Ho scritto questo testo nel 2013, ma credo sia tornato più attuale che mai. Spero di poter chiarire ai lettori come le scelte di un secolo fa hanno condizionato la storia di Finale, dai nostri bisnonni fino a noi. E oggi quali potrebbero essere le scelte lungimiranti?
di Giuseppe Testa
Come appassionato ricercatore di Storia, ho scritto queste righe che sono, o vogliono essere, una disamina storica del sito che, per oltre un secolo, ha ospitato l’unica grande industria del nostro territorio. Questo è stato in passato il rapporto tra il sito occupato dalla Piaggio e la comunità Finalese.
Ora si tratta di determinare l’appartenenza futura: probabilmente un insediamento di tipo turistico-insediativo (con grandi percentuali di seconde case). Quanto, di ciò che sarà costruito, sarà di reale appartenenza, uso, utilità e godibilità della comunità Finalese? Quanto questo andrà ad intaccare la fragilità del territorio e la sua bellezza, oppure lo migliorerà? Sarà possibile avere un ritorno di occupazione, almeno parziale, dopo la dipartita delle Industrie Aeronautiche?
Oggi le scelte toccano ai politici, avallate o contrastate dai cittadini che li hanno, o non li hanno, votati. Le scelte che saranno fatte diventeranno a loro volta Storia, condizionando non solo la nostra vita oggi, ma anche il futuro per molte generazioni, così come le scelte di un secolo fa hanno condizionato la storia di Finale, dai nostri bisnonni fino a noi.
In Futuro sarà troppo tardi per modificare gli indirizzi odierni; l’unica cosa che si potrà fare sarà analizzare e commentare le scelte di oggi, farne una lettura e darne una valutazione; un motivo in più per fare scelte responsabili e lungimiranti.
Analisi storica delle Aree (ex) Piaggio- Si ricomincia a parlare del progetto di edificazione delle aree ex Piaggio… rinfreschiamoci la memoria con l’analisi del territorio che l’Azienda occupava, e la sua storia in relazione alla cittadina di Finale Ligure.
Questo scritto è datato ad alcuni anni fa (il 2013), quando sembrava imminente le maxi edificazione nelle aree ex Piaggio. La crisi economica ha in seguito bloccato tutto: i costruttori stessi hanno riscontrato che non sarebbero rientrati in tempi né brevi, né medi e né lunghi, del massiccio investimento economico necessario; da allora, per oltre un decennio, tutto è taciuto. L’area semidemolita è tutt’ora in palese degrado. Ma le mie raccomandazioni, timori e aspettative di allora credo siano ancora valide ancora oggi, quando si ricomincia a parlare della ripartenza del progetto.
Potrebbe sembrare uno scritto politico, ed in effetti lo è (scrive la Treccani: “politico” connesso con i motivi o le vicende della vita pubblica), nel senso che si occupa della “Cosa Pubblica”, che credo sia un dovere di tutti. Dicevano gli antichi greci, a proposito dell’amministrazione delle loro Città-Stato: dedicarsi alla vita politica è per pochi, ma tutti devono essere in grado di conoscerla e capirla.
Oltre il Confine di una terra di confine: analisi storica del territorio occupato dall’azienda- Sono anni che si discute del presente e del futuro dell’area occupata oggi dagli stabilimenti produttivi della Piaggio Aero Industries. Questo lembo di territorio, destinato ad ospitare un insediamento urbano di notevoli cubature, ha avuto una storia particolare rispetto al resto della fascia costiera del moderno comune di Finale Ligure, e del Finalese in genere. Essendo questo sito allo sbocco della valle del Melogno, la zona risulta esposta a tutti i venti, specie quelli freddi del nord, con la sola esclusione del vento di ponente. Tra tutta l’area, solo quella che si affaccia sul mare ha una esposizione solare accettabile, ma per la gran parte della giornata (in inverno, col sole basso, ancor di più), la zona non gode dell’irradiazione solare. Questa copertura è causata dal promontorio erto e roccioso della Caprazoppa, che la sovrasta. In passato è sempre stata perciò considerata una area infelice, cioè non adatta ad ospitare insediamenti umani, né luogo deputato ad altre attività, sino al 1839 anno in cui fu aperto il traforo di Caprazoppa e fu attraversata dalla strada Litoranea.
Le prime piccole comunità che hanno abitato il finalese non hanno quindi avuto interesse ad “antropizzare” l’area, ma preferirono insediarsi in altre zone, che possedevano migliori requisiti di vivibilità. Gli antichi erano più accorti di noi nella scelta dei luoghi edificabili e dei luoghi dove fosse proficuo vivere. Si costruiva sulle vie di comunicazione, vicino a facili e sicuri approdi, in luoghi esposti al sole, coperti a nord, lontano da zone esondabili o da terreni improduttivi, in luoghi arroccati per motivi militari, ecc.
Il torrente Pora, il confine municipale Romano- Nel periodo romano iniziò la regimentazione dei corsi d’acqua dando la possibilità di abitare e coltivare i pur fertili fondovalle, cercando di evitare le frequenti esondazioni e, spesso, con bonifiche di zone paludose e malsane. In quel periodo il Finalese era aspro, impervio e poco abitato. Fu per questo che i Romani scelsero proprio il torrente Pora come confine tra i municipi di Alba Ingauna (Albenga) e Vada Sabazia (Vado Ligure). Si trattava di un confine “diretto”, senza che fosse necessaria quella zona di rispetto “neutra”, chiamata ager arcifinius che i romani istituivano quando le condizioni lo richiedevano.
L’assenza di questo cuscinetto di terreno statale fece sì che non potesse essere, come prassi, incamerato nei regi demani dei successivi padroni bizantini e longobardi. La continuità territoriale impedì l’inserimento di elementi nuovi nella zona, come ad esempio gli insediamenti monastici che necessitavano, oltre della volontà politica di chi li voleva istituire, anche del territorio dove essere insediati. Le donazioni monastiche nel finalese furono effettuate, in altre zone, dall’età feudale in avanti, quando fu possibile modificare questo stato di fatto. Lo status di terra di confine deciso per il Finalese fece sì che il territorio, dove si insedieranno le industrie meccaniche, fu… sul confine dell’altro territorio: l’ultima eredità dei romani fu lo stesso toponimo “Finale” inteso come sviluppo dell’espressione ad fines.
Nel tempo l’espressione “… ab acqua Lerones usque ad acquam Finarii…”, legò al Borgo appena costruito la definizione “Burgum acquam Finarii”, che da lì in avanti si trasformò in “Borgo del Finaro” e così via fino ad oggi (tralasciamo le numerose modificazioni), evolutosi nel moderno Finale Ligure, e contrassegnando un vasto territorio (il Finalese). La zona della foce del torrente, a ridosso della Caprazoppa, era comunque priva di strade e di fatto non frequentata, in quanto non vi erano ragioni ne’ per abitarvi ne’ per passarvi, essendo il sito un “vicolo cieco”.
Le strade antiche non attraversavano mai i corsi d’acqua alla foce, ma penetravano in un punto stretto delle valli dove un ponte, anche piccolo, bastava a scavalcare il corso d’acqua, per essere costruttivamente facile da realizzare e poco esposto alla azione meccanica erosiva delle piene. La viabilità romana e preromana Finalese è ipotizzabile fosse localizzata nei pressi del Borgo, e addirittura più all’interno. In passato il torrente non era regimato, dava spesso problemi di esondabilità. Il toponimo “Isola”, dato alla zona della foce, significa infatti “terra tra due acque”. Solo nel XVII secolo fu fatto un imponente lavoro di controllo delle esondazioni, tramite l’erezione di muraglie, ma il problema non fu mai risolto del tutto, e si ripropose periodicamente fino ai giorni nostri.
Il confine della giurisdizione Ecclesiastica- Il crollo dell’Impero fece sì che il primitivo confine amministrativo romano diventò poi ecclesiastico. Sulla fine del XII secolo, costruito il Borgo, incominciarono a svilupparsi gli abitati di fondovalle, con la conseguenza della modifica dell’assetto insediativo di questa zona di confine, tra le diocesi di Savona ed Albenga. Incominciò ad assumere importanza il fatto che una parte dei nuovi insediamenti venissero a trovarsi, seppure per pochi metri, a ponente del confine religioso, per cui si cercò di estendere i confini parrocchiali e diocesani al di là del torrente, cosa non gradita alla diocesi di Albenga.
Le sedi parrocchiali di Verezzi, Gorra e Magliolo erano raggiungibili con difficoltà da questi nuovi insediamenti che pur rientravano nei loro confini, ed i fedeli residenti sull’altra sponda del torrente, appartenenti agli agglomerati di Marina, Borgo, Calice e Rialto dovevano percorre tragitti di 2 o 3 chilometri per assistere ai riti. Iniziò così una lunga disputa, che solo nel 1636 fu risolta dall’arbitrato di mons. Carlo Antonio Ripa, vescovo di Mondovì che, con salomonico verdetto, mantenne i confini invariati salvo affidare le anime delle poche case vicine al confine a ponente del Pora, alla cura della diocesi savonese, insieme con il resto della comunità insediata sull’altra sponda.
L’Arbitro stabilì che “il territorio al di là del fiume, verso ponente, sia della diocesi di Albenga, e le case del luogo di Erze (Eze), con Abre (Erze sembrerebbe essere il quartiere di Eze, cioè la parte di abitato di Calice oltre il Pora. Per quanto riguarda Abre, questo nome sembra identificarsi con le case sparse della parrocchia di Rialto, in quanto dopo Marina, Borgo e Calice è l’ultima comunità coinvolta nella questione), presso il Borgo e la Marina siano della diocesi di Savona, con alcune limitazioni, come nella medesima sentenza”. Le estenuanti liti tra i vescovi di Savona e Albenga per la proprietà della piccola chiesa di San Bernardo di Eze sono ben raccolte e documentate da Gianluigi Caneto, in una pubblicazione ciclostilata in proprio per uso dei parrocchiani di Calice e reperibile nella stessa parrocchia.
Pur se al momento non se ne hanno tracce documentali è probabile, che in periodi successivi, sia stato fissato un nuovo assetto dei confini delle due diocesi. Tuttavia padre Salvi, citando vari documenti, ne riporta uno dell’arciprete Giobatta Davico del 22 agosto 1810, dove questi annotava che il confine tra le parrocchie di Marina e di Borgio e Verezzi era ormai il rio Fine ( Si tratta del rio che si getta in mare subito a ponente dell’attuale cimitero della Marina.), cioè l’odierno confine civile tra i due comuni.
Dal Medioevo in avanti- Il promontorio di Caprazoppa diventò in età medievale confine civile per la Marca Aleramica. Questo sottrasse la prerogativa di limite territoriale al Pora, per ovvi motivi militari. Un confine posto a fondovalle era facilmente soverchiabile in un attacco dall’alto e non permetteva la visibilità ed il controllo sul territorio Pietrese. Fu, successivamente, il confine di Stato con la Repubblica di Genova. La zona, dall’anno Mille in avanti, fu costantemente vigilata militarmente, munita di trincee antisbarco e di torre anti pirateria marittima. Era da tenere sotto controllo allora sia un eventuale attacco terrestre che soprattutto uno sbarco navale. Mentre da terra poteva arrivare un esercito, a piedi e senza cavalleria e artiglieria, le spiagge finalesi davano la possibilità di scaricare cannoni e cavalli, rendendo più problematica la difesa dei siti fortificati.
L’ipotesi del porto- In passato più volte la sua insenatura, più pronunciata di oggi a causa dell’accumulo di detriti trascinati a valle dal torrente, era stata pensata per ospitare un porto. Furono gli Spagnoli i primi che ipotizzarono seriamente uno scalo marittimo a ridosso del promontorio, più accentuato di oggi e riparato ai venti. Anche il secolo scorso il progetto fu riproposto, ma la scelta cadde sulla “Marinella”, sotto capo San Donato.
Territorio a rischio- Gran parte del territorio occupato oggi dalla Piaggio, non legato a vincoli demaniali, era di proprietà di privati e soprattutto dei RR. PP. Domenicani del Borgo. Dopo le numerose e periodiche esondazioni, che sconvolgevano le colture, cancellavano i confini e depositavano nei fertili orti tonnellate di detriti pietrosi, si decise di difendere i terreni agricoli erigendo sugli argini del Pora alte muraglie. Alcune di queste sono ancora visibili, altre si intravedono nel greto in secca. Per ciò che riguarda il lato opposto del torrente ciò è testimoniato dalla lapide commemorativa posta in origine nei terreni della mensa parrocchiale, ed oggi murata nella parete di un palazzo di via Dante, nei pressi del bar Casanova.
La peste- La zona a ridosso del promontorio era detta “Fontanelle”, per via delle sorgenti d’acqua, che sgorgavano grazie al fenomeno del carsismo. Era il luogo prescelto per acquartierare i soldati spagnoli prima dell’imbarco, o appena sbarcati, quando vi erano pericoli di contagio. Fu il luogo ideale per localizzare il lazzaretto della Marina durante la pestilenza del 1630/32. La zona era praticamente isolata, vi era l’indispensabile acqua, il torrente faceva defluire in mare i reflui della baraccopoli, senza che questi venissero a contatto con i non contagiati. La zona era inoltre vigilabile comodamente, essendo chiusa tra mare, rocce e fiume: era facile controllare le evasioni degli infetti o evitare il contatto con i sani. Come si vede in raffigurazioni d’epoca, anche gli Spagnoli presidiarono militarmente la zona, con piccole trincee e fortificazioni.
La zona viene finalmente “aperta al transito”- Solo nel 1839 fu aperto il traforo e fu possibile collegare la litoranea con Pietra evitando il progetto del Comune di Finalborgo che, demolendo i due ponti medievali e costruendo la “Nuova via del Cavo rettificata” (quella dove fu costruita la chiesa della “Regina Pacis”), voleva che transitasse dal Borgo e scavalcasse la Caprazoppa a quota più elevata e senza tunnel. Con le opere approntate dal Regno d’Italia cambiò radicalmente il flusso degli spostamenti. Finalmente, nel Finalese venne creata la parallela al mare, denominata in un primo tempo “littoranea”, oppure via della Cornice ed infine, nel XX secolo, via Aurelia. La nuova strada, che nulla ha a che vedere con l’antica consolare romana, supera mediante un traforo, le falesie di Capo Noli e Caprazoppa, dapprima sempre aggirate. Questa grande carrabile e carrozzabile, eseguita a pezzi senza un progetto unico, comportò una serie di lavori minori per collegare nel miglior modo possibile i vari tratti tra loro: tra i tanti interventi, quello eseguito nel 1839 servì a rettificare la strada in “attiguità del ponte sul Porra” (travolto nell’alluvione del ‘900, rifatto in ferro e successivamente in laterizio, che è quello che utilizziamo oggi sulla via Aurelia), costruito più di venti anni prima.
Questo ponte infatti, non era progettato per asservire il traforo, ma la strada a zig-zag tracciata nel 1795 per motivi militari, che dai pressi del posteggio Piaggio si inerpicava sulla sommità del Capo. L’apertura di questa strada, abilitata ad essere “corriera”, cioè degna del traffico postale, fece si che alcuni stabili fossero eretti in quegli anni vicino al suo tracciato, in zona leggermente elevata. Queste abitazioni esistono ancora oggi.
Da quel momento la zona divenne di transito, cosa che si accentuò nel 1872 con il tracciato della ferrovia. L’apertura al transito favorì lo sfruttamento commerciale delle Arene Candide, e la possibilità di movimentare materiale da cava: due zone furono sede di estrazione, al di qua ed al di là del promontorio.
Le cave- Il sito, una volta iniziate le “coltivazioni” delle cave, diventò un insediamento produttivo, ma non ambito da altri scopi che non fossero l’estrazione di materiali. Il prelievo della sabbia delle Arene candide, o della roccia calcarea per usi industriali o edilizi, era la sola motivazione per cui si accedeva alla zona, che ha visto l’unico insediamento umano come struttura abitativa nella casa della famiglia De Negri, concessionaria di una cava estrattiva. Lo sviluppo urbanistico finalese a ponente si era concluso nel secolo precedente con la zona ante stazione ferroviaria, fino a che con le industrie di Finalmarina, poi Piaggio, una serie di capannoni industriali, compreso il monumentale Hangar, vennero edificati in questa zona.
Le cave De Negri e Ghigliazza hanno pesantemente modificato la morfologia del promontorio; l’ultima modifica del tracciato della moderna Aurelia con la sua massicciata e le scogliere di protezione, più avvicinato alla linea di costa allo scopo di rettificare il percorso, ha ridotto ulteriormente la profondità dell’insenatura (e la sua bellezza), nel sito dove più volte si era ipotizzata la costruzione del porto. Ciò è avvenuto anche con la complicità del torrente, che, trascinando a valle sedimenti di ogni tipo, ha provocato l’innalzamento del letto e l’arretramento della linea di costa.
Tracce del primitivo tracciato della litoranea si notano alle spalle della stazione di servizio della Caprazoppa, in prossimità della parete di roccia. Questa è stata scavata in basso, come a Capo Noli, per potere allargare il più possibile la carreggiata del vecchio tracciato. Al termine di un muraglione di cemento armato, rifasciato in pietre, ormai sommerso dai detriti, vi è l’ingresso del vecchio tunnel, circa 2 metri più in basso dell’attuale sede stradale.
La modifica ha costretto all’abbattimento della casa appartenente alla famiglia De Negri, che già da qualche decennio aveva interrotto l’attività estrattiva, diventata da allora monopolio della ditta Ghigliazza. Questa ulteriore rettifica del percorso, operata poche decine di anni or sono (i lavori sono stati eseguiti nel 1969), ha sancito l’abbandono della vecchia galleria, stretta e relativamente bassa (per essere adeguata ai moderni autocarri una galleria deve superare i 4 metri di altezza), che chi proviene da Pietra può notare a sinistra, più in basso di alcuni metri rispetto al nuovo tracciato, parallela all’odierno traforo.
Ci sono voluti solo 55 giorni di lavoro per l’apertura del traforo, contro i parecchi mesi occorsi più di un secolo fa. Sono state anche questa volta le cariche esplosive, a volate controllate, a fare il grosso del lavoro; queste tecniche, sperimentate tra i primi dall’ing. Beretta nel 1666 proprio a Finale, sono oramai evolute e perfezionate. Notevoli i disagi per la viabilità durante questi lavori. Il traffico leggero veniva smistato a Verezzi per Gorra, quello pesante era costretto addirittura al giro Albenga-Ceva-Savona e viceversa, non essendo disponibile ancora per i mezzi pesanti il raccordo Aurelia-Finalborgo. In tempi più recenti il traffico pesante poteva accorciare questo lungo percorso con il transito da Pietra-Tovo-Cà del Moro-Finale, essendo stata predisposta la strada che dalle “trincee” presso San Pantaleo scendeva verso Tovo e Pietra. Questo by-pass era necessario ogni qualvolta suonava in cava Ghigliazza l’allarme frane. Nei primi anni ’60 le pareti della cava prospicienti alla strada erano monitorate, e vi era una centralina di registrazione dove oggi è lo svincolo davanti all’entrata Piaggio. In caso di presunto pericolo suonava automaticamente l’allarme, con susseguente blocco dell’Aurelia e deviazione del traffico nei percorsi su visti. La zona delle Fontanelle fu sede anche di una fornace di Calce.
Con l’uso industriale arriva la concreta appartenenza- Mentre si sbrigavano le pratiche amministrative per l’apertura dello stabilimento si era cercato di acquistare i terreni del Beneficio Parrocchiale, alla destra del torrente in prossimità dei binari. La trattativa con l’Arciprete di Marina non si concluse e si acquistarono da privati i siti alla sinistra, dove sorsero i primi capannoni. La zona dell’Isola era allora ad uso agricolo. Dopo un iter lungo e travagliato, la zona venne indirizzata ad uso industriale. E’ a mio avviso in questo contesto che questo lembo di territorio venne finalmente ad “appartenere” alla comunità finalese: centinaia di persone da allora, e per un secolo, vi si sono recate tutti i giorni, e con il salario ricavato è stato possibile, soprattutto per la comunità Finalese, crescere e prosperare, evitando in larga parte il problema dell’emigrazione, spettro che si è riproposto ciclicamente in Italia dal XIX secolo ai nostri giorni.
Con l’evoluzione in industria aeronautica la fabbrica diventò strategica, cioè di interesse militare. Le numerose incursioni aeree della seconda guerra mondiale sono da attribuire alla volontà degli alleati di mettere fuori uso questa industria. Niente altro a Finale poteva giustificare l’interesse dei numerosi raid aerei. L’Azienda col tempo si ingrandì: dalle zone a ridosso del primo capannone ferroviario, arrivò ad occupare il territorio che va dalla spiaggia al ponte di ferro. In un certo periodo vennero decentrate alcune attività a Perti. Il resto è cronaca di oggi.
Giuseppe Testa