Tra gli esploratori che hanno condotto le loro imbarcazioni alla scoperta di nuove terre, partendo da Varazze, è importante la figura del capitano Giovanni Battista Cerruti. Dopo una vita già avventurosa di suo, si spinse fino in Malesia, alla ricerca di una popolazione indigena pressoché sconosciuta: i Sakai.
di Tiziano Franzi
Ecco la storia di questo intrepido comandante. Capitano di navigazione, esploratore e scrittore.
Il padre, attivo commerciante di tessuti aveva traffici con i paesi sudamericani. A 15 anni si imbarcò come mozzo su un brigantino diretto a Bueno Aires e più tardi, chiamato al servizio di leva come marinaio di terza classe, prese imbarco nel 1871 sulla corvetta “Governolo” di cui due anni dopo era già secondo pilota . Nel 1874 tornò a navigare su barchi di famiglia conseguendo nel 1881 la patente di capitano di lungo corso. Raggiunse poi l’estremo Oriente sbarcando prima a Batavia (Giacarta) poi a Singapore , dove aprì una piccola industria per la preparazione di frutta esotica presentandone alcuni campioni all’esposizione internazionale di Torino.
Da Batavia, insieme al fratello Vincenzo, si spinse poi all’interno di Giava, facendo negli anni continui spostamenti in quelle terre sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, senza purtroppo tenerne un diario. Sappiamo che visitò il Siam e fu a contatto con il re Chulalongkorn, che lo tenne in grande considerazione. Non abbiamo notizie certe dei suoi spostamenti, in quanto nelle sue poche annotazioni mancano sempre i riferimenti cronologici. Conobbe a fondo l’isola di Nias dove fece da guida e interprete ad altri esploratori e dignitari austriaci e inglesi. Durante i suoi numerosi viaggi raccolse una interessante collezione etnografica che cedette al museo di Taiping. Ma la sua innata indole di esploratore lo spingeva continuamente alla ricerca di qualcosa di nuovo, di terre e popoli fino ad allora sconosciuti.
Per questo decise di andare alla ricerca di una tribù quasi sconosciuta di indigeni, i Mai Darat, di probabile provenienza australiana, rifugiatasi all’interno dei Monti di Malacca, negli Stati di Pahang e del Perak . Chiamati dai malesi , in senso dispregiativo Sakai , popolo schiavo, ridotti a circa 10.000 anime , molto abili nell’avvelenamento con sostanze naturali delle punte di frecce che usavano per la caccia lanciate con un particolare tipo di cerbottana , ma non per offendere, essendo di indole pacifica(“il sakai rifugge da ogni violenza; egli non aggredisce “), accolsero l’esploratore amichevolmente ed egli restò tra loro circa 15 anni.
“Mi sentivo attratto verso i Sakai, parendomi che una popolazione così nuova ad ogni luce di civiltà, così fiera come mi veniva descritta, così libera da ogni regime, da ogni autorità, dovesse presentare il massimo interesse a chi cercasse di conoscerla da vicino. Essa mi offriva, forse, una vita tranquilla,se avessi superato le prime non sempre superabili difficoltà d ‘ approccio e mi rendeva tentatrice l’ idea di convertirmi magari in un agricoltore dopo che avevo sperimentato quanto fossi disadatto alle speculazioni commerciali, alle quali troppo di sovente sono d’impaccio gli scrupoli della rettitudine. Aspiravo ad un ambiente nuovo, aduna nuova vita, che forse potevano essermi offerti da un popolo ancora immune da corruzioni e però odiato dai maggiori corrotti e circondato dal mistero“.
Si avverte in queste annotazioni il fascino del mito del buon selvaggio e nel contempo il forte desiderio di sottrarsi a quella civiltà occidentale dalla quale aveva ricevuto molte delusioni, per rifugiarsi in una sorta di Eden primitivo.
“Una vita calma, che non mi fece né pur più tardi rimpiangere mai il sociale consorzio dal quale volontariamente mi ero appartato, sentendo che se in quella le mie forze e le mie abitudini potevano essere sopraffatte da altre energie e magari da ciarlatanesimo autentico e da abile furfanteria, le stesse forze potevano essere germe fecondo di bene in mezzo a quelle genti primitive, a quei galantuomini che non conoscono menzogna e inganno.
[…] Più volte con intenzione ho lasciato fuori dalla mia capanna oggetti incustoditi, tali da eccitare nel sakai il desiderio di venir ne in possesso;ebbene li ho sempre ritrovati intatti al loro posto. La mia abitazione è sempre aperta anche quando ne sono lontano; non mi è mai mancatala più piccola cosa. Un po’ per abitudine, un po’ per virtù, un po ‘ perché forse costerebbe più alla sua indolenza fare diversamente il sakai è un uomo onesto e probo. Egli porta un grande rispetto ai vecchi, dei quali sollecita e segue i consigli; sente profondamente la gratitudine e rifugge da ogni egoismo. “
Estremamente affascinato dalle descrizioni che trovò su quella gente e speranzoso anche di riuscire a imbattersi in qualche giacimento aurifero, Cerruti partì alla ricerca dei Sakai accompagnato da cinque portatori con un bagaglio ristretto e una sola carabina per difendersi. Solo dopo molte peripezie e dopo essere stato abbandonato da tutti gli uomini della scorta tranne uno, riuscì finalmente a raggiungere la meta. Nel cuore selvaggio e sconosciuto della Malesia, dopo essere scampato a tigri e sanguisughe e dolorante per le ferite riportate, egli raccontò di aver avvistato infine il villaggio dei Sakai e di essere stato immediatamente raggiunto da una freccia scagliata dai suoi abitanti, collezionisti di teste. La freccia però rimbalzò sulla placca metallica della sua cintura. Fu in quel momento che quegli uomini e quelle donne per i quali il tempo era rimasto immobile e uguale a se stesso, refrattario a qualunque forma di civilizzazione, si inginocchiarono al suo cospetto riconoscendo nella sua figura “il signore del male” ed eleggendolo “Capo Supremo con diritto di vita e di morte sui Sakai.”
Egli si avvicinò quel popolo che sapeva, nella raccolta e nella caccia, esprimere incredibile capacità di inventiva, uno spericolato coraggio nell’affrontare i pericoli terribili della foresta. Li condusse alla tessitura e all’agricoltura, superando ostacoli proprio insiti nello stadio di sviluppo e ottenne ciò con pazienza e amore, in quanto usava questo procedimento: egli si metteva a lavorare la terra ed era chiaro che faticava; i Sakai, vedendolo stanco, per aiutarlo, ossia spinti dal desiderio di farlo contento, si adattavano a un ritmo di fatica “corporea” che era assolutamente estranea alla mentalità del cacciatore, che si muove solo quando la selvaggina è finita ed occorre procacciarne di nuova per la famiglia. Studiò e rispettò profondamente l’etnosociologia del popolo che il Governatore inglese di Penang gli aveva affidato nel 1891 e che si estendeva dalla palude equatoriale ai monti ( alti sino a 1500-2000 metri) dell’interno dell’isola di Malacca.
“Ho voluto mostrare gli usi e la bontà di un popolo caluniatissimo, in mezzo al quale ho trovato salde e devote amicizie, cui non insidiano né invidie, né gelosie, né ingordigie. Quindici anni di vita laboriosa e tranquilla ho passato fra io Sakai: ed oggi m i punge ancora un senso di nostalgia per quella terra feracissima e per quella gente semplice e mite”.
Non mancano tuttavia istinti retaggi di una cultura assimilata nel tempo, che si basava sulla differenza fra “razze superiori” e “razze inferiori”. Pur provando un sincero affetto per i Sakai, infatti, in alcuna pagine annota: ” « dotati di una discreta intelligenza, oggi ancora inerte, suscettibile però di sviluppo […] disgraziatamente sono molto scarsi i mezzi dei quali si può disporre per imprimere vibrazioni nuove alla materia grigia rinchiusa in quelle non troppo capaci scatole craniche“.
Qui, tra l’altro, scoprì importanti miniere di stagno delle quali però venne defraudato da gruppi finanziari inglesi. A questo proposito scrive il Noberasco: “Anche e nobilmente pensò all’Italia sua capitan Cerruti, promovendo una « Società dell’ Estremo Oriente », che non ebbe le auspicate fortune, data la riluttanza nostra a battere quelle vie più straniate, che conducono con certezza alla scoperta scientifica e al conseguente sfruttamento economico.”
Dopo altre esplorazioni all’interno del fiume Perak, percorse il Bidor e raggiunse Tapah. Nel 1893 , accompagnato da cinque Sakai , è nuovamente a Penang per avviare un commercio di prodotti della foresta . Il governatore inglese gli offrì la carica di Sovrintendente presso i Sakai del Perak , conferendogli la grande medaglia d’argento del governo locale nel 1907 e dal Re del Siam ebbe in dono ” un superbo portasigari, tutto tempestato di gemme e improntato dalle cifre regali.”
Molto diversa dovette essere la sua esperienza di esploratore nell’isola di Nias, chiamata Tano Niha dai suoi abitanti, il cui significato è “terra degli uomini“. Vi giunse per la prima nel 1886, come partecipante alla spedizione dell’etnologo toscano Elio Modigliani, una seconda volta, nel 1889, al seguito della spedizione del tedesco Herbert Brenner e un’ultima volta nel 1891, quando vi si avventura da solo, con lo scopo principale di raccogliere materiale zoologico ed etnologico da inviare a vari musei. Quest’ultima spedizione sarà oggetto del suo libro “Fra i cacciatori di teste nell’isola di Nias“. Di queste spedizioni nell’isola dio Nias in ogni caso Cerruti non volle mai né parlare né scrivere in modo dettagliato, forse perché della prima aveva già scritto lo stesso Modigliani , o forse perché- come sostiene Antonio Olivieri “ Si ipotizza che volle dimenticare quell’esperienza per la scarsa considerazione che il Modigliani ebbe di lui nella stesura del suo libro.”
In ogni caso è per noi oggi interessante sapere qualcosa di più su questa popolazione, attraverso altri scritti.
All’epoca della spedizione di Modigliani mentre la parte settentrionale e militari olandesi di stanza a Gunung Sitoli, capoluogo dell’isola, nella parete meridionale vi erano numerosi villaggi di circa 2/3000 anime quasi sempre in guerra tra loro e, cosa risaputa mas non certo confortante, tutti cacciatori di teste. Questa poco gradita usanza era un retaggio che datava già da oltre un millennio: nel 851, infatti, in un manoscritto abbastanza tranquilla e sotto il diretto controllo delle autorità di Soleyman, leggiamo che gli abitanti dell”isola che si volevano maritare, per trovare la fidanzata dovevano tagliare la testa a un nemico; se il candidato marito ne tagliava cinquanta, poteva avere cinquanta mogli. Con il trascorrere dei secoli gli abitanti di Nias aumentarono i casi in cui si potevano tagliare teste giungendo a formare una specie di “prontuario” non scritto al quale si attenevano fedelmente e che recitava così:
E’ d’obbligo il taglio di teste:
– Quando un capo morente lascia detto che ne vuole un certo numero per onorare il suo funerale, in questo caso i crani rimangono appesi sotto la sua casa;
– Quando un nemico è fatto prigioniero o ucciso in guerra, la sua testa viene appesa dentro la sala del
Consiglio;
– Per vendicarsi di chi abbia tagliato la testa a un amico o parente;
– Quando un capo assume un nome più glorioso che lo debba rendere maggiormente conosciuto;
– Quando un capo fabbrica una casa nuova;
– Quando un figlio di capo o altro ricco guerriero deve sposare la figliola d’un capo.
In questi ultimi quattro casi il cranio viene appeso prima sotto la casa del vendicato, del capo o della sposa, e finalmente trova per ultima dimora il tetto della sala del Consiglio, le altre volte viene appeso subito,
Settimo e ultimo caso: per dare maggiore forza a un giuramento inviolabile, nel quale caso si decapita uno schiavo e la sua testa viene poi sotterrata insieme al corpo. Tornò in Italia nel 1906 per partecipare all’esposizione internazionale di Milano presentando, insieme ai lavori compiuti dai Sakai, un libro racconto delle sue avventure : “Nel paese dei veleni- Fra i Sakai“
I Sakai riconoscevano in lui il loro capo il loro re, colui che aveva aperto loro le via la civiltà ai commerci alla ordinata operosità e la sua morte lasciò quelle tribù sgomente e smarrite, prive di quella guida carismatica che li aveva sottratti alla primitiva vita delle foreste pluviali, che li aveva lasciate per sempre all’età di 61 anni. La sua morte, avvenuta il 28 giugno 1914 a causa di un’infezione intestinale, rimane avvolta in un’aura di mistero e potrebbe essere legata alla rete di trafficanti senza scrupoli in cui si ritrovò invischiato e che lo raggirò per mettere le mani su giacimenti che egli aveva scoperto . L’infezione intestinale che lo portò alla morte forse non gli sarebbe costata la vita se si fosse optato per una semplice operazione, invece fu lasciato morire nell’ospedale di Penang.
Nel 1933, soprattutto per interessamento dell’allora Presidente della Provincia, Giuseppe Agnino, la salma dell’esploratore, trasportata sul piroscafo “Laha” scortato dalle navi della Marina Italiana e Britannica, fu riportata a Varazze. La piccola bara fu accolta dalle autorità prima sul piazzale di S. Caterina, poi nella chiesa di S. Ambrogio con un corteo funebre che vide la partecipazione di moltissimi concittadini e non solo e infine tumulata nel cimitero di Varazze. Sulla sua tomba la scritta: capitano Gio Batta Cerruti re dei Sakai esploratore in Malesia. Riassume, nella sua concisa semplicità , gli elementi salienti di una vita dedicata all’esplorazione e alla scoperta di mondi allora lontani e ancora misteriosi.
Tiziano Franzi