Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’articolo su Giovanni Burzio uscito sul mensile Il Letimbro di dicembre 2022.
Poco più che bambino ha vissuto gli anni della Resistenza. E ne è diventato strenuo testimone. Don Mazzolari e Dossetti suoi ispiratori, fraterno amico ed estimatore di don Bof, don Genta e don Ravera. Cattolico osservante, cresciuto ai Salesiani, fu protagonista dello “strappo” con una lettera all’allora vescovo Parodi in cui annunciava che, deluso dalla Dc, avrebbe votato Psdi alle elezioni comunali. Ufficiale dell’Aeronautica, primo impiego alla Piaggio, poi alla Ferrania dove maturò l’impegno sindacale. La passione per i fumetti. Studi e amori negli Stati Uniti, poi la segreteria Cisl, l’impegno frustrato per l’unità sindacale, ambasciatore della Berliner Konferenz nei paesi dell’Est. A 93 anni la voglia di raccontarsi e la vocazione editoriale con il volume di 548 pagine dal titolo – “1940. Il mondo verso il baratro?”.
di Luciano Angelini
Cattolico osservante, impegnato nello scoutismo, tra i fondatori della Gioventù cattolica, abbeveratosi alle fonti di don Mazzolari e di Dossetti, ispirato dalle parole e dagli esempi di don Genta (“Fucina di pensiero, di azione sociale e di solidarietà”), del teologo don Giampiero Bof, uomo dalla raffinatissima cultura, e di don Silvio Ravera (“Una figura di grande rilievo nella vita della città, soprattutto sul versante sociale, ma anche sotto il profilo culturale con la costruzione della chiesa di San Giuseppe al di là del fiume”); cultore quasi filiale del magistero di due giganti come padre Turoldo e il cardinale Martini, affascinato dal cardinale Pappalardo, rimastogli nel cuore dopo il suo anatema ai funerali del generale Dalla Chiesa (“Mentre a Roma si pensa sul da fare, Sagunto viene espugnata dai nemici…”); un comune sentire da non comunista con la storia umana e politica di Enrico Berlinguer; utopistico sostenitore dell’unità sindacale; testimone e difensore dei valori della Resistenza; orgoglioso di aver fatto parte della Conferenza di Berlino dei cattolici europei; non ultima, la passione per i fumetti che, da raffinato collezionista e curatore di mostre, ha arricchito con l’amicizia con Aurelio Galleppini, papà di Tex Wyller.
Giovanni Burzio, novant’anni contati per difetto (data di nascita 7 febbraio 1929), è tutto questo, e tanto altro. Un boy scout capace di compiere un vero e proprio “strappo” alle regole non scritte del mondo cattolico negli ingessatissimi anni ’50 del muro contro muro di Dc e Pci. Lo praticò con una lunga e articolata lettera al Vescovo monsignor Giovanni Battista Parodi in cui con l’amico Piero Frumento rivendicava “la possibilità di dare il voto a candidati non cattolici”. Di fatto l’annuncio di non votare Dc alle imminenti elezioni amministrative, motivandola con un vero e proprio j’accuse nei confronti del “partito della Dc che, postosi come assertore e difensore dello stato sociale, non ha saputo fare nulla o quasi per alleviare l’attesa della povera gente mancando in pieno i suoi fini sociali”. Il successivo incontro con monsignor Parodi non portò a nulla. Anzi. Burzio nel 1959 entrò in consiglio comunale, nel 1960 fu rieletto nelle liste del Psdi, sindaco Angelo Carossino (Pci).
Raccontare Burzio non è facile. Tutto comincia in via Vanini 2, dov’è nato, in una casa densa di affetti: papà Antonio, macchinista delle Ferrovie, mamma Lucia, nonno Angelo, che lo portava a vedere i treni al passaggio a livello di via Trincee, i canarini allevati con amore dal papà, la passione per i fumetti. Un quadro in rapido e drammatico mutamento soprattutto per quanto gli accadeva intorno: la follia del nazi-fascismo, le deportazioni, i bombardamenti, i lutti, le notti nei rifugi e da sfollato a Sale Langhe, l’epopea partigiana, fino ai giorni della Liberazione.
Un lungo percorso affiancato di anno in anno da compagni di viaggio tra loro diversissimi per pensiero, ideali e cultura. Nel riavvolgere il nastro dei suoi ricordi si incontrano e si intrecciano Emilio Lagorio, Arrigo Cervetto, Ugo Tombesi, Carlo Trivelloni, Umberto Scardaoni, Armando Magliotto, Carlo Giacobbe, Salvatore Vento, Santo Imovigli, Marco Sabatelli, Bruno Marengo, Elio Ferraris, Franco Astengo. A tutti a ha saputo sottrarre qualcosa. Tutti, da diverse angolazioni, gli hanno aperto orizzonti sul piano etico, morale, politico, sociale, sindacale.
Un viaggio senza mai sottrarsi a rischi e paure di distacchi e distanze, solitudine e incertezze. Come in quel lontano 28 gennaio del 1958, quando attraversò l’Oceano, destinazione Columbia University. Volo Roma-Parigi su turboelica Air France, Orly-Fiorello La Guardia su un Super Constellation. Qualcosa di impensabile per non dire impossibile per un italiano medio. Il costo del biglietto aereo era di 404 mila lire, quasi dieci volte lo stipendio di un operaio (per un dollaro in quegli anni ci volevano 600 lire; un giornale costava 30 lire, un chilo di pasta 200; un chilo di carne 1500 lire”. Tutto a spese degli Usa. Obiettivo del progetto, denominato Missione sindacale At 45-303 team, potenziare i futuri dirigenti della Cisl per arginare lo strapotere della Cgil.
Burzio l’Americano, come la sceneggiatura di un film. L’arrivo a New York sotto una nevicata; lo stupore di ritrovarsi alla Columbia University, tra studenti e studentesse, come vedremo più avanti, di ogni paese; i conti da far quadrare (diaria di 8 dollari durante il periodo universitario, 12 durante le missioni); l’approccio conflittuale con la lingua; le lezioni di economisti, dirigenti d’azienda, leader sindacali, esperti di politica internazionale. Settimane e mesi su e giù in aereo per l’America, lui abituato alla tratta Savona-Ferrania in treno, per incontri e visite a Boston, Denver, Detroit, Chicago, Washington, Knoxville. E l’ingresso a Wall Street e al Palazzo di vetro dell’Onu “dove ho incrociato J.F. Kennedy futuro inquilino della Casa Bianca nel dopo Eisenhower”.
Scava, scava (ri)affiorano i ricordi dei momenti di “scarico”, diciamo così. Come il pattinaggio sul ghiaccio al Rockfeller Centre, l’escursione sulle Montagne Rocciose, i primi approcci e i “rapporti affettuosi” degni del latin lover collaudato nelle delle calde notti della Riviera; la gita alle Cascate del Niagara, le passeggiate romantiche a Central Park. Non fa fatica a ricordare Jane, la giovane insegnante della Columbia, sua ospite a
Savona nell’estate del 1960, serate al “Boschetto” di Varazze ad ascoltare le canzoni di Fred Buongusto e Bruno Martino. “Al momento di ripartire mi disse che mi aveva preso un biglietto aperto della TWA Roma-New York. Finì lì”. E ancora la love story con la sua affascinante insegnante di inglese, originaria di Taiwan, e che, confessa, “mi fece girare la testa”. E infine Madeleine, giovane artista newyorchese. Una relazione che “mi provocò pressioni e tentazioni di fermarmi o tornare negli States”. Madeleine, per decisione comune, non andò a salutarlo sulla banchina il giorno della partenza sulla “Cristoforo Colombo”.
Fine agosto ’58, si torna a casa. Con molti dubbi. “Unica certezza i 502,17 dollari su un libretto di risparmio alla First National City Bank di New York. Lo avevo aperto pochi giorni dopo l’arrivo. In tutto avevo messo insieme mille e cento dollari. Pochi giorni dopo l’arrivo a Savona andai da Andrea De Filippi, concessionario Fiat in via Guidobono, e comprai una “600”: la mia “macchina da guerra”. La attrezzai di altoparlante e set per registrare e trasmettere appelli e slogan come avevo visto a fare a Manhattan dalle Trade Unions dell’abbigliamento in conflitti sindacali. Era anche il mio palco per comizi volanti davanti alle fabbriche”.
Il rientro sulla “Cristoforo Colombo” lo ricorda come una sorta di tisana della buonanotte: “Mi consentì di metabolizzare i distacchi. L’Atlantico ci fu favorevole. Crociera ricca di momenti interessanti, di incontri, simpatie, amicizie del momento. Mi servì per mitigare le scottature, per chiudere un capitolo indimenticabile della mia vita”. Scalo a Gibilterra, sbarco a Genova. Si ritorna da dove si era partiti: la famiglia, gli amici, il rientro a Ferrania, le lotte con i chimici, la scalata alla segreteria della Cisl, l’impegno e l’onere di guidare lo Ial, il Centro professionale della Cisl di Carcare, la parentesi romana con la promozione alla guida dell’Etsi, l’Ente turistico nazionale della Cisl. Anni intensi e coinvolgenti tra crisi aziendali, fabbriche occupate, comizi, cortei, congressi, convegni, trattative sindacali, viaggi
e missioni nell’Est ante caduta del Muro con la Berliner Konferenz. E gli straordinari anni del “Calamandrei”, crogiolo di esperienze, opinioni, tendenze culturali. Burzio può vantarsi di esserne stato, tra gli altri, una delle colonne portanti con Gina Lagorio, Piero Francesco Beltrametti, Giovanni Urbani, Arrigo Cervetto, Gerolamo Assereto. Mirko Bottero ne fu deus ex machina indimenticabile, capace di catturare e portare a Savona registi come Michelangelo Antonioni, Costa Gavras e Autant Lara, che andò a prendere a Cannes in “500”, politici dello spessore di Umberto Terracini, già presidente della Assemblea costituente, Lucio Magri, Luigi Pintor, Adele Faccio, che venne ad aprire la campagna sul divorzio, e poi Dario Fo, Francesco Forte, padre Turoldo e padre Pintacuda.
Ma Sul finire degli anni ’60 svolta epocale. E’ Giovanna, Giò per gli amici, a cambiargli le prospettive di vita: “Alla soglia dei quarant’anni era venuto il momento di mettere la testa a posto”, confessa. La resa del latin lover. Matrimonio il 15 maggio 1967 nella chiesa della Villetta, viaggio di nozze tra Sardegna, Grecia, Napoli, Trieste. La famiglia si completerà con la nascita delle amatissime figlie Elisabetta e Francesca, che lo venerano come un’icona.
E’ un romanzo con molti capitoli. L’ha raccontato o meglio l’ha fatto raccontare a modo suo nelle 548 pagine del suo zibaldone il cui titolo – “1940. Il mondo verso il baratro?”. Un’opera omnia in cui sono racchiuse tutte le esperienze e le passioni di una vita: i fumetti (Flash Gordon, Mandrake, l’Intrepido, il Vittorioso, Tex Wyller a cui qualcuno lo ha accostato), l’adolescenza tra i ragazzi di via Vanini e ai Salsiani di via Don Bosco, il boy scout, l’amato Oltreletimbro, gli anni alle Industriali, l’amore per il treno (cos’altro con il papà ferroviere) e per il cielo (ufficiale di prima nomina dell’Aeronautica), i primi impieghi alla Piaggio e a Ferrania, la vocazione per il sindacato, l’irripetibile esperienza alla Columbia University, la lunga militanza a Palazzo Sisto IV, sotto le insegne del Psdi, e a Palazzo Nervi fino all’approdo alla Sinistra italiana.
Non v’è dubbio che Giovanni, dopo “Il cielo e il treno” e “Savona, l’identità perduta”, le sue due fortunate iniziative editoriali, abbia compiuto con il suo “volumone” l’ennesima impresa. C’è riuscito con la complicità di cento “condividenti”, come li ha chiamati lui: politici, scrittori, artisti, sindacalisti, ex parlamentari, sindaci, amministratori, giornalisti, esponenti del mondo culturale, fino a catturare e appassionare le agili matite degli studenti del Liceo artistico “Martini”, una goduria per lui, amante del fumetto. Ma non solo: ha mobilitato amici (molto) pazienti per reperire vecchie locandine di film (“La dolce vita” con l’immagine di Anita Ekberg; “La califfa” con la soave Romy Schneider); ha riesplorato i testi di canzoni immortali da John Lennon a Domenico Modugno (“Che emozione quando sentii cantare Volare nei miei primi giri alla scoperta di New York”), a Joan Baez, Luigi Tenco e Franco Battiato. Ha affrontato battaglie complicate e difficili in difesa del lavoro e dei lavoratori, tra scioperi, fabbriche occupate (Ape, ex Servettaz, Scarpa e Magnano, Italsider, Acna, Monteponi), cortei, manifestazioni di piazza, comizi oceanici, se rapportati al vuoto di oggi, a fianco di Armando Magliotto e Nicola Pozzi, i dirimpettai di Cgil e Uil. Non si è mai tirato indietro, a suo rischio e pericolo, come nella sfida al “clan Teardo”, sostenuto da compagni fedeli nelle idee e negli ideali, talvolta tradito proprio da chi per affinità politica avrebbe dovuto sostenerlo.
Nemmeno il Covid, e siamo alla stretta attualità, è riuscito a disarcionarlo. Ha lottato come un vecchio leone. Ha sconfitto il virus del secolo con accanto la tenace e paziente Giò e le due figlie. Un sentiero molto stretto e insidioso in cui il suo medico, il dottor Anselmo, primario del San Paolo, si è rivelato decisivo per professionalità impegno e umanità. “Una presenza costante, un grande amico che non finirò mai di ringraziare”. Nel buen retiro estivo di Vernante ha ricaricato le batterie.
Siamo al presente e, come prevedibile, non fa mancare la sua zampata da attento osservatore qual è. Non si riconosce nella deriva politica impressa dall’esito elettorale. Né potrebbe. Soffre la perdita di slancio ideale, la mancanza di leadership, l’impreparazione della classe politica, il distacco dalla società civile, l’impoverirsi del mondo del lavoro, la crisi economica, l’ascensore sociale in continua discesa. Lo tormenta il pensiero della mancanza di un futuro per le giovani generazioni. E gli si illuminano gli occhi ricordando quando, nel 1968, nel Campus universitario di Berkeley, scattò la scintilla che innescò il fenomeno planetario del Movimento studentesco. “Ma fu Mario Savio, un italiano figlio di immigrati, a fare da innesco. Era il 10 ottobre 1964. Il rettore del Campus aveva vietato ogni tipo di manifestazione. Ma quel giorno Jack Weiberg, attivista per i diritti degli afroamericani, decise di parlare ai ragazzi. Intorno a lui si radunarono tremila studenti. Venne preso di forza dalla polizia e chiuso su un’auto. A quel punto, Savio ruppe gli indugi: si tolse le scarpe e salì sul cofano dell’auto. Da lì lanciò il suo inno “Free speech”, libertà di parola. E divenne un simbolo. Ecco, bisognerebbe ritrovare quello slancio ideale, recuperare la passione per la politica e la voglia di lottare in difesa della libertà negata”.
Giovanni-Tex, e qui si ritorna alla sua passione per i fumetti, cavalca ancora. La sua è una prateria a perdita d’occhio. Solo lui ne ha percorso bellezza e mistero, insidie e limiti. Cultore di Federico Fellini e nostalgico frequentatore in anni lontani della complice penombra del cinema Eldorado, si compiace nel citare la scritta “Non vide mei di me chi vide il vero” (Dante, Purgatorio, canto XII) che campeggiava sopra il grande schermo . Un omaggio al suo grande ego. Avanti con i carri, Giovanni.
Luciano Angelini