«A Varazze sono venuti a dirci che se ritorni a Roma non garantiscono neanche più le famiglie. Non so altro perché fuori non vado. Insultano su la strada come fossimo la peggior gente di spregio».
di Giancarla Codrignani, politologa, giornalista, già docente e parlamentare
Si sa invece poco della donna che per 12 anni fu al suo fianco e che fino alla sua morte avvenuta il 5 giugno 1938 si dedicò alla ricerca della verità sull’omicidio del marito. Velia Titta (sorella del famoso baritono Titta Ruffo) poetessa, conosce Giacomo Matteotti in vacanza, nel luglio del 1912 sull’Abetone. Tra fidanzamento, matrimonio (nel 1916) e morte, l’unione dura una dozzina d’ anni.
Ne passeranno pochi insieme, perché Giacomo è messo presto al bando dal Polesine: spedito prima in Sicilia come «sovversivo» per essersi battuto contro l’interventismo, e costretto poi a una fuga continua per le minacce dei fascisti. Nel 1921 Matteotti subisce a Ferrara un’ aggressione dei fascisti, e lei confessa: «Mi è difficile persuadermi che, arrivato a questo punto, non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita».
Poi vengono un sequestro e altre violenze, a Padova, Siena, Cefalù. Nel ‘22 viene lei stessa minacciata, a Varazze, dove s’ è rifugiata con i tre figli: «Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono neanche le famiglie più. Non so altro perché fuori non vado. Insultano su la strada come fossimo la peggior gente di spregio».
Cinque giorni dopo la misteriosa scomparsa del marito, quando ancora nulla si sapeva ma forti erano i sospetti sui mandanti, Velia incontra a Palazzo Chigi l’On Mussolini: “Eccellenza, sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo“. Mussolini, freddato da queste parole rimase impietrito.
In occasione dei funerali, che avvennero due mesi dopo il ritrovamento del corpo, la vedova scrive al Ministro degli Interni.«Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati d’Italia.»
Dopo che il processo fu spostato a Chieti, giusto per allontanarlo da Roma Velia Titta non sa a chi rivolgersi per chiedere la restituzione di «tutto ciò che appartiene al suo defunto marito” (e che mai le verrà restituito) per questo, scrive una lettera all’avvocato Pasquale Galliano Magno di Chieti.
Si apre quindi il fascicolo Matteotti, per l’avvocato Magno fu l’inizio di un calvario durato quindici anni, innumerevoli le perquisizioni nel suo studio, i sequestri degli atti. Non basta: per l’avvocato cominciano una serie di agguati, percosse, cure «all’olio di ricino» e umiliazioni che lo costringeranno a svendere il palazzo di Chieti e a trasferirsi a Pescara, dove continuerà a lavorare in uno studio dove altri avvocati firmano gli atti che lui cura. Le ferite sono tali che fino alla fine della sua vita avrà problemi di vista e di deambulazione a causa delle percosse. Non accettò denaro e Velia Matteotti gli regalò la stilografica di suo marito
Dopo la morte della suocera, vendette il podere a Fratta Polesine e si trasferì a Roma dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, tra le diverse vessazioni a cui fu sottoposta ci fu anche l’accusa di aver raggiunto a scopo di denaro un compromesso coi fascisti per non espatriare, accusa infondata perché numerosi documenti comprovano la sorveglianza feroce, diurna e notturna, a cui Velia e i figli erano sottoposti: «Pregasi intensificare vigilanza sulla vedova e sui figli on. Matteotti tenendo sempre particolarmente presente eventualità tentativi uscire clandestinamente dal Regno… Attuazione eventuali tentativi del genere deve essere resa impossibile».
La dura vigilanza (definita da Velia in una lettera come un’autentica schiavitù) durò fino alla fine. Del resto lo stesso Mussolini annoverò Velia Matteotti tra i suoi nemici. Narra Galeazzo Ciano nel suo Diario 1937-38 che, qualche giorno dopo la morte di Velia in ospedale, Mussolini, commentando cinicamente l’evento, osservò: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici».
TESTO tratto da Scienza e Medicina Istituzioni Politica Società