbandonati nel bosco, destinati a morte sicura: questi non sono uccisi direttamente ma abbandonati al caso ad alla fortuna, per cui potevano anche fortunosamente “scamparla”, mettendo un po’ a tacere le coscienze dei (degeneri) genitori. Ma queste favole partono da retaggi ancestrali, di cui tratteremo a parte in altra occasione.

Nell’antica Roma il padre poteva rifiutare un figlio appena nato, se non di suo gradimento. Finiva tra gli schiavi o peggio, se non trovava qualche anima buona che se ne faceva carico.

Fino a gran parte del Medio Evo, i genitori in difficoltà economiche vendevano i figli, in realtà per pochi denari; le femmine sarebbero andare ad alimentare la prostituzione, e i maschi per i lavori agricoli o di fatica. Durante il Medio Evo Federico II di Svevia mise fine a questa pratica con una legge che proibiva la vendita delle femmine per la prostituzione. Si passò così alla pratica detta “oblazione”, consisteva nel lasciare in “dono” i propri figli nei conventi. Numerose le strutture che si specializzarono nella “ricezione” dei figli indesiderati. Questi avevano bisogno di tutto, soprattutto cibo, calore ed una famiglia, ma anche di un nome e cognome. Toccando questa pratica ai conventi e monasteri, molto spesso questi erano di ispirazione religiosa, con particolare riferimento alla struttura dove avveniva l’abbandono. Se per i nomi si preferiva magari il patrono della zona, o qualche santo legato all’ordine, per il cognome si iniziò una usanza nella quale traspare proprio l’atto dell’abbandono o un augurio di vita migliore, dopo che il primo inizio era andato un po’ male. Di zona in zona si svilupparono specificità:  a Napoli, tutti i bimbi della “ruota degli esposti” si chiamavano appunto Esposito, che è esposto in spagnolo; a Firenze ed in Toscana, uno dei conventi fu lo “Spedale di Santa Maria degli Innocenti”, e gli esposti ebbero tutti il cognome di Innocenti, Nocenti, Nocentini; a Milano l’istituto era l’ospizio di “Santa Caterina della Ruota”, che aveva come simbolo una colomba, perciò qui i trovatelli vennero nominati Colombo e Colombini. Similmente a Pavia, ad esempio, gli esposti vennero chiamati spesso Giorgi, mentre a Siena Della Scala.

Certo oggi può sembrare crudele sottolineare i bimbi abbandonati con cognomi così chiaramente esplicativi: Esposti, Orfano, Epigrafi, Proietti, Trovato, Ventura, Venturini. Bastardo, Ignoto, Incerto, D’Avanzo, Spurio, Casadei, Casadidio, Casagrande, Diotallevi, Donadio, Bentivoglio, Balasso (tipico del Veneto).

Vi era anche una definizione più “geografica”: se abbandonati vicino alla ruota degli esposti potevano essere chiamati Rota, vicino ad un ponte Da Ponte, vicino ad una chiesa Chiesa, ecc. Questo a grandi linee, ma zona per zona, a seconda delle strutture che ricevevano, delle devozioni e del dialetto locale, vi sono numerose “varianti” che, ad un esame più attento, rivelano che in tempi remoti qualche avo abbia iniziato questo viaggio terreno con un abbandono che oggi sembra deprecabile (e lo è), ma che forse nasconde solo la voglia che il nascituro potesse avere cibo e magari prospettive di una vita migliore di quella dei genitori.

Il nome Augurale- Anticamente il nome augurale era tipico di famiglie agiate e benestanti, che avevano necessità di eredi per mantenere il patrimonio ed il blasone. Veniva usato spesso e solitamente risultava dalla composizione di due parole, un nome con aggettivo, aventi significato di augurio, aiuto, promessa. Siffatti composti abbondavano in Toscana ed erano indizio di gentilezza di costume e di forte sentimento della solidarietà famigliare. Abbiamo cosi, per esempio: Buon insegna = bona encaenia, ossia buon principio, nome che generalmente si dava al primogenito. Le “Encenie” sono le cerimonie per la consacrazione di una nuova chiesa, o di un altare. Per gli ultrogeniti (ognuno dei figli che seguono al primogenito), vi era una vasta scelta: Buonaccorso (da cui i cognomi Buonaccorsi, Corsi, Corsini) Buonaggiunta (da cui i cognomi Giunta, -ti, Giuntini) Buonaiuto (da cui i cognomi Buonaiuti). Buonamico, (da cui i cognomi Buonamici, Amici, Buonarrato) Buonarroti, Buonarreto, Buonarrota (da cui i cognomi Buonarroti, Rota, Roti, Rotelli, Rotolini, Tellini (solo in Toscana) e per concludere gli esempi Buoncompagno, (da cui Buoncompagni, Compagni, Pagni, Pagnini, Pagnoni). Infine citiamo anche Buonfiglio, Bentivoglio, Benenati, Bonaventura, Bonanno, Bonaiuti ecc.

Il nome augurale nel Savonese- Era talmente radicato intorno al Mille l’usanza di nominare i figli con un nome augurale che oggi ci può sembrare strano. Se controlliamo ad esempio il Cartulario dei Notai Cumano e di Donato (anni 1178-1188), oppure i “Registri della Catena”, Il Cartolare di Uberto I, gli Atti del notaio Giovanni di Savona, notiamo che sono decine le persone che hanno nomi di questo tipo: Bonacosa, Bonadonna, Benenato, Bonafiglia, Bonafossa, Bonamorte, Bonandus, Bonaventura, Bonavida Bonafede, Bone, Boneerbe, Bonahora, Bonefacii, Bonenatus, Bonifilii, Bonifredus, Boneverga, Bonefantis, Boniiohannis, Bonivicini, Bonipetri e molti altri ancora. Come risulta facile riconoscere, questi nomi si sono trasformati in cognomi. Ricordiamo che il Cumano era notaio in Savona, e gli atti rogati sono essenzialmente di questa zona: sono raramente coinvolte persone del Finalese se coinvolte in compravendite, o altro atto legale, con persone di Savona.
Breve storia dei cognomi- Si definisce “cognome” il termine identificativo di una persona che connota la famiglia di appartenenza, ovvero di discendenza. In Italia si usa scrivere il cognome immediatamente dopo il nome della persona. E’ famoso l’aneddoto di Giosuè Carducci, nella sua veste di professore ginnasiale. Egli chiedeva come prima domanda le generalità dell’esaminando: se questi pronunciava prima il cognome e poi il nome, l’interrogazione si interrompeva e lo studente veniva rimandato al banco con l’insufficienza. Talvolta, per varie esigenze, soprattutto in elenchi anagrafici, si usa scrivere il cognome anteposto al nome.

La nascita del cognome  non è riconducibile ad un preciso periodo storico; secondo antiche scritture le prime tracce dell’uso del cognome sembrano risalire al 2850 a.C. in Cina, sotto l’impero di Gu Hsi. In Italia, in era romana, si usava utilizzare tre termini:

– praenomen: paragonabile al nome proprio di persona dei giorni nostri;

– nomen: anche se il termine inganna, è assimilabile al cognome odierno;

– cognomen: riconducibile alla definizione contemporanea di soprannome.

Dopo il 500 si cominciò ad utilizzare un singolo termine al posto di nomen e cognomen, detto supernomen. In Italia i primi cognomi si presentarono verso la fine del 900 ed erano in uso tra i nobili.

Dopo la forte crescita demografica tra il decimo e l’undicesimo secolo, si avvertì l’esigenza di individuare univocamente ogni persona e registrarlo, sia per gli obblighi fiscali, che per tutte le esigenze delle strutture governative. I cognomi nacquero in modo differente, quasi spontaneo. Alcuni derivarono da toponimi di provenienza (per esempio: Dal Colle, Monti, Piacentini, Ripamonti, Damele…); altri dall’attività svolta (per esempio: Fabbri, Cacciatori, Bovaro, Pastorino, Barbieri, …);

Alcuni da caratteristiche fisiche (per esempio: Biondi, Gobbi, Bassi, Mancini, …); o da un avo capostipite, in questo caso si dice patronimico (per esempio: Di Francesco, De Matteo, Giovannini, Pasquali, Filippi ecc…). Si consolidò la prassi e nacque il cognome moderno, che per molto tempo fu abbastanza “elastico”, talvolta impreciso; in molti documenti d’epoca si  evidenzia come i cognomi venivano modificati: ad esempio Rosso in scritture redatte in latino diveniva “Rubeus”, oppure Chiazzari veniva trascritto “Platearium”. Capitava che il cognome venisse declinato: Garzolio poteva diventare (dei) Garzoli o, se femmina, (la) Garzolia.

Il Concilio di Trento riunitosi nell’anno 1564 impose alle parrocchie l’uso di un registro dei battesimi con trascrizione di nome e cognome. Con i Savoia al governo (prima Regno di Sardegna e poi d’Italia) la burocrazia anagrafica fu gestita anche, e principalmente, dallo Stato. I Savoia imposero la “cristallizzazione” del cognome, cioè il nome scritto all’anagrafe con la denuncia di nascita (anche in caso di palese errore) diveniva immutabile. Si verificarono casi di registrazioni di fratelli con cognomi lievemente dissimili, talvolta accadeva tra padri e figli.

Ai giorni nostri vi è la possibilità di  porre rimedio ad antichi errori di trascrizione, seguendo un preciso iter burocratico, si può anche cambiare il proprio cognome o scegliere quello della madre anziché quello ereditato come consuetudine dal padre.

Giuseppe Testa

 


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