Parla Anna Maroscia, già funzionaria della Camera di Commercio di Savona e Presidente Società Dante Alighieri di Savona: “La cultura incrementa il turismo e il turismo alimenta l’economia”. E non dimentica la figura del padre, vittima del nazi-fascismo, in un prezioso volume di memorie.
di Gianfranco Barcella
Anna Maroscia: “La mostra dei quadri, a soggetto floreale, presente al Priamar, fino al 12 marzo p.v. dal titolo : “Il Labirinto Verde” da me ideata e voluta si abbina ad una esposizione di piante aromatiche e fiori tipici della floricoltura savonese, realizzata dai floricoltori, aderenti alle associazioni CONFAGRICOLTURA e CIA L’allestimento è stato curato dai frequentatori del Corso di Laurea Magistrale in Progettazione Aree Verdi e del Paesaggio presso il dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova. Ho voluto abbinare uno spaccato della bellezza di natura, quella che si riflette dentro di noi come un mistero irrisolto e sa darci la serenità dopo periodi di tristezza, ai prodotti della terra che ad ogni giorno,la incarnano”, rimarca con giustificato orgoglio Anna Maroscia. E prosegue: “Come sempre noi della Dante non costruiamo a caso le nostre attività ma offriamo a coloro che ci seguono, in particolare ai giovani, un filo conduttore per riflettere e approfondire attraverso l’arte e la cultura importanti problemi filosofici ed esistenziali ma anche economici perché la cultura incrementa il turismo ed il turismo alimenta l’economia. E nella nostra terra di Liguria occorre ricordare che il turismo, nel 2019 ha prodotto beni e servizi, stimati in 5 miliardi e 288 milioni, importazioni per 2,3 miliardi(di cui il 64,2% provenienti da altre regioni italiane ed un’occupazione pari a 72 mila unità di lavoro, di cui il 58,6, erano dipendenti”.
“Per tutta la sua vita professionale ha creduto in questi valori con una operosità instancabile che dura ancora…”
“Sebbene si viva in una fase storica in cui prevale il paradigma della globalizzazione economica, la cultura rimane essenzialmente alla base dei processi di sviluppo, rimanendo strettamente collegata ai risultati economici dei vari paesi. Questo è un fatto ancora sottovalutato nei paesi industrializzati dove prevale l’attenzione ai valori solo della performance economica come se fosse determinata, in una vita propria, esclusivamente dalle forze produttive. Ma occorre ricordare che il valore culturale, non è solo presente nei singoli prodotti e servizi, ma anche nella stessa impresa. Io ho sempre creduto nella valorizzazione della componente culturale dei prodotti e dei servizi liguri, promuovendo lo sforzo di proiezione delle imprese locali anche all’estero. Bisogna sottolineare inoltre che l’imprenditore stesso con la sua opera assume anche il ruolo di mediatore culturale”.
Ha dato di recente alle stampe anche un volume biografico sulla figura di suo padre Nicola dal titolo: “ IL SENSO DELLA VITA, UNA VALIGIA DI RICORDI DALL’ORRORE DEI LAGER ALLA MAGIA DELLA VITA “
“Il libro nasce dal ritrovamento di lettere e diari trovati dopo la morte di mamma. Il mio papà Nicola, quando era in vita, non ci raccontò molto della sua prigionia, patita durante la Seconda Guerra Mondiale e la lettura di questi scritti mi ha permesso di fare luce su un periodo oscuro e doloroso. Forse mio padre non aveva trovato la forza di rivelarci tutte le sofferenze ed i patimenti subiti o forse non ha mai voluto rattristarci. Inviato in Grecia nel 1940, nel ’43 dopo la strage effettuata dai Tedeschi, fu portato con altri suoi commilitoni nei campi di concentramento per lavorare in condizioni disumane. Riuscì a scampare da quella terribile esperienza e tornò nel 1945 ma non visse a lungo. Fece ancora in tempo a trasferirsi a Savona per offrire ai figli, più possibilità di futuro. Ci lasciò per sempre a poco più di 50 anni di età. La mia pubblicazione contiene dei pensieri pieni di amore e ammirazione per mio padre e per tutti coloro che come lui hanno patito la terribile esperienza della seconda guerra mondiale e della deportazione. Primo Levi ha detto: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. E proprio seguendo questa considerazione assolutamente condivisibile ho voluto dare alle stampe una vicenda unica, e nel contempo simile a molte altre su cui ancora oggi è bene riflettere”.
Può entrare più nel dettaglio?
“Nicola Maroscia è nato nel luglio del 1914. I suoi genitori gli sono mancati quando lui aveva appena tre anni e fu affidato alla Casa degli Orfani di Guerra nella città di Campobasso, ricevendo una educazione religiosa. Tra gli orfanelli rimase fino a 19 anni, ed in seguito intraprese il lavoro di vignettista presso il Corriere di Campobasso. Si legò alla famiglia di una giovane di nome Teresa che in seguito divenne sua moglie. A soli 21 anni svolse il servizio militare, negli anni ’40 del Novecento e dovette affrontare anche i travagli della seconda guerra mondiale, assegnato in qualità di combattente, prima a Chieti, poi inviato sul fronte del Moncenisio ed infine a San Cesareo sul Panàro. Non c’era alternativa. Nicola era destinato ad essere inviato oltremare. Passata anche questa vicenda trovò consolazione nel matrimonio che avrebbe dovuto aprirgli un duraturo progetto di vita a due e più. Nove mesi dopo, infatti, accolse con grande gioia, la nascita della prima figlia Anna. Ma non passò molto tempo che il 17 settembre del 1943, Nicola venne caricato su un treno composto da una cinquantina di vagoni merci scoperti. <Compimmo un viaggio indescrivibile attraverso la Grecia e poi zigzagando per la Bulgaria> si legge nel libro narrato in prima persona, che io ho voluto realizzare, seguendo fedelmente gli scritti lasciati da mio padre.
Il suo diario prosegue così: <Dopo la Bulgaria entrammo in Germania. La mattina del 5 ottobre scendemmo in una stazione e dopo aver camminato a piedi per quattro chilometri, arrivammo al Campo Prigionieri IB di Hohemstein, in Prussia Orientale, vicino ad Hindeburg. I Tedeschi avevano realizzato 17 campi tutti elencati con i numeri romani e nel circondario erano stati ubicati altri sottocampi. Quello di Hohenstein era praticamente un paese di baracche, basse per resistere ai rigori dell’inverno. Eravamo circa 15 mila Italiani ma vi era anche molte migliaia di Russi e di Francesi”. Ed ancora papà Nicola racconta i suoi giorni in quei luoghi del dolore: “Al campo IB la vita era dura: sveglia alle 4 e mezza con un freddo terribile e di gran carriera, lesti sempre, si affrontava la nuova giornata di prigionia altrimenti non ci lesinavano botte e ci privavano dei pasti. A metà mattinata l’unica cosa che ci concedevano era il tè: alle 10,30 un rancio di patate non sbucciate con verdura acida e poi, per il resto della giornata, 300 grammi di pane con un po’ di burro e marmellata che serviva a darci un po’ di energia per il lavoro, ed ancora il tè del pomeriggio”.
In quel lager Nicola non restò molto. Così riprende la narrazione: “Il 17 ottobre ci fecero il bagno, la disinfezione, la fotografia e ci caricarono nuovamente sul treno. Viaggiammo tre giorni e arrivammo al campo IVB Stalag Zeithain. Lì vicino c’era il sottocampo di Mùhlberg, luogo terribile dove poi sapemmo che furono accatastati migliaia di prigionieri morti per gravi malattie dovute a mancanza di igiene, malnutrizione, lavoro coatto, tubercolosi. Devo dire che per noi, al campo IV ci fu invece un miglioramento delle condizioni di sopravvivenza, soprattutto perché la temperatura era più mite ma anche il vitto era più pulito, così come la disciplina meno dura”.
In quel luogo Nicola come tutti gli altri prigionieri, aveva un pensiero assillante: la posta e la condizione della propria famiglia di cui non conosceva la sorte. “In quel luogo -continua il prigioniero- non riuscivo a dormire perché nelle ore notturne pensavo di continuo alla mia Teresa ed alla mia figlioletta Anna che non avevo ancora conosciuto e che cresceva senza il suo papà mentre si ripeteva il mio triste destino”.
Nel frattempo sopraggiunge il Natale e Nicola non aveva ancora ricevuto alcuna lettera dalla sua famiglia. Seguirono altri spostamenti, fino al fatidico giorno della liberazione. “Gli alleati entrarono nel lager a fine aprile del 1945 con alcuni carri armati e soldati che filmavano, fotografavano, distribuirono cibarie-spiega Nicola– Anche all’indomani della liberazione, però la nostra odissea non finì. L’uscita dal campo iniziò con gli ammalati gravi, con i più deboli, e man mano venivano da noi che eravamo ancora in grado di sostentarci da soli. L’ostacolo maggiore che si frapponeva tra noi ed il nostro ritorno erano proprio le condizioni delle ferrovie tedesche ed italiane, ripetutamente bombardate. Pur rendendomi conto di essere finalmente libero ed al riparo da tutte le atrocità che avevo subito, pensai che mai avrebbe potuto abbandonarmi il ricordo dei campi di concentramento, di lavoro e di sterminio”.
Di lì a breve, nel ’52 Nicola decise di trasferirsi con la famiglia dal Molise alla Liguria, prima nelle due Albisole, poi a Savona. Così continua la narrazione “La nascita di Antonio, il mio secondo figlio, mi rimise al mondo, ripresi a lavorare, a fare progetti, a pensare al futuro che pensai di costruire in un luogo dove i ragazzi avrebbero potuto avere più possibilità di studiare, di lavorare ed io magari, di dimenticare. Purtroppo però il mio stato di salute, probabilmente compromesso dalla prigionia, non resse a lungo”. Dopo solo 14 anni di vita vissuta tra gli affetti familiari, Nicola fu colpito da un ictus e il 19 dicembre 1969 a 55 anni, morì, avendo la possibilità di godere della vista del suo nipotino, Federico (Berruti), ex sindaco di Savona, solo per due anni.
Ed ecco l’idea del libro…“Questo libro-prosegue Anna Maroscia– nasce dal linguaggio del silenzio, legato al dolore, alla lontananza, alla solitudine, al pudore di mio padre. Dopo la morte di mia mamma nel 2004, ho ritrovato diari, lettere, immagini di quel periodo di guerra, conservati con cura. Il babbo non aveva mai trovato la forza di raccontare ai suoi figli il dramma di cui era stato protagonista E’ proprio perché ne sono venuta a conoscenza in modo così doloroso e tardivo che ho voluto ricostruire le vicende della mia famiglia, mettendomi nelle vesti di mio padre, seguendone il percorso esistenziale. In questo volume, oltre il racconto di Nicola, sono presenti fotografie dell’epoca e di famiglia, lettere e frammenti di diario. Arrivati a questo punto è il caso di dirlo: non è facile trovare un senso alla vita, come vuole trovarlo il libro, ma è ancora più difficile scoprirlo nelle atrocità, messe in campo durante la seconda guerra mondiale. E spero ardentemente che non accadano mai più, vicende simili che sono state disumane”.
Gianfranco Barcella