Grazie all’immagine di Gengis Khan realizzata dal nostro Igor Belansky, scopriamo con ironia alcune curiosità su uno dei piatti più prelibati della storia della gastronomia.
di Antonio Rossello
Premessa doverosa: il tortello è sì il piatto rappresentativo, di ampie porzioni della Pianura padana, ma è pure una portata particolare, gastronomicamente scorretta. In che senso? In ogni paese: ossia in qualunque zona, quartiere, addirittura famiglia attenta alle tradizioni, si vada beh … si può trovare una sua particolare versione.
Vi sono (dunque) molteplici ricette personalizzate del tortello. Abbiamo anche sentito parlare (anche se, conoscendo i polli, poterli assaggiare non sarà facile, per la differenza che passa tra il dire e il fare…) di una ricetta di tortelli alla Gengis Khan!
Vi è, poi, la vexata quaestio dell’omonimia o meno tra ravioli e tortelli. La differenza tra i medesimi può davvero condurre a discussioni di lana caprina.
I tortelli che, come abbiamo visto hanno origini padane – anzi pare risalenti alla cucina longobarda, vista addirittura una ricetta originale del XII secolo -, assumono una forma canonica quadrangolare, più esattamente rettangolare. Il loro ripieno è molto semplice: ricotta, parmigiano e prezzemolo. Esistono, però, varianti più ghiotte, ad esempio con l’aggiunta degli spinaci, o anche con salumi, quali il prosciutto o la mortadella.
I ravioli, invece, provengono dalla Liguria; più esattamente questo formato di pasta nacque a Gavi Ligure nel XII secolo. Secondo la leggenda, furono realizzati per la prima volta nella locanda condotta dalla famiglia Raviolo, da cui il nome con cui oggi li conosciamo. Il ripieno prevede sempre la presenza della verdura mescolata a carne o formaggi, ma più frequentemente essi contengono un solo ingrediente.
Ebbene, la diversità tra tortelli e ravioli dovrebbe consistere nella forma, perché il raviolo non è rettangolare, ma sempre rigorosamente quadrato. Bisogna comunque ammettere che il confine è molto labile. Volendo, questo dibattito si può inoltre spostare sul piano internazionale, nella misura in cui anche terre a noi lontane sono caratterizzate da specialità culinarie affini ai tortelli e/o ai ravioli. Questo può dare la possibilità ad ogni cultore in materia di dissertare al riguardo in modo esclusivo (ma divisivo per il suo essere essenzialmente diverso), irriverente, talora privo di mezze misure.
D’altro canto, per capire la profondità di simili argomentazioni, esiste pure una sociologia (una sociatria ancora no, a quanto ci risulta, sebbene qui se ne auspichi la nascita!) del cibo, che analizza il ruolo del cibo e dell’alimentazione nelle società da diversi punti di vista: a partire dalla sua sostenibilità fino ad arrivare al valore della qualità della vita.
In tal senso, tornando per certi versi alla premessa, un caso interessante è quello del momo, in nepalese मम . Si tratta, in pratica, di un raviolo originario del Nepal e del Tibet, diffusosi quindi in regioni confinanti e in diverse aree dell’India, quali Assam, Delhi, Manipur, Nagaland, Meghalaya, Himachal Pradesh, Patna e Bengala Occidentale, fino ad essere stabilmente adottato e integrato nelle locali cucine. Di conseguenza, in tutte queste zone, il momo si può attualmente trovare e consumare ovunque in eleganti ristoranti, negli hotel di lusso, ma, soprattutto, sulla strada da semplici venditori ambulanti nel più classico e tipico street food.
Sulla reale origine e provenienza del raviolo nepalese e tibetano non ci sono certezze e, ad oggi, nessuno sa esattamente come e quando i momo abbiano iniziato a diffondersi in Nepal e perché siano stati chiamati in tal modo.
Tra le ipotesi prevalenti, vi sono quelle legate alle migrazioni di comunità di tibetani e nepalesi a seguito di diaspore o migrazioni per motivi economici. Ma vi è, altrettanto, una credenza in base alla quale l’origine dei momo sarebbe più antica e complessa e di origine mongola. I mongoli poi, attraverso le campagne militari ed espansioniste di Gengis Khan nell’Asia centrale, avrebbero diffuso a largo raggio questo raviolo. Ciò spiegherebbe perché, nei secoli successivi, dalla Corea all’Afganisthan passando per Mongolia, Cina, Bhutan, Tibet e India, ogni singola tradizione gastronomica abbia incorporato questi, a dir si voglia, ravioli o tortelli ripieni, personalizzandone ricetta e gusti.
In esito a tutte le precedenti considerazioni, non vogliamo ulteriormente rinunciare a dire la nostra. Questa volta ce l’abbiamo con i politici che in maniera impropria e inopportuna modificano le scelte, gli obiettivi e anche gli investimenti economici secondo logiche personali o di parte, non tenendo conto invece dell’interesse pubblico e generale delle scelte medesime, trasgredendo platealmente ogni promessa elettorale.
Ed essendo dette promesse molto spesso accattivanti, siamo arrivati ad associare le stesse a promesse di succulenti tortelli.
Quando, infine, si parla di mangiare tortelli e di appetiti (di potere), non possiamo non riferirci all’immagine satirica che ci restituisce Igor Belansky di Gengis Khan.
Nel bene o nel male, questo personaggio storico fu uno di quei condottieri contraddistinti da quel profondissimo senso dell’onore che necessariamente comporta mantenere fede ad ogni promessa. A buon intenditor poche parole!
Antonio Rossello