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Nell’Europa verde speranza, Roma stoppa il Superbonus


Nemmeno una cima potrebbe capire ormai cosa stia succedendo in un simile groviglio. Nei propositi dell’UE essere leader nelle tecnologie energetiche pulite per migliorare la sua base industriale, e creare posti di lavoro di qualità per conseguire gli obiettivi del Green Deal.

di Antonio Rossello

Tuttavia, la confusione è massima. D’altro canto, le direttive imposte nei giorni scorsi da Bruxelles in tema di auto e casa dove veramente ci porteranno? Intanto a Roma il piatto piange e in controtendenza viene stoppato il Superbonus. 

La transizione Green ci è stata più volte venduta come un’idea di futuro per affrontare la crisi.

Non pochi soloni hanno nel tempo proclamato che la green economy è per l’Italia, più ancora che per altri paesi, una chiave eccezionale per fronteggiare le sfide che abbiamo davanti, mobilitando le migliori energie. Edifici e auto gli elementi su cui capillarmente intervenire per un’azione incisa di larga portata.

Ed eccoci al punto di svolta, finalmente per certi, purtroppo per altri, Bruxelles ha dettato le nuove regole. Sintetizzando all’osso, leggiamo dai giornali che la direttiva europea sulle case green impone, per giungere a zero emissioni nel settore edilizio entro il 2050, l’obbligo dell’obiettivo della classe energetica E entro il 2030 e D entro il 2033.

Toccherà insomma tutti o quasi: in Italia sono oltre 9milioni gli edifici che dovranno essere ristrutturati, oltre il 70%. Sarà una bella presa per i fondelli per quanti avevano sperato nel Superbonus 110%, inerente sostanzialmente allo stesso tipo di intervento? A parole fortemente voluto dalla politica, in pratica si era quasi subito arenato per via di una miriade di adempimenti burocratici borbonici, del blocco bancario della cessione dei crediti e da mille inenarrabili intoppi. Cantieri fermi a metà, imprese in difficoltà finanziaria e clienti disperati: questo il topolino partorito dalla montagna.  Nondimeno, secondo studi di settore, il PIL pare essere stato trainato al rialzo dalla minima parte dei lavori che è stata realizzata.

Dulcis in fundo, la mazzata dell’ultima ora. Udite, udite! Nei palazzi romani del potere che da tempo vedevano come fumo negli occhi il Superbonus, è stato addirittura deciso lo stop completo allo sconto in fattura e alla cessione del credito. Insorgono subito le imprese, sentendosi maggiormente messe alla gogna.

Tradotto per i comuni mortali, dall’entrata in vigore del famigerato decreto, per i vari interventi edilizi non sarà più consentito l’utilizzo delle due opzioni. Per la solita magnanimità sui diritti acquisiti, fanno eccezione gli interventi per cui sia già stata presentata la Cilas, sempre che il sistema creditizio si rimetta in riga. Non ci stanno i costruttori edili, la cui associazione, l’Ance, lancia l’allarme che si sia ritenuto di affossare famiglie e imprese in nome di non si sa quale ragion di Stato. Altra gente a casa per la crisi della casa, fuor di metafora. Un disastro: se dopo lo stop del governo lo spartiacque è la presentazione della Cilas, ma anche per chi ha già chiuso i lavori resta il blocco di fatto per la vendita agli sportelli bancari. Critiche le opposizioni, M5S, gran patron del Superbonus, in primis, Dem e compari a fare da gregari, con il distinguo di Calenda, forse vocato prima o poi a fare da stampella al Governo. Quest’ultimo deve considerare veramente malmessa la situazione finanziaria nazionale, viene infatti anche fermata sul nascere l’esperienza da poco avviata da alcuni enti pubblici di acquistare i crediti incagliati: non potranno più farlo. Una frenata di colpo che ferma di fatto un fenomeno che aveva preso piede da poco, ma che aveva avuto un certo seguito. Ma proprio questi acquisti, secondo i dati Eurostat, avrebbero impatto diretto sul debito pubblico, nella conferenza stampa ha spiegato Giorgetti, ministro dell’Economia, mettendoci la faccia, nel giorno in cui Giorgia Meloni ha marcato visita per l’influenza. Una malattia diplomatica?

In questo bailamme, veniamo quindi all’altro punto. Di fronte ad una crisi lunga e difficile del mercato automobilistico tutti sappiamo che non basta interrogare gli aruspici per indovinare il futuro. Soprattutto se interpelliamo gli stessi che nel passato recente si sono rivelati del tutto incapaci di prevedere la crisi o l’hanno, addirittura, in parte provocata.

In effetti, non è dato per ora di capire quanto ci sia da gioire se, per quanto riguarda le auto, è giunto anche dal Parlamento europeo lo stop alle immatricolazioni di macchine a diesel o benzina a partire dal 2035. Come risultato, da quella data in poi si potrà circolare con le proprie vecchie auto diesel o benzina, ma che se si acquisterà una nuova vettura, la stessa dovrà essere a trazione elettrica.

Tanto per capirci, nello scorso gennaio in Italia lo stato delle immatricolazioni era il seguente: il 26,7% mild hybrid, il 26,5% a benzina, il 19% diesel, il 10% ibride, il 4,7% ibride plug-in e il 2,5% elettriche pure. Una bella rivoluzione, dunque, ma anche una drammatica corsa contro il tempo da parte delle case costruttrici per adeguare tecnologie e produzioni; una intera filiera rischia di non farcela, con possibili drammatiche ricadute sul piano occupazionale.

Più in dettaglio, vero è che tutte le case automobilistiche europee hanno varato maxi piani di investimenti per la svolta elettrica e si sono imposte obiettivi ambiziosi e anche più ravvicinati rispetto al 2035. Giusto, poi, dire case automobilistiche europee, perché una italiana non c’è più: non illudiamoci che la testa pensante di Stellartis sia a Torino come ai tempi della FIAT; ed è un altro lato della beffa.

Tutto ciò premesso, sarà ora una bella parola per i politici continuare ad asserire che dobbiamo difenderci dagli effetti della crisi garantendo la tenuta dei conti pubblici e impedendo che qualcuno rimanga indietro: se la transizione ecologica non verrà gestita bene con il sostegno della Ue, l’Europa rischia di perdere la leadership nel settore dell’auto che coinvolge quasi 13 milioni di lavoratori.

E sul tema, quelli che plaudono, quelli che blandiscono la buona fede del comune mortale, hanno raccontato che nella sfida tecnico-economica che si prospetta è enormemente avvantaggiata la Cina e l’Europa è in terribile ritardo?

Tutto si spiega perché i concorrenti hanno in mano carte vincenti come la leadership cinese nelle batterie, e le miniere dei minerali necessari alla costruzione delle stesse prevalentemente in un’Africa che proprio la Cina sta fagocitando. A quale prezzo ci venderà allora le batterie il gran dragone asiatico?  Nemmeno buone notizie dall’altra riva dell’Atalantico, dai nostri cari storici alleati Yankees: sono quasi 400 i miliardi di dollari di aiuti previsti dall’Inflation reduction act degli Stati Uniti che stimoleranno produzioni e investimenti. E anche in questo caso contrastare le politiche del biglietto verde sarà duro, se non impossibile…sono i nostri padri padroni?

Tornando all’UE, si fa dunque presto a sciacquarsi la bocca di «green», a sognare case ad impatto zero, o di automobili non inquinanti. Principi validissimi che però devono fare i conti con la realtà e qui le cose diventano improvvisamente più complesse. E questo comporta una grande attenzione quando ci riferiamo alle aree deboli, ai lavoratori che perdono il posto di lavoro, al credito alle piccole e medie imprese, alle famiglie a reddito più basso.

C’è il rischio che alcuni perfino pensino, magari senza confessarlo, che sia ancora praticabile la filosofia dell’adda passà ‘a nuttata suggerita da Eduardo in Napoli Milionaria. Non è così. Anzi. Per contribuire al dibattito, per agevolare la comprensione, va precisato a chiare lettere che la rivoluzione green europea su case e macchine decisa dall’Unione Europea non sarà indolore e avrà un costo pesante per i cittadini. Simulando il caso di una famiglia di ceto medio, che vive in un appartamento di 100/120 metri quadrati in periferia e possiede due macchine (una citycar e una berlina), il risultato (senza considerare eventuali e auspicabili incentivi e bonus) comporterebbe una spesa che si aggira attorno ai 50 mila euro per la conversione verde dell’appartamento e un esborso da un minimo di 50 mila euro per le nuove auto. Vale a dire oltre 100mila euro.

Mica bazzecole! Poi non ci predichino il valore della coesione sociale, nella crisi, non è qualcosa che viene dopo ma una componente essenziale della risposta: una società con le pezze al culo fa molta più fatica a rimettersi in cammino. Ma quale è la direzione?

Non va assolutamente negato che la transizione energetica sia una grande occasione di cambiamento, un’opportunità per affrontare le questioni aperte da tempo per quanto attiene all’ecologia.

Non va rinnegato il senso della green economy, intesa non solo come insieme delle attività direttamente connesse alle questioni ambientali, a cominciare da quella dei mutamenti climatici e degli impegni assunti dall’Italia in sede mondiale ed europea. Sarà per il momento poco, ma basti pensare al discreto sviluppo che, bene o male, hanno raggiunto nel nostro paese le fonti rinnovabili. Uno sviluppo che però deve ora confrontarsi e cimentarsi con la necessità di avviare il pieno ingresso nel mercato, di rafforzare la componente italiana della filiera, di garantire maggiore protagonismo, anche a livello internazionale, del nostro paese e delle sue imprese di eccellenza in progetti ambiziosi.

In caso contrario, predisponiamoci al peggio: come sosteneva Seneca, non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare. E ricordiamoci che chi si professa amico dell’ambiente può farlo anche perché dietro ci sono degli interessi: questa è una delle molteplici facce del capitalismo.

Antonio Rossello


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A. Rossello

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