Quella della collana di nocciole (a resta de nisseue) è una tradizione un tempo (non so se ancora oggi) molto frequente durante le fiere di paese. Quando ero bambino, durante la fiera di s. Caterina a Varazze, non mancava mai, tra un banchetto e l’altro di cose che allora mi sembravano tutte speciali, incontrare il venditore di queste collane.
di Tiziano Franzi
I grandi erano contenti di regalarne una ai più piccoli, perché aveva il sapore della tradizione genuina, del lavoro dei campi e delle pazienti mani di chi le aveva inanellate. I giovani innamorati, poi, ne regalavano una alla galante perché si diceva che quella semplice collana fosse di buon augurio per il futuro.
In questo periodo natalizio in cui, tra le altre leccornìe del pranzo della festa, non manca mai la frutta secca, è bello ricordare la storia di Caterina, la venditrice di nocciole, a cui è stato dedicato un monumento funebre, oggi al cimitero genovese di Staglieno,
Appare difficile da credere che nel 1800 ci sia stato qualcuno che per campare , abbia svolto una attività tanto strana e improponibile come quella del venditore di nocciole e canestrelli, ma è la realtà, quella così lontana dai giorni d’oggi.
Frequentemente si vedeva, durante le sagre paesane, fiere e nei mercati, il venditore appunto di nocciole e precisamente le collane fatte con le nocciole chiamate in genovese “reste“.
C’era l’usanza tra i giovani maschi di regalare alla fidanzata una collana , una “resta” che veniva messa al collo a mò di collana, come significato di buon augurio di un felice eventuale matrimonio, e a ribadire il desiderio del fidanzato di tenere legata nel tempo la propria amata.
L’ambulante di nocciole ,che praticava quel particolare mestiere, più famosa e conosciuta nel 1800 era Caterina Campodonico, una semplice paesana ,quasi analfabeta, nata a Genova nel 1804, che girava per i mercati di Liguria vendendo canestrelli e nocciole. Risulta però, che non fosse particolarmente amata dalle sorelle, che le criticavano il fatto di avere contatti frequenti con altri collegi ambulanti uomini, dando adito alle malelingue che i suoi proventi non derivassero unicamente dalla vendita di nocciole,canestrelli e “reste” per i fidanzati.
Nel 1882 oramai vicino agli ottanta anni, e sentendo arrivare l’ora della sua dipartita dal mondo terreno, desiderosa di lasciare ai posteri un ricordo di sé, dette incarico all’allora noto e costoso scultore Lorenzo Orengo, di realizzare una statua con la sue effige e con gli attrezzi del suo mestiere : canestrelli, nocciole e reste.
Proprio con i proventi del suo lungo e faticoso lavoro, all’aria aperta col caldo afoso e con i freddi più pungenti, accantonati anno dopo anno, e forse per quel desiderio di lasciare un suo concreto ricordo a chi l’aveva amata e conosciuta, realizzò effettivamente il suo sogno: una imponente statua marmorea tutt’ora presente e visibile nel Cimitero Monumentale di Genova Staglieno.
Non fu sicuramente l’unica ma senza dubbio la più conosciuta fabbricatrice di “reste” e venditrice de “nisseue“.
“Nata in una famiglia molto umile in Portoria, uno dei quartieri poveri di Genova, Caterina Campodonico (1804-1882), semianalfabeta, si diede da fare giovanissima per scrollarsi di dosso il destino di miseria cui le sue origini l’avrebbero costretta.
“Catteinin dae reste“, come era stata soprannominata, iniziò il mestiere dell’ambulante vendendo canestrelli e nocciole, o meglio, le “reste”, come erano chiamate allora le collane di nocciole. Lei non si era limitata ai mercati e alle sagre di Genova, ma si era spostata un po’ ovunque in Liguria e basso Piemonte accumulando denaro e una fama assai singolare: secondo la tradizione le “reste” erano considerate dei portafortuna in amore e le coppie di fidanzati le acquistavano per garantirsi una vita matrimoniale felice. Grazie a questa leggenda Caterina divenne una figura molto popolare e amata. Insomma lei stessa era considerata un portafortuna.
La sua vita sentimentale invece non fu per nulla felice. Si sposò giovanissima con un tal Giovanni Carpi, di mestiere alcolizzato e sfaccendato. Si lasciarono pochi anni dopo le nozze. Giusto il detto “oltre il danno la beffa”, perché Caterina fu costretta a versargli qualcosa come circa 3000 franchi a titolo di mantenimento per aver abbandonato il tetto coniugale.
Inoltre la sua famiglia la osteggiava per questa sua vita da girovaga, in contatto con ambienti prevalentemente maschili, senza orari né regole, poi anche il divorzio; insomma Catteinin era considerata una poco di buono, e non erano in pochi a insinuare che i suoi guadagni provenissero da attività non propriamente lecite anziché da un duro lavoro quotidiano.
Ma lei era la “zia ricca” di famiglia e gli avvoltoi esistevano già allora. Quando si ammalò, nel 1880, Caterina comprese che alcuni suoi familiari miravano esclusivamente al suo denaro, faticosamente risparmiato centesimo dopo centesimo, iniziando a litigare per accaparrarselo mentre era ancora in vita, persino in sua presenza, invece di prestarle le cure di cui avrebbe avuto bisogno.
Una volta guarita, da donna volitiva e intraprendente qual era andò dallo scultore Lorenzo Orengo, molto famoso all’epoca, e gli commissionò il suo monumento funebre, mentre a Giambattista Vigo, poeta dialettale allora assai in voga, affidò il compito di scrivere un bell’epitaffio. Insomma utilizzò i risparmi di una vita per garantirsi una tomba sontuosa.
Per non essere dimenticata.
Il monumento fu collocato nel 1881 a Staglieno, il cimitero monumentale di Genova, nel porticato inferiore a Ponente, vicino a molte delle famiglie borghesi più importanti.
L’iscrizione alla base della sua statua recita:
«A sôn de vende raeste e canestrelli
All’Aguasanta, a-o Garbo, a San Çeprian
Con vento e sô, con aegua zù a tinelli,
a-a mae vecciaia pe asseguaghe ûn pan;
fra i pochi södi, m’ammugiava quelli
pe tramandame a-o tempo ciù lontan
mentre son viva, e son vea portoliann-a:
Cattainin Campodonico (a paisann-a)
MDCCCLXXXI
Da questa mae memoia,
se ve piaxe
voiatri che passaè
preghaeme paxe. »
«A forza di vendere collane di noccioline e dolci all’Acquasanta, al Garbo, a San Cipriano, con vento e sole, con acqua giù a secchi, alla mia vecchiaia per assicurarmi un pane; fra i pochi soldi, mi ammucchiavo quelli per tramandarmi al tempo più lontano, mentre son viva, da vera abitante (del sestiere) di Portoria: Caterina Campodonico (la Paesana) -1881- da questa mia memoria, se vi piace, voialtri che passate, pregatemi pace». (Tradotto dal dialetto genovese).
Furono in molti ad andare ad ammirare la statua di marmo che ritraeva Caterina con la sottana in broccato, la camicetta in pizzo come il grembiule, lo scialle a frange, gli anelli e gli orecchini in delicatissima filigrana, esattamente come era stata in vita.
Si trattò di un vero e proprio pellegrinaggio, allo scopo non solo di ammirare un’opera di pregevole fattura, curatissima nei particolari, ma soprattutto per propiziarsi la sorte lasciando fiori e accendendo lumini. Ci fu anche chi giocò, e vinse, un terno al lotto con i numeri della data della sua morte (7 luglio 1882). Ancora oggi ai piedi della sua statua sono presenti lumini e fiori, segno di quanto una tradizione possa essere viva anche dopo più di un secolo.”
Tiziano Franzi