Veri e cattivi maestri della sociologia.
di Antonio Rossello
Non è difficile capire, anzi è un dato di fatto, che viviamo in una
“società”. Ritengo allora una naturale conseguenza che ognuno di noi per il
semplice fatto di vivere, e di essere vissuto, insieme ad esseri umani,
possa essersi fatto almeno qualche idea quanto nel linguaggio comune
definiamo “società”. Non è dunque un paradosso considerare che ognuno sia
un po’ “sociologo” senza sapere di esserlo.
Da qui possiamo facilmente avventurarci nello spazio ampio, quanto
variegato, del senso comune riflesso sui termini della vita sociale. Un
sapere che presenta inequivocabili vantaggi ma anche dei limiti. Gli
aspetti del problema sono intuibili. Noi ci rifacciamo prevalentemente alla
nostra esperienza diretta che, per quanto possa essere vasta, è comunque
parziale ed ancora peggio soggettiva.
Inoltre, al di là del nostro vissuto, non ci resta che l’affidamento su
quanto ci comunicano in varia forma gli altri, ossia l’esperienza altrui
nella migliore delle ipotesi. Può quindi sorgere il dubbio sulla buona fede
degli interlocutori, sulla possibilità da parte loro di affermazioni
mendaci o millantatorie, e così via. Dunque, quale che sia, prima di essere
trasferita a noi, la conoscenza mutuata dall’esperienza altrui è stata
probabilmente soggetta a deformazioni che non siamo in grado di
controllare. È esemplare il caso delle voci amplificate e distorte dal
passaggio di orecchio in orecchio.
Tutto ciò premesso, non potrei restare oltremodo perplesso, se dovessi
trovarmi dinnanzi all’incipit di un articolo nel quale l’autore dichiarasse
ai lettori che stanno leggendo le parole di un sociologo vero, per poi
lanciarsi nell’elencazione di tutta una serie di proprie referenze. E
questo già per il fatto che qualcuno si autoproclamasse “vero”. Si noti la
posizione dell’aggettivo, presumibilmente non casuale e sintomatica, nella
misura in cui, in genere l’aggettivo che precede il nome ha una funzione
descrittiva, mentre quello che segue il nome ha una funzione restrittiva.
In tal senso, parrebbe trasparire un giudizio che ad essere “falsi” siano
altri. Un giudizio espresso in modo tale da evocare l’immagine di un
moderno Narciso che si specchia, si conta le rughe (i segni di un tempo
passato e come tale perduto), cerca nel suo medesimo sguardo la risposta
alla domanda eterna (e irrisposta…differentemente non potrebbe essere: il
tipo vede solo sé stesso…) “Chi sono io?” E, attorno a questa domanda
auto-riferita, si inaridisce fino a consumarsi. Riguardo, poi, i contenuti
esposti in questo ipotetico articolo: a mio avviso un simile approccio,
comunque, li depotenzierebbe e non li suffragherebbe, nonostante ogni
enfasi adoperata.
Orbene, quantunque possa avere buoni e cattivi maestri, “vero” è che la
sociologia, come scienza sociale, dispone di qualche strumento in più per
superare i limiti di quella sociologia ingenua derivante dal senso comune.
Occorre rendersi conto che, se esiste un sapere sociologico diffuso che ci
comporta soltanto le conoscenze minime necessarie ad affrontare al meglio i
problemi quotidiani, la sociologia, come scienza sociale, formula quesiti
sulla base di una riflessione teorica sedimentata e cerca risposte a questi
quesiti sulla scorta di informazioni raccolte sistematicamente.
E, qui, occorre una ulteriore critica al modo di palesarsi di figure quali
quella dell’autoaffermato sociologo “vero”. Figure spesso inclini ad
arrogarsi il possesso esclusivo di qualche “verità”. La “vera” sociologia
può aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo, ma non ci può dare
certezze assolute. Chi ha bisogno di certezze, dovrà rivolgersi a qualche
fede religiosa, a qualche convinzione ideologica o al sociologo “vero”…
Ma non si tratterà mai di “vera” sociologia (preferisco l’aggettivo in
posizione descrittiva, per evitare ogni sorta ingiustificata di
presuntuosità…) , la quale (come tutte le scienze) può dare solo
“ragionevoli certezze”, certamente più affidabili di quelle del senso
comune, tuttavia provvisorie ed esposte a critica e revisione. Di
conseguenza, conviene restare guardinghi rispetto alla sociologia “vera”
del sociologo “vero”, in tutte le salse e tutti i nomi di fantasia con cui
ci verrà da lui propinata, nella sua quasi assoluta convinzione di avere a
che fare con un popolo con l’anello al naso e per forza plaudente.
Antonio Rossello
2/Chiesa italiana e centralità del lavoro.
di Antonio Rossello
Un momento di transizione e di grandi novità per la Chiesa italiana, proprio mentre stiamo leggendo sui media di Papa Francesco, dei suoi problemi di salute e delle voci sulle sue possibili dimissioni. Ma finora il Pontefice ha ripetuto: «Si governa con la testa», certamente ha già compiuto 86 anni, e non ama troppo parlare delle sue condizioni di salute. L’idea di lasciare solo per «l’incapacità di valutare le situazioni», difficilmente lascerà mentre il modo vive un cruento momento geopolitico, vari paesi, Francia ed Israele ma non solo, sono attraversati da pericolose sociali, altri come la Tunisia sono sull’orlo del baratro. E anche in Italia la CEI rompe gli schemi tradizionali e si espone con forza su temi annosi e preoccupanti come quelli legati al mondo del lavoro, di prevalenza necessaria dell’economia reale sulla finanza.
Papa Francesco, i problemi di salute e le voci sulle dimissioni. Ma finora ha ripetuto: «Si governa con la testa», questo riportano da giorni i media. Le rassicurazioni ricorrono: l’essenziale lo ha ripetuto egli spesso, specie nell’ultimo anno, laddove gli acciacchi e l’incedere dell’età alimentavano le tipiche voci di dimissioni («se stiamo a sentire il “chiacchiericcio”, beh, allora bisognerebbe cambiare Papa ogni sei mesi!»). E Bergoglio spiegava, con buona pace di chi – tradizionalisti, sedevacantisti e simili -non aspetta altro: «Si governa con la testa». Alla faccia dello stima, dunque. La guida pare ben salda e guarda in faccia i problemi del mondo e della gente.
La vera novità non è insomma questione della salute fisica del Papa, anche se, certo, Francesco ha compiuto 86 anni a dicembre e i suoi problemi, che non sono mancati, rischiano di offuscarla. Ci riferiamo senza dubbio al recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana per la Festa dei Lavoratori del 1° maggio 2023.
Incentrato sui giovani e sulle difficoltà che incontrano nel trovare lavoro, è un richiamo alla responsabilità della società, delle istituzioni e delle comunità nel fornire opportunità e prospettive per il futuro dei giovani, un invito alla riflessione e all’azione per affrontare le sfide dell’occupazione giovanile e promuovere politiche adeguate a fornire opportunità di lavoro sicure e durature. È la prospettiva della centralità del lavoro, basata sull’economia reale e non sulla finanza.
In ogni caso una simile discesa in campo può avere l’effetto di rompere determinati giochi, spezzando pregiudizi e prelazione, nella sua potente trasversalità. Qualcuno potrebbe addirittura ipotizzare che, con questo messaggio della CEI il primo maggio, possa cessare di fatto di essere un baluardo della sinistra, di una sinistra italiana spesso assai sorda ai problemi dei lavoratori. Lavoratori che si sono disaffezionati ad essa e la votano sempre di meno, essendo stufi di un progressivo svuotamento dei suoi valori tradizionali e di sua una eccessiva attenzione alle sirene della finanza bancaria. Una deriva lunga decenni, disincantata dalle contingenze dell’economia reale.
Il primo maggio, come Festa dei Lavoratori, non dovrebbe chiaramente essere associato a una specifica appartenenza politica, ma dovrebbe essere una celebrazione trasversale della società che lavora e produce. In tal senso, va rimarcato che il messaggio della CEI sottolinea l’importanza di un approccio inclusivo e di una collaborazione tra le diverse parti della società per affrontare le sfide dell’occupazione giovanile e garantire opportunità di lavoro sicure e dignitose.
Le intenzioni episcopali vanno ben oltre, dunque non implicano necessariamente una cessazione del primo maggio come baluardo della sinistra. La storia poi non si può negare. È importante ricordare che il primo maggio ha origini storiche nella lotta dei lavoratori per i loro diritti e le loro condizioni di lavoro, e come tale continua ad essere un simbolo importante per la sinistra e per coloro che si battono per la giustizia sociale e l’equità nel mondo del lavoro.
La riflessione conseguente è che la lotta per i diritti dei lavoratori e per l’occupazione dignitosa non è solo una questione di sinistra, ma una preoccupazione che riguarda tutta la società. Tutto ciò anche perché è possibile che in passato ci sia stata una sottostima dei problemi legati all’occupazione giovanile da parte della sinistra, senza significare che la sinistra sia stata insensibile ai problemi dei lavoratori in generale.
E, qui, occorre analizzare in profondità le accuse mosse alla sinistra, o meglio ad una certa sinistra, di essersi resa gradualmente lontana dai lavoratori e più attenta ai problemi della finanza che a loro. Quando si parla di «fasce popolari» non si intendono poi gli operai, già slittati a destra dai primi anni 2000. Ma tutta una serie di categorie che si sentono tradite dal centrosinistra, colpevole di aver abdicato al suo ruolo di rappresentanza: dipendenti pubblici, disoccupati, ma anche dipendenti privati intimoriti dalla crisi e sprovvisti di un appiglio tra i partiti tradizionali. Categorie che chiedono risposte su problemi basilari, come il lavoro o la percezione di insicurezza. E si sono rivolti a chi dichiara di saperle soddisfare.
Assume dunque rilievo che ora i vescovi notino che molti giovani hanno un lavoro precario, il che ostacola le loro capacità e ne frustra il potenziale. Il documento esprime preoccupazione per il numero significativo di giovani che non studiano né lavorano (NEET) e che possono essere coinvolti in reti di criminalità, gioco d’azzardo, sfruttamento, droga e alcol. I vescovi sollecitano inoltre politiche nazionali e regionali per favorire l’occupazione giovanile e fornire opportunità sicure per il futuro. Incoraggiano inoltre l’impegno con le buone pratiche nei settori dell’economia, dell’occupazione e del microcredito. I vescovi concludono che l’ascolto dei giovani è essenziale per affrontare le loro preoccupazioni e fornire la dignità che viene dal lavoro.
In sintesi, visto nella giusta prospettiva, il messaggio della CEI per la Festa dei Lavoratori del 1° maggio 2023 è un richiamo alla responsabilità di tutti i membri della società nel fornire opportunità di lavoro sicure e dignitose ai giovani, indipendentemente dalle appartenenze politiche. La lotta per i diritti dei lavoratori e per l’occupazione dignitosa dovrebbe essere un obiettivo comune di tutta la società.
È anche vero che in molti paesi occidentali la sinistra ha subito una perdita di consenso tra gli operai e i lavoratori più tradizionali, che si sono spostati a destra o sono diventati astensionisti. Tuttavia, non è necessariamente corretto affermare che la sinistra abbia abbandonato questi elettori o che sia più attenta ai problemi della finanza, tanto meno questa è l’intenzione della CEI, che altrimenti la metterebbe in politica.
Il dibattito a sinistra deve comunque tenere conto di dati di fatto innegabili. Se, in molti paesi, la sinistra continua a rappresentare i lavoratori e a difendere i loro interessi. Si tratta anche di alcuni paesi europei, dove la sinistra ha sostenuto politiche di protezione sociale, salari minimi più elevati, maggiori diritti dei lavoratori, pensioni dignitose e accesso all’assistenza sanitaria, e allo stesso tempo, ha cercato di riformare il sistema finanziario per renderlo più equo e responsabile.
Ma ciò è avvenuto in Italia? Siamo effettivamente in un paese dove la sinistra ha perso parte del suo consenso tra le fasce popolari e che ci sono categorie di lavoratori che si sentono tradite dal centrosinistra. In parte, questo può essere dovuto a una mancanza di comunicazione efficace da parte della sinistra o alla scelta di adottare altri cavalli di battaglia, che ben conosciamo. L’urgenza di valutazioni di merito, serie e capaci di ottenere effetti, è evidente.
L’augurio è quello che il prossimo non sia più soltanto un primo maggio di opacizzate bandiere rosse, ma finalmente una celebrazione trasversale a tutta la società che lavora e produce. Ci riusciremo?
Antonio Rossello