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Noli: la sola ricchezza che conti è un luogo dell’immaginazione. Il libro di Sciacca


Noli: la sola ricchezza che conti è un luogo dell’immaginazione. Spesso, la felicità ci raggiunge quando meno ce lo aspettiamo e, in un istante, ci sconvolge la vita.

di Fulvio Garzoglio

In seguito però, nella stessa maniera in cui è sopraggiunta, perlopiù ci abbandona. E allora ci ritroviamo lì, soli e sgomenti, a considerare di fare ritorno alla nostra vecchia normalità. Eppure sentiamo che non potremo essere mai più quelli di prima. Perché avvertiamo, dentro di noi, qualcosa che ieri non c’era e di cui oggi sarebbe impossibile fare a meno, per quanto talvolta ne venga la tentazione. Si tratta del ricordo della felicità vissuta e svanita. E di coloro con i quali l’abbiamo condivisa.

Stefano Sciacca laureato in giurisprudenza ora scrive libri

È appunto quanto succede al giovane protagonista de La sola ricchezza che conti, romanzo di Stefano Sciacca, dedicato al personaggio (e alla persona) di Michele Artusio, l’investigatore privato del racconto noir L’ombra del passato (Mimesis 2020).

Michele va in vacanza, finalmente. Si ripara nel grembo di un paesino, riparato fra mare e collina. Dove sogna di lasciarsi alle spalle la disumanità della città. L’inizio della villeggiatura, però, non è affatto confortante e ne rafforza, anzi, il pessimismo. Ma ecco che, all’improvviso, incontra Bianca. Una ragazza che gli ricorda la primavera. E, nonostante l’ostinazione della propria disillusione, lui non può fare a meno di accorgersi di aver trovato esattamente ciò che ha sempre cercato. Perché Bianca – «un nome che è promessa luminosa» – porta con sé la speranza. Di amare e di essere amati.

Da quel momento Michele si sentirà investito, travolto e, sì, rianimato dall’amore. Un sentimento puro e disinteressato, che eleva al di sopra dei meschini calcoli della società borghese, nella quale avvertiva di essere del tutto fuori posto. Ora, al contrario, è convinto di averlo trovato eccome, il suo posto al mondo. E l’ambientazione, nel romanzo di Stefano Sciacca, ha una rilevanza che va ben oltre quella meramente scenografica. La natura – che il protagonista definisce «confidente» – risulta in effetti complice nei confronti dei giovani innamorati, accogliendoli e cullandoli di continuo. Appunto per questo, forse, ogni descrizione del paesaggio possiede una connotazione fiabesca e, in numerosi passaggi, si respira un’aria d’incanto. Come se, grazie alla beatitudine del sentimento d’amore, fosse possibile cogliere segnali prima invisibili. È il caso di quel tratto del Sentiero del pellegrino «dove il silenzio è talmente assoluto da assordare» e dove, «se due persone che si amano vi sono state insieme, prima o poi, i loro spiriti faranno ritorno. Per incontrarsi di nuovo».

Altrettanto accogliente peraltro è la realtà umana dalla quale proviene Bianca: una comunità di individui eccentrici o, più precisamente, straordinari. Vale a dire estranei a qualunque norma sociale convenzionale. Quella che in genere contrappone, divide, isola dagli altri ogni individuo. Costoro, al contrario, dimostrano a Michele la simpatia e la confidenza che si riserva ai vecchi amici. E lui ne è semplicemente entusiasta.

Fin qui la finzione letteraria allestisce un idillio. Ma, tutto d’un tratto, la vita reclama il proprio spazio e irrompe con spietato realismo. Michele dovrà tornare nella jungla d’asfalto (alla quale, se mai vi è appartenuto, sente che non potrà comunque più appartenere in futuro) per ritrovarsi intrappolato nel grigiore dal quale si era illuso di fuggire. Un grigiore innanzitutto esistenziale, specie in contrapposizione alla gioiosa solarità dei giorni trascorsi in Riviera: in città – dove il protagonista frequenta i luoghi già noti ai lettori de L’ombra del passato, dal Fortebraccio jazz club a quel suo «buco» di ufficio – egli si aggirerà attraverso una folla indifferente e malinconica e intanto, anziché rallegrarsi della trasognata Parlami d’amore Mariù, sarà ossessionato dalla musica struggente di «un negro lungo e stretto, simile a una mantide; suonava uno strumento che non avevo mai veduto prima; sfregandone le corde con la lama di un coltello spuntato. Mi protesi al richiamo irresistibile del suo lamento. […] Il tempo volò; sulla voce rauca e dolente di Abe. Che, nonostante il diverso colore della pelle, sentivo più simile a me di chiunque altro nel locale». Perché nel suo blues il protagonista aveva «colto il pianto di quello spirito infinito di cui ciascuno di noi è, a modo proprio, personificazione».

A tutto questo Michele è costretto dal suo personaggio, con il quale negli anni ha finito per confondersi anche la persona: si tratta pur sempre di un investigatore e, per deformazione professionale nonché per incarico altrui, viene chiamato a indagare. Indagare su un mistero del passato che – come insegnava appunto il precedente romanzo – «non smette mai di seguirti. È un’ombra che ti ossessiona; ti perseguita; esige il prezzo delle tue colpe. E non c’è uomo che non ne abbia». Neppure il più eccezionale.

E, tra segreti nascosti e colpi di scena, il protagonista sarà costretto a fare i conti con la forza del destino e a confrontarsi con la propria coscienza che, per quanto scomoda, risulta fondamentale a qualunque uomo. O, perlomeno, a un uomo come lui: «ringraziai quella coscienza brontolona; senza la quale non mi sarebbe mai stato possibile attribuire un senso alla mia vita. Che ora, ricordo dopo ricordo, scoprivo sorprendentemente complessa nonostante la sua apparente ordinarietà».

Ecco, quello de La sola ricchezza che conti è appunto un breve ma significativo passaggio dell’esistenza di Michele Artusio, personaggio e persona, il quale ne narra in prima persona il ricordo, descrivendo un viaggio emozionante, commovente, che spinge a riflettere su quanto possa essere importante tenersi dentro, ben stretti, i ricordi degli istanti di felicità vissuti, perché sono appunto essi la sola ricchezza che conti.

Lo scrittore sviluppa, con grande maestria, un poco alla volta e tra moltissimi personaggi, un intreccio narrativo perfettamente congegnato, adagiandolo su un piccolo, meraviglioso paese di mare. Si tratta di Noli e, sebbene non venga mai direttamente nominato, è presente in ogni pagina del racconto, anche quando Michele dovrà tornare a Torino e tenterà di lenire la nostalgia attraverso i versi di Sbarbaro, poeta che, nei confronti di Noli, ha dimostrato autentica tenerezza. La medesima che lega a questo borgo anche Michele Artusio e Stefano Sciacca.

Il Capo Noli, con le fasce terrazzate a contatto del bosco, l’antico castello a guardia dell’abitato, le torri che svettano sulle case variopinte di pescatori, l’intrico di caruggi attraverso i quali perdersi, l’isola di Bergeggi con la sua incontaminata natura, le spiagge di sassi e conchiglie, gli orti che un tempo cingevano la via per il monastero, la salita al Vescovado profumata di fichi sono raccontati dall’autore con la famigliarità e la dolcezza più genuine. Un trasporto che finisce per essere mònito e insegnamento a noi nolesi. Troppo spesso distratti dal dovere di preservare l’incanto di questo luogo, ancora in parte distante dalla «frenesia della città» e capace di imprimersi nella memoria di tanti viaggiatori, ai quali basta un solo sguardo per convincersi di potervi essere felici.

Perché il romanzo, aldilà della trama investigativa, è appunto un’indagine sul significato della felicità, condotta da Stefano Sciacca attraverso un’intima incursione nell’umanità di Michele Artusio il quale in prima persona narra non soltanto la successione dei fatti, ma anche quella delle proprie emozioni. E intanto svolge riflessioni sulla fragilità dell’essere umano, di ieri come di oggi, e sul senso dell’attività letteraria. Scoprendo, all’intersezione tra questi due temi, il valore del ricordo. Luogo dell’immaginazione nel quale l’inesorabile funzionamento del tempo viene del tutto alterato, consentendo all’io presente di interagire con l’io che fu. Ora, provando il dolore della nostalgia, ora invece, riuscendo a riassaporare la gioia passata e mai lasciata andare via del tutto, ma trattenuta con ogni sforzo della memoria, nella consapevolezza che si tratti della sola ricchezza che possiamo possedere per davvero. E quindi, in definitiva, della sola che conti.

Fulvio Garzoglio

Nota di Trucioli.it vedi anche…..


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