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L’Inno di Mameli. “Nacque a Genova”. E Michele Novaro compose le note e fondò la Scuola Corale Popolare. Morì povero. Lo ‘sgarbo’ del Comune


Detto anche Canto degli Italiani, come recita la legge n° 181 del 4 dicembre 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 15 dicembre 2017: Riconoscimento del Canto degli Italiani di Goffredo Mameli quale  Inno Nazionale della Repubblica.

di Elvira Landò

Elvira Landò affermata studiosa chiavarese 

Erano passati centosettant’anni dalla composizione dell’Inno, nato dalla passione che unì alcuni genovesi: l’autore, Mazzini, Garibaldi, Bixio, Giuseppe Michele Canale, già carbonaro poi mazziniano, e molti altri. Passione alimentata dalla lettura di Dante, profeta dei valori di unità, di collaborazione e di pace, nonché di libertà.

E fu a Genova, cuore pulsante di nuova vita, che maturò questo proposito, e di là si diffuse, grazie a quei Genovesi a cui delusioni e sofferenze non spensero quell’ardore patriottico disposto ad ogni sacrificio, e non tolsero la progettualità al loro sentire.

E fu a Genova che nacque l’Inno. Lo apprezzò lo stesso Verdi, che nel suo INNO DELLE NAZIONI affidò proprio al Canto degli Italiani il compito di esprimere il desiderio di unità, l’amore per la Patria. Verdi musicò anche l’Inno militare scritto dal Mameli non appena ritornato a Genova, dopo la fine sfortunata della Prima Guerra d’Indipendenza.

La Società Economica di Chiavari conserva, tra i suoi documenti, una serie di fogli manoscritti e a stampa, raccolti in un faldone dal titolo Canzoni che si cantavano nel 1797 e nel 1848. Nel 2005, per la copertina del volume che presenta il Museo del Risorgimento, ho scelto il foglio che ha per titolo Inno del signor Mameli, che inizia così: O figlio d’Italia, l’Italia s’è desta..

Un incipit leggermente diverso da quello entrato nell’uso. Nel foglio, trascritto con emozione, empito eroico e sofferta angoscia, noi leggiamo quella passione patriottica e libertaria che a Chiavari alimentò scelte, opere, gesti di grande valore, connotazione di un Risorgimento di cui forse, oggi, si perde la memoria.

Ma chi era Goffredo Mameli? Era nato a Genova il 5 settembre 1827, da Giorgio, ufficiale della Marina Sarda, e dalla marchesa Adelaide Lomellini Zoagli, tra i cui antenati si annoveravano due dogi, Nicola e Giambattista, e tre consoli.

Goffredo era un bambino delicato, di salute fragile, ma era profondamente sensibile: trovava sempre nella poesia la consolazione o il rafforzamento dei propositi ispirati dall’ammirazione per tutti quegli scrittori che avevano sostenuto o cantato i valori civili della libertà, della dignità, del coraggio.

Sì, perché era cresciuto con una madre colta, che aveva amicizie preziose, come la famiglia di Giuseppe Mazzini, con il quale aveva trascorso bambina ore di giochi e di ragionamenti, e le famiglie dei marchesi Ferretti e Pinelli

Mameli, ancora adolescente, aveva composto molta poesia: poesia d’amore, poesia di gloria, poesia patriottica, alimentate anche dalle sue  letture. I “Calasanziani”, i Padri Scolopi suoi primi maestri, lo avevano educato alla lealtà e alla scienza, ma gli avevano fatto respirare anche valori civili e passioni patriottiche. Dal Seicento avevano elaborato un percorso formativo rivolto alla persona,  incentrato sui valori della Humanitas, che coniuga la dimensione civile ed etica con la Politica nel senso più alto. Dante, Foscolo e Leopardi, e pure Goethe, Byron, Schiller erano nutrimento spirituale per i loro studenti.  I Gesuiti invece, quei Padri rugiadosi, erano molto ligi e avversavano quegli stessi autori su cui gli Scolopi incentravano la formazione. E ricordiamo pure che Dante stesso era ancora incluso nell’Index Librorum Prohibitorum, e lo fu sino al 1881. Come la lingua volgare era stata giudicata eretica, così l’opera dantesca Monarchia.

I Padri Scolopi Dasso, Bancalari e Paroldo furono grandi amici di Giueppe Mazzini, come Padre Muraglia lo fu di Mameli.

Nel’agosto 1845 Goffredo supera brillantemente gli esami per l’ammissione al corso di Legge. A novembre si iscrive all’Università, ma… il professore Paolo Rebuffo non apprezza il Manzoni, quindi Goffredo lo contesta, ed è subito punito.

Negli anni tribolati dell’Università, conosce giovani di Chiavari, che frequentavano la facoltà di Legge: Stefano Castagnola, Gerolamo Boccardo, e la loro Accademia l’Entellica. Quando, all’inizio dei corsi universitari, da Chiavari gli studenti si trasferiscono a Genova, vi si sposta la Società, che diventa Entelema, e si discute di Storia, di Diritto, di Politica, di Poesia… E Goffredo Mameli vi è accolto all’inizio del marzo 1847, diventando membro attivissimo e segretario del Boccardo.

Già dal ’45 si erano svolte le prime manifestazioni contro l’Austria: i patrioti vedono in  Carlo Alberto un alleato, poiché aveva manifestato contrarietà per i dazi imposti ai vini piemontesi.

Poi a settembre del ’46 ecco il Congresso Scientifico, straordinario evento che, presenti molti nobili, studiosi, Padri Scolopi, e anche membri della Società Economica chiavarese… associò ai problemi della Scienza quelli della disparità di norme, di pesi, di misure, di protocolli medici… E tutto convergeva verso problematiche di carattere politico.

Si voleva un’Italia libera e unita, si voleva una vita diversa, alla quale dava voce quel Congresso proprio a Genova, dove s’incontrarono Sacerdoti come Don Lambruschini, Scolopi come Padre Bancalari, nobili come il presidente Antonio Brignole Sale, che concesse ampi spazi per gli incontri e per le cene, dove la Scienza si mescolava con l’Etica e la Politica.

Spesso Goffredo Mameli fu invitato a declamare i suoi scritti patriottici, come Alba, poesia composta sulle orme di quella da poco recitata dall’anziano Berchet, alla Villetta Di Negro, che terminava così: “…come un uomo in un giuro raccolti, / al conflitto fatal si verrà…”. 

Mameli si sentì direttamente coinvolto in uno stato d’animo che alle conoscenze storiche, alle letture patriottiche, alla cognizione di un’Italia divisa univa la sua passione per la libertà e la disposizione al discorso poetico, quale messaggio efficace e persuasivo.

Tralasciamo le convulse vicende in cui il giovane Mameli è protagonista. Sono questi, a Genova, anni di profonda e sofferta passione politica. Tradite con il Congresso di Vienna le speranze di una riconquistata libertà, contro le promesse di Lord Bentik, e nonostante i 25 milioni offerti dal marchese Brignole Sale, cancellata sotto i Savoia ogni conquista nel Diritto, nell’Istruzione, nel Fisco, nell’Amministrazione, i Genovesi seguono anche le vicende di tutti gli stati italiani con vivissima partecipazione.

Il giovane Goffredo vive gli anni dal ’46 al ’49 scrivendo odi patriottiche, partecipando in prima fila alla commemorazione della guerra contro l’Austria nella cerimonia che vede arrivare a Oregina, il 10 dicembre 1847, più di diecimila persone, con i nobili liberali in testa, uomini e donne, queste al seguito della marchesa Teresa Doria, a ricordare Balilla.

Proprio lui, Goffredo, a capo della delegazione degli studenti, al termine della manifestazione, affiderà solennemente al Rettore dell’Università la bandiera tricolore, il vessillo degli stessi studenti.

E si canta il suo inno, in quegli anni, dovunque. Lo aveva musicato il Magioncalda, ma quando Ulisse Borzino portò il testo a Torino al patriota genovese Michele Novaro, questi commosso scatenò per ore sul clavicembalo il proprio entusiasmo, fino a proporre il giorno seguente la propria creatura, la musica per quell’Inno che subito infiammò giovani e vecchi, dando voce a un sentire e a un volere comune: si cantò, si pianse, a quell’ultimo si finale, un si bemolle che ha tanta forza e fierezza. 

E si venne al conflitto. E ancora si cantò il suo inno.

Alla notizia dell’insurrezione di Milano, il 18 marzo Mameli radunò una colonna di 300 studenti, la chiamò GIUSEPPE MAZZINI, e partirono. Si erano addestrati all’uso delle armi. Sulle barricate incontrò Mazzini, che un anno dopo, a Roma, era di nuovo con lui, chiamato proprio da Mameli stesso: “Roma. Repubblica. Venite.

Al Carlo Felice, Goffredo Mameli aveva proclamato la necessità di continuare la guerra all’Austria, accusando pubblicamente Carlo Alberto di aver tradito la causa italiana. Ma se Genova intende riprendere le armi, il ministro piemontese Pier Luigi Pinelli, che da mesi sospetta  che si voglia raggiungere l’Indipendenza dai Savoia, è ostile, e manda i Bersaglieri a contrastare il proposito ligure, con le conseguenze di una guerra fratricida, e il tremendo “sacco di Genova”, che vede violenze e infine condanne a morte di eroici patrioti, nobili, avvocati… costretti all’esilio.

Da Genova, i più vanno a Roma, dove, alla fuga di Pio IX, era stata convocata l’Assemblea Costituente Romana.

Anche Goffredo è ormai a Roma. Deluso nell’amore per Geronima Ferretti (la fecero sposare all’anziano marchese Giustiniani, la cui moglie Schiaffino Anna, detta Nina, si era uccisa per Cavour), deluso dalle promesse di Costituzione dei vari sovrani, deluso da Carlo Alberto dopo la sconfitta della Bicocca,  deluso dal “sacco di Genova” subìto dalla sua città, deluso da Vittorio Emanuele II che si rifiutava di combattere, deluso e profondamente amareggiato, il giovane non si arrende, ma riempie i suoi quaderni di appunti, di canti, di progetti… tutti intesi e tesi ad elaborare un degno futuro per Genova e per l’Italia, nel ricordo di un passato eroico e glorioso. In ogni occasione li declama, raccogliendo consensi ed entusiasmo.

A Roma è attivissimo. Chiamato anche Mazzini che presto giunge, tiene i contatti con Mazzini e Garibaldi, sprona le truppe, è portaordini, combatte a Palestrina, a Velletri… Poi, il 3 giugno è ferito ad una gamba, che gli viene amputata per il sopravvenire della cancrena: i medici non si erano accorti che nella ferita erano rimasti residui dello stoppaccio.

Morirà il 6 luglio del 1849, dopo trentatré giorni di sofferenze, narrate nel suo diario dal medico milanese Agostino Bertani, garibaldino, che lo ebbe in cura. Non aveva ancora compiuto ventidue anni. Si domandava se sarebbe riuscito ancora a montare a cavallo…

Gli è spesso vicina la straordinaria Cristina di Belgioioso, scrittrice, polemista, fondatrice di asili e di giornali, accorsa a Roma per organizzare l’ospedale per i feriti, ricevendo da Pio IX l’epiteto di prostituta. Ma Cristina gli risponderà con una lettera piena di dignità e umanità.

Anche la veneziana Adele Baroffio gli fu vicina, e l’amico fraterno Nino Bixio, e Agostino Bertani, e Giuseppe Mazzini, che poi dirà  di lui: “era impossibile vederlo, e non amarlo…”.

Il 3 luglio ecco la proclamazione della Repubblica Romana, ecco la promulgazione della Costituzione, la mirabile Carta che sarà  modello cent’anni dopo della nostra Costituzione. Frattanto i settemila francesi dell’Oudinot erano entrati in Roma a tradimento.

Quanti altri giovani eroi cadono, per valori troppo spesso oggi dimenticati, come Enrico Dandolo, Luciano Manara, e il Morosini, il Masina, Giacomo Venezian...

Ma Goffredo aveva  affidato ai giovani un messaggio di fiducia, di coraggio, d’amore e aveva proposto che la “Costituzione Romana” divenisse la “Costituzione dell’Italia unita”, la “Costituzione Nazionale”.

Non meno degno di ricordo è il genovese Michele Novaro. Non ancora trentenne ha composto, a Torino,  le note dell’Inno: ha dedicato alla causa italiana il suo talento musicando canti patriottici e organizzando spettacoli per aiutare le imprese garibaldine.

Tornato a Genova nel 1865, fonda una Scuola Corale Popolare, cui si dedica con passione. Muore vent’anni dopo poverissimo. Ma le sue spoglie sono a Staglieno vicino alla tomba di Mazzini: i suoi allievi gli hanno dedicato il monumento funebre (e il Comune di Genova non gli ha dedicato che una breve via marginale).

Come è possibile oggi ignorare o negare il valore storico, simbolico, documentale, artistico di un connubio di parole e musica originale e umanamente ricco di senso, che negli anni ha saputo esprimere dell’amor patrio la forte radice storica, con un empito gagliardo, tanto da essere esemplare?

Elvira Landò


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