Un po’ di storia dal Novecento ad oggi, tra lotte di piazza e movimenti, casi irrisolti nel mondo e prospettive tuttora da trovare.
di Antonio Rossello
Senza incorrere nella scorciatoia di inventare neologismi o termini che altro non sono che la cifra di come sia distante un certo linguaggio dai problemi quotidiani che ci assillano.
Come ogni anno, ossia da sempre per quanto noi boomers possiamo ormai ricordare, l’appena trascorso 8 marzo è stata festeggiata la Giornata internazionale della donna. Fra mimose e frasi augurali, non di rado galantemente giunte dai maschi, non potevano mancare anche le solite storie ispirate al tema da parte donne eccezionali o meno. In questo modo, i media hanno potuto alimentare le proprie narrazioni, rincorrendo neologismi per descrivere fenomeni e situazioni nuove, figlie del tempo che viviamo, anche per ben precisi fini di cui volentieri ci risparmiamo l’analisi.
Non molti conoscono approfonditamente la storia, ahimè spesso omessa o strumentalizzata, di questa celebrazione che trae origine dal femminismo della prima e seconda ondata. La prima di esse è riconducibile alle rivendicazioni politiche delle suffragiste riguardo all’inclusione con diritto di voto delle donne nei sistemi democratici moderni. La seconda ha mostrato una valenza più culturale, maggiormente incentrata su dibattito e confronto, allo scopo di rivoluzionare la visione e gli immaginari associati alla femminilità intesa in senso stretto, oltre alla conquista di numerosi diritti civili, da non dare oggi per scontati.
Perché la data cade proprio l’8 marzo? In realtà la ragione non è così chiara e sembra legata più alla leggenda che alla storia. A lungo si è detto che in quel giorno, nel 1908 o 1910, in un incendio in una fabbrica di New York fossero morte molte operaie, ma di questo evento non vi è traccia storica.
Certo, però, è passata molta acqua sotto ai ponti dalla prima volta in cui si parlò di una giornata internazionale delle donne. Era il lontano 1910. Nel corso della seconda Conferenza Internazionale delle Donne Lavoratrici, tenutasi a Copenhagen nell’ambito dell’VIII Congresso dell’Internazionale socialista, dove Clara Zetkin – leader socialista tedesca che dirigeva «Die Glechheit» (L’Uguaglianza), un giornale socialdemocratico che, nel 1912, superò le centomila copie – propose l’idea a più di 100 gruppi femministi, partiti socialisti e unioni di lavoratrici appartenenti a 17 Stati diversi.
Il portato di quelle determinazioni si riflette sulla società contemporanea. Come? La questione non è futile come si potrebbe pensare. Chiunque abbia qualche nozione di etnolinguistica sa che ogni cultura produce le parole di cui ritiene di avere bisogno: dunque non sono sufficienti i neologismi. In effetti, mi è scappato veramente da ridere a leggerne qualcuno anche su queste pagine. Sono termini coniati da quei campioni della lingua che, per continuare a dir nulla, fingono di dire molto.
Chi parla sempre molto è destinato a capire poco. Chi non chiude mai la bocca non apre mai la mente. Insomma, questi neologismi servono solo per non usare il vecchio vocabolario con le parole più vecchie ma più semplici. E per non dire che in questa società, oggi, determinate disuguaglianze permangono.
Ben altro, occorre per descrivere, sebbene a parole, un processo che ha condotto nel nostro Occidente all’affermazione della donna. Un risultato che però presenta storture, che sovente guarda ad un modello di donna di successo, una figura che vanta raggiungimenti meramente individuali, dovendosi districare fra lavoro produttivo e compiti di cura.
Inoltre, è emersa una donna economicamente autonoma, che può scegliere. Una donna che può scegliere, permettendosi di non accettare pretendenti indesiderati. I tempi delle zitelle bisognose di sistemarsi per campare sono finiti da un pezzo. Tuttavia, non è finita, né accenna a finire, la percezione della donna quale un bene di consumo, un accessorio, una preda, un essere il cui desiderio sessuale è al meglio reattivo, al peggio guidato da motivazioni utilitaristiche. La donna, si dice, desidera l’uomo potente e penalizza l’uomo normale.
In un simile contesto, appaiono pertanto ancora lontani dalle iniziali istanze del movimento femminista, almeno quello che abbiamo conosciuto, molti degli slogan trasmessi durante questa giornata.
Forte è il contrasto tra paesi come il nostro dove donne hanno raggiunto posizioni di potere, basti pensare a Giorgia Meloni e a Elly Schlein, con altri come l’Iran di Mahsa Amini e di tutte coloro che mettono a rischio la loro stessa vita per riprendersi la libertà. Attualmente la realtà femminile contempla anche drammi si sfrangiano in molteplici immagini che forse non avranno mai occasione di palesarsi dinanzi a una telecamera. Eccone alcune tra le tante, laddove l’essere obbligate all’uso del velo è soltanto un caso eclatante, forse nemmeno il più grave. Evocano imposizioni sociali, politici e religiosi a cui le donne sono sottoposte e alle molte di loro nel mondo tentano di sottrarsi: gli uomini hanno sempre spiegato alle donne la vita, l’universo e tutto quanto. Non è semplice, in quanto significa puntualmente disobbedire e rinnegare prescrizioni dettate da famiglie e società d’origine, ossia mettere in discussione ciò che ci si aspettava da loro, in quanto figlie o moglie in un regime ancestrale di subordinazione all’altro sesso. Un faticoso e doloroso esercizio per farsi spazio, occuparlo e mantenerlo.
Dunque, donne talora abusate dalla furia femminicida. Giovani donne che hanno solo possibilità di studiare di nascosto sotto i talebani. Ragazze in fuga da padri per non finire costrette a matrimoni combinati. Ed ancora quelle che cadano nei gangli del racket della prostituzione, le vittime dello sfruttamento lavorativo, di mille altre forme oltraggiose.
Tristi condizioni esistenziali radicate e persistenti. Osservandone ragioni e fattori di mutamento, constatiamo ad esempio che solo negli ultimi decenni della storia del mondo le donne hanno cominciato a esercitare una forma di controllo sulla propria sessualità, incrinando l’idea atavica che il corpo di una donna sia terreno di conquista del desiderio maschile. Un’idea tutt’oggi non del tutto estirpata, ma che va comunque affievolendosi anche in proporzione all’ingresso sempre più massiccio delle donne nel mondo del lavoro.
Giungono quindi non solo voci di donne di paesi lontani, gridano di una lotta che è molto più universale di quanto sembri. Chi non si sente toccato? E, purtroppo, viene da chiedersi se abbia veramente senso festeggiare l’8 marzo, se, nonostante i passi in avanti formalmente compiuti nel campo dei diritti, nonostante i riconoscimenti esistenti a livello internazionale, ci sono ancora gruppi femminili che continuano oggi ad essere discriminati e vessati sistematicamente, per via di logiche che dal maschilismo risalgono al patriarcato, un nome che esprime un retaggio culturale antichissimo, fatto di pregiudizi di genere, supremazia maschile percepita, autorevolezza auto-conferita.
In tal senso, va detto che esistono realtà avanzate dove sono stati avviati percorsi di presa di coscienza per uomini autori di violenza e se riscontrano i successi in termini di “cambiamento”.
Da quella presa di coscienza – attraverso la quale viene riconosciuta una ignorante, una arroganza – nasce una nuova consapevolezza; dalla designazione di un concetto, di un’azione, di una cultura, può nascere la possibilità di affrontare un nodo centrale della cultura e della società.
Ma va altrimenti detto che spesso il concetto di “violenza di genere” viene erroneamente ridotto a quello di “violenza esclusiva dell’uomo sulla donna”, quasi come se l’uomo fosse vocato a sempre e solo al ruolo di carnefice e la donna a quello di vittima. Non esiste il contrario? Sebbene, nella società in cui viviamo appaia inconcepibile che l’uomo possa essere oggetto di violenza da parte di una donna, tutto ciò può accadere. Certo più raramente, ma può accadere, con casi in cui la violenza non solo non viene denunciata, ma il più delle volte gli stessi uomini faticano a riconoscersi nel ruolo di vittima.
Che fare: due pesi e due misure? Ci sono voluti anni di appoggio e supporto per incoraggiare le donne a denunciare la violenza domestica invece per sensibilizzare gli uomini non è stato fatto nulla. È dunque opportuno investire in ricerche senza schematismi, essere coscienti dei mutamenti della società, dei ruoli che si uniscono e si ridefiniscono.
Aldilà della retorica di una festa che dovrebbe non solo celebrare l’attivismo del passato, le lotte del presente e gli scontri del futuro, ma simboleggiare il raggiungimento dell’equità di genere, non possono risuonare vuote le parole pronunciate da Papa Francesco alle Donne: “Rivolgo un saluto a tutte le donne che ogni giorno cercano di costruire una società più umana e accogliente. E un grazie fraterno a quelle che in mille modi testimoniano il Vangelo e lavorano nella Chiesa. Questa giornata è per noi l’occasione per ribadire l’impegno delle donne e l’importanza della presenza delle donne nella nostra vita. Senza le donne, il mondo sarebbe sterile: portano la vita e ci trasmettono la capacità di vedere oltre, capire il mondo con occhi diversi, un cuore più creativo, paziente e tenero”. (Dopo l’Angelus, 8 marzo 2015).
D’altronde, se troppe discussioni sterili faticano a inserirsi nei percorsi un tempo prestabiliti dal femminismo e vengono, spesso, sminuite e messe da parte, un simile messaggio riporta alla centralità della questione, sotto un più ampio ombrello di possibilità che può comprendere ed armonizzare sia gli aneliti femminili che quelli maschili.
Antonio Rossello